missioni
Nella storia delle religioni, l’incarico di diffondere un messaggio religioso conferito a determinati individui (missionari) dal fondatore di una religione o da chi ne ha avuto da lui delega o di lui ha la rappresentanza. Il fenomeno delle m. manca nelle religioni proprie di gruppi tribali e nazionali ed è presente invece nelle religioni a carattere universalistico come il buddhismo, l’islam e, soprattutto, il cristianesimo. Di m. vere e proprie si parla però soltanto quando esista un’organizzazione apposita e un definito programma.
La storia delle m. cattoliche in senso proprio comincia nel sec. 13° con le iniziative degli ordini religiosi di recente fondazione (in partic. francescani e domenicani), che organizzarono a questo fine scuole speciali per la preparazione dei missionari. Per evangelizzare il vasto impero mongolo i papi inviarono fra il sec. 13° e il 14° alcuni missionari-esploratori. Tra il 15° e il 16° sec. le scoperte geografiche aprirono nuovi vastissimi territori e infusero nuovo vigore all’opera evangelizzatrice, direttamente controllata dal Portogallo e dalla Spagna, che ottennero dal papato il diritto di patronato sulle nuove terre. Ai vecchi ordini religiosi se ne affiancarono di nuovi, anzitutto i cappuccini e i gesuiti. Per coordinare e regolare l’attività missionaria nel mondo, e per cercare di sottrarla nei territori dipendenti dalla Spagna e dal Portogallo al controllo esercitato da quei governi, il papa Gregorio XV nel 1622 istituì la Congregazione de Propaganda Fide. In particolare i gesuiti dispiegarono un’attività missionaria che in America Latina non fu di semplice proselitismo, ma anche di costruzione di concreti strumenti politico-istituzionali volti a difendere le popolazioni indigene dalla brutale politica di sfruttamento dei colonizzatori. Nella regione del Paraguay tra il 1610 e il 1628 furono create tredici comunità o «riduzioni» (reduciones) organizzate sui principi dell’eguaglianza sociale e della comunità dei beni che si proponevano come una vera e propria repubblica cristiana dove i principi evangelici venivano concretamente vissuti. In esse vivevano circa 100.000 indios. Ben presto gli indios convertiti, educati, istruiti e addestrati dai gesuiti al lavoro agricolo e artigianale senza alcuna forzatura ma con tecniche formative basate su una delicata componente spontaneistica e ludica, divennero preda ambitissima di cacciatori di schiavi brasiliani (bandeirantes), che nel giro di pochi anni ne catturarono ca. 60.000. Le riduzioni furono allora spostate più a sud, in zone meglio difendibili grazie alle Cascate dell’Iguaçu. Nelle regioni dei fiumi Uruguay e Rio Grande do Sul i gesuiti organizzarono una vera e propria milizia armata che nel 1641 sconfisse in campo aperto le truppe dei bandeirantes. Per oltre un secolo e mezzo le riduzioni gesuitiche furono un grandioso esperimento religioso, culturale e sociale nel quale gli indigeni sperimentarono una forma di collettivismo economico-sociale su base religiosa in cui incontrarono senza sofferenze e anzi con gioia il cristianesimo e il contatto con l’altra civiltà, e che è stato variamente definito dalla storiografia (Cristianesimo felice del Paraguay, Stato ideale della Controriforma). I gesuiti tendevano a realizzare in esse un’isola economicamente e culturalmente autosufficiente che riduceva al minimo i contatti con il mondo esterno, e questo destò l’ostilità dei coloni europei delle zone costiere che praticavano regole di mercato e metodi di utilizzazione della manodopera ben diversi. Tuttavia l’esperimento giunse al termine solo dopo che nel 1750 la Spagna cedette al Portogallo i territori delle riduzioni, la cui resistenza armata fu schiacciata e presa a pretesto dal marchese di Pombal per chiuderle in un contesto di avversione generale contro l’ordine dei gesuiti che spirava in tutta l’Europa del dispotismo illuminato e che provocò infine la soppressione della Compagnia di Gesù (1773). Nel contempo l’azione missionaria aveva raccolto ulteriori successi in Asia: in Cina per merito del gesuita Matteo Ricci, fra il 1583 e il 1610, nel Tonchino, nell’Annam, nella Cocincina. A essa si erano dedicate nuove congregazioni come la Congregazione della missione (lazzaristi), fondata da s. Vincenzo de’ Paoli nel 1625, e la Società per le missioni estere di Parigi (1660); in alcune regioni, tuttavia, specialmente in quelle ove il regime del patronato provocava l’ingerenza delle autorità portoghesi e spagnole, le m. di Propaganda fide incontravano spesso ostacoli e difficoltà. Ancora nel corso del 18° sec. la predicazione si spinse sino al Tibet (1703) e alla Corea (1784). Negli anni della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico la Congregazione de Propaganda fide vide confiscati i suoi beni e praticamente non poté proseguire la propria attività. Con Gregorio XVI (1831-46), che dal 1826 era stato prefetto di Propaganda fide, le m. segnarono una ripresa, giovandosi, fra l’altro, dei mezzi finanziari raccolti dall’Opera per la propagazione della fede (fondata a Lione nel 1822 da P.