mistilinguismo
di Bruno Moretti
Il termine mistilinguismo è usato correntemente come sinonimo di plurilinguismo sia per i casi in cui in una comunità sono presenti due o più lingue, sia per i discorsi prodotti da un parlante, in una stessa situazione, in cui compaia più di una lingua. Negli studi letterari il termine è impiegato per designare un testo caratterizzato dalla commistione di lingue o, anche, di stili e registri differenti (vedi oltre). In linguistica il termine è usato sia per indicare la commistione di lingue diverse in un’unica frase, sia in riferimento alle cosiddette lingue miste, cioè nuovi sistemi nati dalla fusione di lingue intensamente in contatto tra loro (➔ italiano come pidgin).
Nel primo senso il termine designa il fenomeno della ➔ commutazione di codice, che nella linguistica italiana è usuale chiamare enunciazione mistilingue (o anche commutazione intrafrasale o code mixing). In questo caso il passaggio da una lingua all’altra avviene entro una stessa frase e di solito non gli si può assegnare una valenza pragmatica specifica, come è esemplificato negli enunciati seguenti, rilevati rispettivamente nel contesto siciliano, piemontese e dell’immigrazione italiana nella Svizzera tedesca (dove, accanto all’italiano, ritroviamo lo svizzero tedesco):
(1) cci aiu [«ho»] sta cosa che devo cercare di levarmi (Alfonzetti 1992: 140; sicil. / ital.)
(2) perché ora una buona parte sun tyti a pagament [«(parcheggi) sono tutti a pagamento»] (Regis 2005: 31; ital. / piem.)
(3) ma noi che abbiamo perso contro Ätiopie mit Kanone und die sind mit de Pfiil und Boge choo [«l’Etiopia con i cannoni e loro avevano frecce e archi»]. E:h, non fare tanto i grandi (Pizzolotto 1991: 89; ital. / svizzero tedesco)
L’enunciazione mistilingue richiede una notevole capacità di transizione da una lingua all’altra al fine di gestire commutazioni complesse e frequenti e la si può quindi considerare come una forma molto avanzata di commutazione di codice e di competenza comunicativa bilingue (➔ bilinguismo e diglossia). L’altra accezione di mistilinguismo rimanda al concetto di lingua mista. Si tratta in questi casi non di un mistilinguismo legato all’uso, quindi alla commistione nelle produzioni dei parlanti, ma di una situazione stabile, creatasi attraverso una fusione di sistemi che dà luogo a una nuova lingua. Quest’ultima è quindi ricollegabile solo in diacronia a fenomeni di plurilinguismo e il nuovo codice così creato può essere l’unica lingua conosciuta dai suoi parlanti e non implicare competenza nelle due lingue che hanno dato luogo alla fusione.
Sebbene il mistilinguismo a livello di uso e quello a livello di sistema tendano a essere confusi, o visti l’uno come la conseguenza inevitabile dell’altro, è importante mantenerli distinti perché si collocano a livelli differenti e il legame tra loro, con un eventuale ruolo dell’enunciazione mistilingue come fattore che porta alla formazione di lingue miste, deve ancora essere oggetto di indagini accurate. Mentre il fenomeno della commistione di lingue nel discorso è frequentissimo, sono rari i casi che sfociano a livello di sistema nella creazione di nuove lingue (le lingue miste propriamente dette, uno dei tre tipi di lingue nuove – gli altri due sono pidgin e creole – che possono nascere dal contatto; cfr. Berruto 2006).
di Bruno Moretti
Ovviamente però le lingue miste non possono nascere da un giorno all’altro, ma devono essere la conseguenza di comportamenti bilingui intensi – come enunciazioni mistilingui, ➔ prestiti, ➔ ibridismi, interferenze (➔ interferenza; ➔ contatto linguistico) – che portano a poco a poco a un nuovo sistema autonomo. Tra gli esempi citati nella bibliografia internazionale di stadi incipienti di formazione di lingue miste si ritrova quello del parlato di giovani immigrati italiani di seconda generazione nella Svizzera tedesca. Esso è in effetti caratterizzato da un’altissima densità di fenomeni di commutazione fra italiano e svizzero tedesco, come è ben esemplificato dal brano seguente, registrato durante una conversazione tra amici e riportato da Schmid (2005: 139):
(4) p3: ma i tuoi cugini sind scho z’Amerika geborä? [«sono già nati in America?»]