-M. Jaricot). La Congregazione de Propaganda fide si riorganizzò nel 1817 (mentre si ricostituirono le congregazioni missionarie come le M. estere di Parigi, i lazzaristi, i padri dello Spirito Santo, e altre). Dalla metà del sec. 19° le esplorazioni geografiche e l’espansione coloniale europea aprirono alle m. nuovi campi (regioni interne dell’Africa, Oceania, zona settentrionale del continente americano ecc.); a loro volta le m. contribuivano al progresso delle conoscenze geografiche e offrivano occasioni per l’intervento dei governi o ne appoggiavano l’azione. Se da un lato nell’insieme le m. traevano giovamento dalla protezione dei governi, dall’altra la loro attività tendeva in certa misura a confondersi agli occhi delle popolazioni locali con il dominio coloniale, attirando su di sé risentimenti e reazioni. Tra la fine del sec. 19° e gli inizi del 20° lo slancio missionario proseguì e si consolidò: nel 1889 nasceva in Francia l’Opera di s. Pietro Apostolo per il clero indigeno; altre congregazioni missionarie erano fondate in quegli anni (Società del Verbo Divino nel 1875, M. africane di Verona nel 1885, M. estere di Parma nel 1895, M. della Consolata nel 1901). Per sensibilizzare il clero verso le m. sorse nel 1916 (approvata nel 1918) l’Unione missionaria del clero. Al termine del primo conflitto mondiale il papa Benedetto XV con l’enciclica Maximum illud (30 nov. 1919) dettò nuove direttive per la ripresa dell’attività missionaria: si condannava ogni spirito nazionalistico, affermando solennemente il carattere cattolico (cioè universale e sopranazionale) delle m., ponendo in primo piano l’esigenza della formazione del clero indigeno e raccomandando da un lato la collaborazione tra le m. di nazionalità e istituti diversi, dall’altro la cooperazione di tutto il mondo cristiano all’attività missionaria con la preghiera, con il favorire le vocazioni, con le offerte. Ancor più viva la cura per le m. in Pio XI, che nel 1922 fece trasferire a Roma, alla diretta dipendenza della Santa Sede, l’Opera per la propagazione della fede e nel 1925 attuò l’Esposizione missionaria (da cui derivò il Museo missionario-etnologico lateranense, poi trasportato in Vaticano). Fra i documenti di maggior rilievo concernenti le m. emanati da Pio XII vi fu l’enciclica Evangelii praecones (2 giugno 1951), che proclamava la necessità dell’adattamento dell’apostolato alle culture locali, e la Fidei donum (21 apr. 1957), interamente dedicata alle m. africane, che auspicava il concorso dell’attività missionaria di sacerdoti diocesani e di laici. Il secondo conflitto mondiale e il susseguente processo di decolonizzazione hanno apportato profondi sconvolgimenti nelle Chiese e nelle m. di molti Paesi, alcune completamente travolte e sradicate, particolarmente in Asia. Dal 1950 la Cina continentale si staccò del tutto dal mondo cattolico. Con Giovanni XXIII la questione missionaria si sviluppò nella prospettiva generale di rinnovamento aperta dal Concilio vaticano II; specificatamente missionaria fu l’enciclica Princeps pastorum (28 nov. 1959). Con il compimento, quasi totale, del processo di decolonizzazione che ha dato vita a numerosi nuovi Stati indipendenti, i rapporti della Chiesa con questi nuovi Paesi, quasi tutti in via di sviluppo, sono mutati, essendosi pienamente costituite quasi dappertutto le Chiese locali. D’altra parte lo slancio ecumenico che caratterizza la vita della Chiesa dopo il Concilio vaticano II e il nuovo atteggiamento più positivo verso i valori delle religioni non cristiane sembrano aver alquanto raffreddato lo slancio missionario, ma a esso non hanno cessato di richiamarsi i recenti pontefici. Un importante documento missionario in questo senso è l’enciclica Redemptoris missio (7 dic. 1990) di Giovanni Paolo II, che pone la persona e la dottrina di Gesù Cristo al centro del rilancio di ogni annuncio missionario.