p2: ja, nei keinä sie sind vo zwei bis foif gsii wo’s uf Amerika sind [«sì, no nessuno, avevano tra due e cinque anni quando sono andati in America»] ... è vero o no?
p9: non lo so, das weissi nöd [«non lo so, non lo so»], c’ho un cugino im Fall, nei nöd [«per esempio, no»], il marito della mia cugina che sarebbe anche mio cugino dänn oder [«allora, eh»] anche un bergamasco, si chiama A. und ich han doch gseit es heig einä a Metzgerei gha, du ich sägter dä hät jedä n‘Abig öppä drüü Liter Wii trunkä [«e io ho detto uno aveva una macelleria, guarda, ti dico, quello beveva ogni sera circa tre litri di vino»] ...
p2: a Galonä [«un gallone»]
p9: nöd ganz ä Galonä, ä Galonä [«non proprio un gallone, un gallone»] son quattro litri, oder [«no»], vino rosso und er isch der einzig gsii [«ed era l’unico»] che beveva il vino come noi susch di anderä [«altrimenti gli altri»] in America bevevano tutti il vino col ghiaccio, hei, dä häts Glasgfüllt und i eim Schluck abägläärt ... übrigens [«ehi, lui riempiva il bicchiere e lo vuotava in un sorso ... a proposito»] ... salute.
Schmid (2005) ha avanzato riserve sull’interpretazione di questa modalità comunicativa come uno stadio, pur incipiente, di lingua mista, facendo notare come siano qui fondamentali le buone competenze in entrambi i sistemi e anche come l’esito futuro non tenda tanto a essere quello di una nuova lingua, quanto l’indirizzarsi verso un monolinguismo nel codice del luogo.
Fenomeni simili si ritrovano anche in situazioni di lingue di minoranza in Italia. Il brano seguente, registrato a Issime (➔ walser, comunità) da Dal Negro (2002: 83-84) mostra fenomeni di discorso che si intersecano con fenomeni di influssi tra sistemi, quali tipicamente i prestiti:
(5) Ma: oh lisa + dou häscht kiet [«hai preso»] la pillola vür la pressiuŋ [«per la pressione»]?
Li: wa [«cosa»]?
Ma: la pillola vür la pressiuŋ [«per la pressione»]?
No: ja, giescht wol etwas + vür la pressiuŋ [«sì, prendi ben qualcosa per la pressione»]?
Li: la pressiuŋ ... gjen-i pastiljini [«per la pressione ... prendo delle pastiglie»]
Ma: ah
An: a! te piljie la pa / la pression / la pastiglia [«prendi, la pressione, la pastiglia»]?
Li: sì le pastiglie, ia ia [«sì sì»]
Le lingue qui utilizzate sono l’italiano, il dialetto piemontese e il töitschu (la varietà walser del luogo). Altri frammenti della stessa interazione sono addirittura quadrilingui, con l’aggiunta del patois francoprovenzale.
Accanto alle enunciazioni mistilingui, un altro fenomeno che può anticipare l’interpenetrazione di sistemi è quello dei cosiddetti ibridismi, cioè parole costituite da morfemi derivati da lingue differenti. Se ne trovano frequenti esempi nel contatto tra dialetti e lingua nazionale (Regis 2005: 63-65):
(6) sta solo stisando [«piovigginando», lett. «gocciolando»]
(7) gira la manuglia [«maniglia»].
di Bruno Moretti
Nei contesti di migrazione si possono avere esiti assai vicini alle lingue miste, originati non da competenze bilingui molto avanzate, ma, al contrario, proprio dalla scarsa competenza nella lingua del luogo. È il caso di varietà come quelle che si sono sviluppate nel contesto statunitense (➔ italoamericano) o in quello australiano. Anche nel contesto della nuova immigrazione in Italia sono stati osservati fenomeni simili; per donne peruviane a Torino, per es., Vietti (2005) parla di una «varietà etnica» costituita da un italiano fortemente interferito:
(8) ... imparare non è: non ha stado dificcile prima + e: noi face- faceamo come il papagalo no: a l’orecchio + (sentivamo) poi ripetevamo le cose + poi eh: es- el- vedevamo la tivù che ci fa imparare tanto + poi lejevamo e le: l’estampa: el periodico e la lectura ci aiuða tantisimo + e poi come un bambino: le parole escono da sole (Vietti 2005: 19)
Un caso particolare è costituito dal cocoliche (➔ contatto linguistico; ➔ ispanismi), nato dalla mescolanza di italiano e spagnolo e usato nei primi decenni del Novecento nella zona del Rio de la Plata. In esso si ritrovano, per es., l’adozione dallo spagnolo del morfema -s del plurale (fuciles, cappellettis), di suffissazioni (maternale, onestità), di proforme (lo che vuoi «quello che vuoi»), così come cambi di genere (la latte, il guardia) o estensioni del gerundio (vedevo gente camminando «vedevo gente che camminava»). Fortissimi sono ovviamente gli influssi lessicali: in una frase come ricorsi tutte le tende «sono stato in tutti i negozi» è ovvio il modello spagnolo recorrí todas las tiendas (Meo Zilio 1955: 115).
Per alcune lingue miste può esserci anche una componente paragergale, con motivazioni da un lato da ‘antilingua’ (simbolica di una contrapposizione identitaria del gruppo marginale al resto della società) e dall’altro lato valenze criptolaliche (che rendono difficile la comprensione dei messaggi ai non appartenenti al gruppo). Un esempio di questo tipo è il cosiddetto parlaree (Hajek 2002), una varietà gergale che è stata occasionalmente usata in Inghilterra in ambienti marginali, nella quale si ritrovano travestimenti inglesi di parole italiane come catever «cattivo», chinker «cinque», letty «letto, alloggio», manjarie «mangiare, cibo», scarper «scappare», ecc.
di Ivano Paccagnella
In letteratura, l’etichetta di mistilinguismo si scambia spesso, pur non sovrapponendovisi totalmente, con quella di «plurilinguismo» (Paccagnella 1983), a indicare l’uso simultaneo di più lingue, di più livelli di linguaggio, registri o moduli espressivi in un autore, un testo, una tradizione letteraria (per la contrapposizione del plurilinguismo dantesco al monolinguismo di Petrarca, ➔ monolinguismo).
di Ivano Paccagnella
Fin dalle origini, la storia della lingua italiana è caratterizzata da rapporti difficili con volgari che superano l’ambito strettamente municipale, mirando a porsi come koinè aggregante, anche se non ha senso parlare di superamento dell’antitesi tra lingua nazionale e dialetti nel periodo costitutivo di una comunità nazionale interregionale, quando l’antagonismo dei volgari (➔ volgari medievali) è vivo e costitutivamente operante.
Tale è la situazione italiana per tutto il Duecento (➔ Duecento e Trecento, lingua del), quando i tentativi di portare i volgari a livello letterario si susseguono, e fin per il periodo delle origini risulta vera l’affermazione che «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio» (Contini 1970: 611).
È ➔ Dante nel De vulgari eloquentia (I, xi-xiv) a istituire per la prima volta sul piano critico e storiografico una vera e propria linea di «letteratura dialettale riflessa» (la definizione è di Croce 1926), percependo, fra l’altro, chiaramente ab origine la tendenza al rusticale e al plurilingue o quanto meno mettendo nel dovuto rilievo il fatto che «il bilinguismo di poesia illustre e poesia dialettale è assolutamente originario, costitutivo della letteratura italiana» (Contini 1970: 614).
Questa linea attraversa tutta la nostra storia letteraria (➔ dialetto, usi letterari del), con precoci attestazioni nel Veneto del Trecento (dalla canzone di Auliver alla tenzone tridialettale di Nicolò de’ Rossi, testimonianza di un uso ludico dei dialetti da parte di un’aristocrazia culturale che aveva ormai optato per il toscano). Anche ➔ Giovanni Boccaccio, già nell’Epistola napoletana (diretta a Franceschino de’ Bardi attorno al 1339 e firmata «Jannetta de Parisse») e poi nel Decameron, mette in scena le varietà linguistiche locali, per cui i personaggi e l’ambientazione delle novelle sono connotati da tratti linguistici non tanto mimetico-rappresentativi ma ricostituiti soggettivamente, e i singoli termini dialettali messi in bocca ai personaggi assumono una valenza di connotazione vernacolare e di veri blasoni linguistici.