Taluni elementi dottrinali e alcuni motivi storici fecero sì che l’attività missionaria delle Chiese protestanti rimanesse piuttosto limitata sin verso la metà del sec. 17°, quando l’americano J. Eliot (1604-1690), detto l’apostolo degli indiani, iniziò la predicazione del cristianesimo fra la popolazione nativa dell’America Settentrionale. Fra i promotori delle m. protestanti si annoverano G.F. Spener (1635-1705) e A. E. Francke (1663-1727) in Germania, e J. Welsey (1703-1791) in Inghilterra, ove nel 1691 fu fondata la prima società missionaria, la Christian faith society for the West Indies; seguirono, fra le più importanti, la Società per la propagazione del Vangelo (fondata a Londra nel 1701), la Società delle m. battiste (Londra, 1792), il Consiglio americano degli amici delle m. (Boston, 1810), l’Unione missionaria battista (Boston, 1814), la Società delle m. evangeliche (Basilea, 1815), la Società delle m. evangeliche fra i pagani (Berlino, 1823), la Società delle m. evangeliche (Parigi, 1824), le M. estere della Chiesa presbiteriana (New York, 1837). La loro attività si estese soprattutto in Africa, ma anche in India, in Cina, in Oceania, affiancando alla propaganda religiosa molteplici istituzioni di carattere educativo e assistenziale. Anche la cooperazione missionaria trovò nei Paesi protestanti efficienti forme organizzative, che in taluni campi, come quello studentesco, precedettero analoghe iniziative cattoliche. Nel 1888 ebbe inizio negli Stati Uniti e nel Canada lo Students volunteer movement, che favorì l’invio nelle m. di laureati; nel 1895 nacque, con sede a Ginevra, la Federazione mondiale degli studenti cristiani. Caratteristiche dell’azione missionaria protestante sono state la collaborazione fra le diverse società, specialmente nei settori scolastico e assistenziale, l’estesa utilizzazione di elementi ausiliari tratti dalla popolazione locale, la ricerca di coordinamento generale (fra le conferenze missionarie quelle di Edimburgo nel 1910, di Gerusalemme nel 1928, di Madras nel 1938).
Il Nord Africa fu una delle prime aree di impianto massiccio del cristianesimo, che in Egitto sopravvisse all’islamizzazione (dal 7° sec.). Il cristianesimo si consolidò nelle regioni etiopiche e sudanesi già a partire dal 4° secolo. Travolto dall’islam in Sudan a partire dal 14° sec., mantenne invece una presenza determinante ed espansiva in Etiopia. Le presenze europee in Africa subsahariana a partire dal 15° sec. determinarono significative espansioni del cattolicesimo specialmente nel regno del Congo, dove gruppo dirigente e molta popolazione si convertirono nel primo Cinquecento e la religione fu poi propagata da m. gesuitiche, francescane e carmelitane, ma specialmente cappuccine, nel sec. 17°. Nel 16°-17° sec. l’Etiopia fu oggetto di controversi e falliti tentativi di latinizzazione della Chiesa locale a opera di missionari gesuiti. Più limitate le attività dei protestanti, con l’eccezione del Sudafrica, dove la presenza calvinista andò crescendo da metà Seicento. La diffusione del cristianesimo occidentale vide una stasi nel corso del Settecento, la fase cruciale della . Agli inizi dell’Ottocento, se si eccettuano alcune regioni di Congo, Angola, Mozambico, Sudafrica, il cristianesimo occidentale era presente solo in poche aree costiere. Tuttavia il 19° sec. vide la ripresa in grande stile dell’opera di evangelizzazione attraverso i nuovi corpi missionari, prima soprattutto protestanti e poi, in maniera massiccia, cattolici che si costituirono in Europa e America. Nell’anno 1800 operavano in Sudafrica 2 società missionarie, nel 1860 erano ben 11, mentre in Africa occidentale passarono da 3 (inglesi e scozzesi) a inizio secolo a 15 nel 1840, specialmente metodisti e anglicani, ma anche la Società delle m. africane e gli Spiritani, cattolici. Più