Parodie poetiche del milanese si trovano in un autore estremamente disponibile alle curiosità linguistiche come Luigi Pulci; del napoletano ancora in Pulci; del veneziano, senese e romanesco in Burchiello.
Ancora nel Veneto il dialetto del contado di Padova, il pavano della snaturalitè, è alla base della produzione di Ruzante, «il più antico dialettale raggiunto dal canone» (Contini 1970: 612), che fin da ➔ Galileo Galilei (in una lettera del 1612 a Paolo Gualdo) viene a simboleggiare lo specchio dei dialetti rusticali e dell’opposizione tanto al latino quanto (come è detto nel “Prologo per le recite in pavana” della Betia) al «fiorentinesco» e al «moscheto» degli «sletràn e sinciè» (Ruzante 1967: 153), come risulta fin dalla prima prova della Pastoral attorno al 1520 (➔ latino macaronico).
Dietro Ruzante c’è la colta cerchia di Alvise Cornaro, tutta una fiorente letteratura in pavano e bergamasco e una tradizione di satira antivillanesca (basti citare l’Alfabeto dei villani) che frena ogni feroce acrimonia verso quel miserabile mondo contadino.
Il dialetto come lingua della commedia (➔ teatro e lingua), dalla Veniexiana a Giovan Giorgio Alione, da Ruzante ad Andrea Calmo fino alle commedie senesi dei Rozzi, è un fenomeno che interessa fra XVI e XVII secolo tutta l’Italia e porta alla tipizzazione delle maschere della commedia dell’arte, e successivamente a una produzione poetica che, dalla Cittara zeneisa di Gian Giacomo Cavalli, mette capo al blocco napoletano costituito da Giambattista Basile, con le Muse Napolitane e soprattutto Lo Cunto de li Cunti, o vero Lo trattenemiento de li peccerille (il Pentamerone), da Giulio Cesare Cortese con La Vaiasseide e Micco Passaro ’nnamurato, e dallo sconosciuto Filippo Sgruttendio di Scafati con De la Tiorba a Taccone.
La ‘linea lombarda’ privilegia invece una tematica di realismo e impegno civile, fra Carlo Maria Maggi, Carl’Antonio Tanzi e Domenico Balestrieri, fino a Carlo Porta, che apre il dialetto a contenuti e piani di lingua finora misconosciuti e finisce per integrarsi nella più definita e indirizzata trama culturale del romanticismo lombardo, in cui viene affrontato organicamente il problema del nesso fra lingua e unità nazionale.
Per ➔ Carlo Goldoni il problema è, prima che questione stilistica o letteraria, la riforma dell’istituzione teatrale, e si risolve in una lingua che non imita il dialetto (che a Venezia era praticato perfino nella sfera giuridico-amministrativa) ma fa da intermediario del linguaggio della conversazione. Dall’alveo della tradizione della commedia dell’arte (per es., nel Servitore di due padroni), con un «superdialetto veneziano (che, ricchissimo di italianismi convenzionali, sconfina continuamente in un italiano itinerario)» (Folena 1990: 141) si spinge (per es., nelle Baruffe chiozzotte) a una lingua in cui la novità è nel rapporto fra il dialogo, contemporaneamente narrativo ed espressivo, e il dialetto, i cui stilemi
perdono sempre più il loro carattere tecnico e astratto per diventare elementi armonici e ‘concertati’, perfettamente ambientati nel reale continuum del parlato: di cui essi vengono a rappresentare un elemento formale, intellettuale, compositivo, non più solo giocoso (Folena 1990: 145)
a tutti i livelli, quelli alti, melodrammatici, come quelli bassi, delle liti di piazza, quelli più nobili e salottieri e quelli più spontanei.
Diversa vitalità ha avuto invece per tutto il Novecento la poesia in dialetto, che si dispone su diversi registri: da quello intimistico, di matrice pascoliana, di Virgilio Giotti e per certi aspetti di Biagio Marin, a quello intellettualisticamente aggrumato di Giacomo Noventa (poeta «in dialetto», non dialettale, come amava autodefinirsi); da quello espressionistico di Delio Tessa, o fortemente connotato in direzione ideologica e politica di Franco Loi, a quello di una riscoperta ctonia, fino alla reinvenzione, del dialetto materno, dal gradese di Biagio Marin al friulano di ➔ Pier Paolo Pasolini, dal tursitano di Albino Pierro al solighese di Andrea Zanzotto e al trevigiano di Ernesto Calzavara.
di Ivano Paccagnella
L’uso di francese e provenzale rimase ininterrotto (specialmente nell’epica e nella lirica medievale) anche quando nell’Italia nordorientale una matura produzione didascalica e giullaresca trovò espressione nei volgari padani e la lingua lirica toscana iniziò un’espansione che determinò precoci fenomeni di toscanizzazione nelle regioni settentrionali (specialmente nel Veneto).
Questo processo si osserva in vari momenti: nel sonet gaillart “D’un serventes faire” di Peire de la Cavarana (1194), nel trobadorismo ligure di Lanfranco Cigala e veneziano di Bartolomeo Zorzi, in Sordello e nella preminenza culturale e letteraria francese fra il XII e il XIV secolo. Quest’ultima si manifesta specialmente nell’ambito della narrativa di gestes e dei grandi romanzi di argomento classico e arturiano non meno che nella storiografia (si pensi a Les estoires de Venise del veneziano Martin da Canal, databili fra 1267 e 1275, che prende a modello la cronachistica diffusa nell’Oriente mediterraneo crociato, intridendo il suo francese di interferenze dialettali venete) o, alla fine del secolo (1298), nel Divisament dou monde, Il Milione, dettato da Marco Polo nella sua prigionia genovese a maistre Rustichello da Pisa.
Una forte intromissione del sistema dialettale degli autori nel francese della narrazione poetica registrano i testi franco-veneti (o più genericamente franco-italiani) quali l’Entrée d’Espagne di un anonimo padovano e la Prise de Pampelune di Niccolò da Verona (1320-1330 circa).
L’ultimo episodio della fortuna del provenzale, negli anni 1381-1383, è la Leandreride di Giovanni Girolamo Nadal. Ma già l’espansione del toscano e il prestigio conseguito dalla nuova tradizione letteraria eliminano ogni reale concorrenza dei due volgari d’oc e d’oïl e la diffusione della Commedia chiude il varco a ogni influsso che venisse dalla parte di Francia.
Nei secoli successivi e per lingue diverse non si danno usi organici e continuati di lingue straniere, ma solo inserti, citazioni o blasoni nazionali: manipolazioni letterarie in contesti estranei, esclusivamente a scopi ironici. Così era già stato il «Bruder, was?» nel sirventese di Peire de la Cavarana: Granoglas resembla / en dir “Broder, guaz?” («Sembra un ranocchio quando dice “Bruder, was?”», in Folena 1990: 25). Il tedesco compare ancora in area fiorentina in alcuni canti carnascialeschi e nell’Amor costante di Alessandro Piccolomini (1536), mentre in area veneziana l’italo-tedesco dei glossari commerciali si riflette nelle canzonette della famiglia di «Mistro Rigo forner», uno dei mestieri più diffusi (come il carbonaio della Spagnolas o della Rodiana di Calmo, il vinaio, il commerciante in genere) di questa comunità: e si dovrebbe scendere giù fino all’ultima incarnazione dello «sguizzerò der Papa» nella “Pisciata pericolosa” di Belli:
[...] Tartaifel, sor paine,
pss, nun currete tante, che so stracche!
[...]
[…] Vie qua, fije te vacche,
che peveremo un pon picchier te vine!