tarda è la penetrazione missionaria in Africa Orientale; nel Settentrione dell’Africa subsahariana l’attività missionaria è specialmente cattolica (comboniani, lazzaristi, padri bianchi e congregazioni femminili). Al momento della spartizione coloniale il cristianesimo portato dalle m. influenzava già società, politica e costume in vari regni e aree dell’interno del continente, dando fra l’altro origine a una serie di gruppi religiosi indipendenti, spesso di carattere sincretico (➔ Chiese indipendenti africane). L’espansione missionaria accompagnò la penetrazione europea e la composizione nazionale dei corpi missionari fu oggetto di attenzione e rivalità. Durante la fase coloniale le m. ebbero ovunque un ruolo fondamentale di supplenza rispetto all’amministrazione pubblica in settori come la scuola, la sanità, l’assistenza. Tuttavia l’attività delle m. seguì logiche di rapporto con il contesto africano per larghi versi del tutto autonome rispetto al colonialismo. Attraverso l’attività delle m. il cristianesimo divenne una componente fondamentale della società dell’Africa subsahariana e, in parallelo al processo di decolonizzazione, avviato negli anni Cinquanta del 20° sec., attuò un salto espansivo prodigioso che, all’inizio del 21°, ne fa l’appartenenza religiosa di gran lunga maggioritaria a sud del Sahara. Questa trasformazione è stata accompagnata e spinta dal radicale processo di africanizzazione del personale missionario, tanto protestante che cattolico, mentre la costituzione di Chiese locali pienamente autonome ha ridotto il ruolo e il peso dei corpi missionari rispetto alle fasi di impianto religioso.
Furono prevalentemente m. protestanti di origine inglese, che nacquero dal risveglio religioso sullo scorcio del 18° sec. (London missionary society, fondata nel 1795; Church missionary society, istituita nel 1799; Wesleyan missionary society, creata nel 1813). L’interesse per l’Oceania era stato suscitato dalle esplorazioni di J. Cook negli anni Settanta del secolo 18°. Nei primi decenni del 19° sec., l’espansione precoce delle m. wesleyane fu seguita da quella degli evangelici congregazionalisti della London missionary society (già sbarcati a Tahiti nel 1795 e poi, con John Williams, a Samoa nel 1830); seguirono, a partire dal 1849, le m. anglicane in Nuova Zelanda e in Melanesia, guidate dal vescovo George A. Selwyn. La m. cattolica in Oceania fu affidata da papa Gregorio XVI ai padri maristi (1836), e fu portata avanti da Jean-Baptiste-François Pompallier, che giunse in Nuova Zelanda nel 1838. Oltre all’ostacolo per l’evangelizzazione costituito dalla dispersione linguistica dell’Oceania, l’opera dei missionari cristiani era resa difficile da alcune ambiguità. I missionari erano spesso sotto la protezione dei governi della madrepatria, che fornivano il supporto navale: ad es., il cattolico Pompallier era protetto dal governo francese e l’anglicano Selwyn dal governo inglese, che desiderava espandere la sua sfera d’influenza nel Pacifico. Inoltre, la divisione delle confessioni e delle Chiese cristiane creava confusione tra gli indigeni, benché alcuni missionari come Selwyn si sforzassero di adottare un atteggiamento di cooperazione; talvolta i missionari dovevano contendersi la protezione dei capi tribali, come accadde ad es. nell’isola di Tonga (➔ George Tupou I). I missionari ebbero un ruolo fondamentale nella documentazione delle famiglie linguistiche dell’Oceania e negli studi etnografici e antropologici, e si sforzarono di modificare la percezione negativa che la cultura europea aveva dei «selvaggi», ad es. sfatando il mito delle «frecce avvelenate» (Robert H. Codrington). Alcuni elementi della religiosità cristiana, in particolare l’attesa messianica, si fusero con le culture indigene dando luogo a movimenti religiosi come il culto del cargo.