(sonetto 53, vv. 9-14)
L’esotismo linguistico finisce per essere tipico della commedia cinquecentesca, dal castiglianeggiante bergamasco nella Spagnolas di Calmo al turchesco nella Zingana di Gigio Giancarli, in funzione caricaturale e di parodia linguistica; o come il greghesco o il raguseo, caricatura del pidgin Venetian dei Greci e dei Croati del litorale messa in scena ancora da Calmo o da Antonio Molino, il Burchiella: con lo scadimento però della «commedia delle lingue» a commedia delle maschere anche le testimonianze alloglotte si esauriscono.
di Ivano Paccagnella
L’esperimento più complesso di invenzione di una lingua che vive solo di letterarietà, a partire dall’interferenza fra latino, dialetto e italiano, è senz’altro costituito dalle macaronee (➔ latino macaronico), fino a Folengo almeno, e dal polifilesco, a partire dall’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, per sfociare nel pedantesco della commedia del Cinquecento (➔ pedantesca, lingua).
L’attenzione continuata al furbesco, al gergo, alla lingua occulta della malavita (➔ gergo) e dei gruppi diversi da parte degli uomini di cultura è molto antica, a partire dal riferimento di Benvenuto da Imola a un «idioma, quo intelligunt se invicem, quod calmonem appellant» (in Cortelazzo 1989: 33). Ma il primo episodio consistente di esercizio del furbesco è di Luigi Pulci, sia nella esplicita dichiarazione di ribalderia gergale di Margutte:
Non domandar quel ch’io so far d’un dado,
o fiamma o traversin, testa o gattuccia,
e lo spuntone, e va’ per parentado,
che tutti siàn d’un pelo e d’una buccia.
E forse al camuffar ne incaco o bado –
o non so far la berta e la bertuccia,
o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?
Io so di questo ogni malizia e frodo
(Morgante XVIII, 122)
sia in una famosa lettera a Lorenzo il Magnifico che comincia «Qui saranno stasera di be’ pesci», databile fra 1465 e 1466.
Fra la metà del XV e buona parte del XVI secolo si realizza una vera e propria letteratura furbesca (da Strazzola al Pistoia, da Matteo Franco a Pietro Aretino e ad Annibal Caro) che nel Ragionamento dello academico Aldeano sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini, e de’ Toscani di Niccolò Villani (1634) trova la propria teorizzazione e nel Nuovo modo de intendere la lengua zerga (probabilmente di Antonio Brocardo; la princeps è del 1545) il proprio vocabolario e che si realizza appieno nel teatro, i cui esempi sono la Cassaria in prosa del 1508 di Ariosto (atto I, scena VII): «Spuleggia de non calarte in solfa per questa marca, che al cordoan si mochi la schioffa», e quella in versi del 1531:
– Odi: costà m’aspetta; odi la musica:
È tutta per amor.
– Contro ribeccola
(atto II, scena I, vv. 777-778)
non meno che l’anonima veneziana Bulesca (1514) e la Piovana di Ruzante, anteriore al 1533:
– Compare, le pive è nostre. L’òsemo truca e no vuol pi stanziare in la santosa.
– Compare, el no vò danza, con l’ha sentù che le cere de vostriso rifonde sorbole si garbe.
– Trucón entro, che ’l besuogna che a’ trucón tosto con le bande a un’altra banda, che ’l mazo no comparesse (atto III, scena III, 77-81).
di Ivano Paccagnella
Contini (1989) individuò una linea espressiva, che intitolò alla «funzione Gadda» e che si può sintetizzare nei nomi di Carlo Dossi, Giovanni Faldella e ➔ Carlo Emilio Gadda, marcata da un plurilinguismo variamente articolato e stratificato e un pastiche ordito di ➔ dialettismi, ➔ arcaismi colti e preziosi, esotismi, neoformazioni e coniazioni personalissime. «I “macaronici” in largo senso, gli adepti delle scritture composite», secondo la definizione di Contini.
Il plurilinguismo di Gadda varia da epoca a epoca e da opera a opera (tra la fase milanese e quella romana, attraverso il «pianerottolo» fiorentino del Primo libro delle favole), mettendo in gioco materiali eclettici: i dialetti lombardo o romanesco o toscano, allotropi fonomorfologici arcaizzanti o stilemi connotati, linguaggi tecnici, in una variabilità di neoformazioni analogiche, forme pre- e suffissali, parasintetici, giustapposizioni, puntando alla collisione dei piani linguistici.
Ariosto, Ludovico (1974), Commedie, a cura di A. Casella, G. Ronchi & E. Varasi, Milano, Mondadori.
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