Abstract
Verranno analizzate le disposizioni normative di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p. e gli orientamenti giurisprudenziali in tema di condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari e di esigenze cautelari. Si esaminerà, in particolare, il significato e il valore dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l’applicazione della misura cautelare e si analizzeranno singolarmente le esigenze cautelari.
La libertà personale è, per disposizione costituzionale, inviolabile e può essere limitata solo in presenza di determinate condizioni. L’art. 273 c.p.p. disciplina le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali: i presupposti probatori. Il legislatore prevede che «nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza». La sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, pur essendo una condizione necessaria per l’applicazione della misura cautelare, non è – di per sé – sufficiente per l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale. Congiuntamente ai gravi indizi di colpevolezza è necessario che vi sia una delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. Gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari rappresentano, quindi, quelle che possiamo definire, globalmente, le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari.
L’accertamento effettuato dal giudice per l’applicazione di provvedimenti provvisori, che hanno come base probatoria i suddetti risultati indiziari, è, per ovvie ragioni, diverso, sommario, meno pregnante e anche meno fondato rispetto a quello effettuato sulla prova indiziaria utilizzata per l’emissione di una sentenza definitiva (v. Misure cautelari - dir. proc. pen. – 5. Applicazione ed esecuzione). Ciò che muta è proprio il procedimento cognitivo. Questo ha presupposti differenti che, inevitabilmente, postulano risultati diversi: nel caso di applicazione di provvedimenti provvisori, quali le misure cautelari, la base probatoria è costituita da elementi di prova ancora in fieri, mentre il fondamento del percorso cognitivo-decisorio è costituito da prove attendibili; ciò non vale soltanto per la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, ma anche per l’esame delle esigenze cautelari. La differente attendibilità probatoria, inevitabilmente, postula giudizi conclusivi divergenti, quanto a certezza processuale: uno – quello scaturente dalla richiesta di applicazione di un provvedimento provvisorio – solo probabilistico, l’altro – quello che motiva la sentenza definitiva – processualmente certo. La differenza (ex multis: Cass. pen., sez. VI, 9.2.1996, Meocci, in Arch. nuova proc. pen., 1996, 641; Cass. pen., sez. I, 27.9.1993, La Rocca, in Arch. nuova proc. pen., 1994, 272; Cass. pen., sez. II, 25.5.1992, Di Martino, ivi, 1992, 783) si evince dalla stessa disciplina codicistica: per emettere un provvedimento di condanna, il legislatore richiede, ex art. 533 c.p.p., un giudizio di certezza processuale al di là di ogni ragionevole dubbio, mentre per applicare una misura cautelare ritiene sufficiente un giudizio che indichi come probabile la colpevolezza del soggetto e la sussistenza delle esigenze cautelari. Premesso che il giudizio a cui si perviene è sempre un giudizio di probabilità e non di certezza, è da notare che quando sono in gioco diritti di libertà, il legislatore predispone un meccanismo processuale atto a tutelare il soggetto sottoposto al provvedimento, se non nel momento applicativo, per lo meno successivamente attraverso la possibilità di impugnare.
Un interrogativo che ci si pone circa la valutazione dei gravi indizi e delle esigenze cautelari riguarda la possibile applicabilità delle disposizioni legislative in tema di prova anche a questi “frammenti” probatori. La questione si presentava alquanto controversa fino all’intervento delle Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 21.4.1995, Costantino, in Cass. pen., 1995, 2841 con nota di Buzzelli, S., Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza ai fini delle misure cautelari nell’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione; in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 1149 con nota di Molinari, F., Sui rapporti tra gravi indizi di colpevolezza e chiamata in correità ai fini dell’applicazione delle misure cautelari) che hanno affermato che la disciplina contenuta nel libro III in tema di prove è stata prevista specificamente per la fase del giudizio e non può estendersi – se non in alcuni casi specifici – a fasi diverse da questa. Non bisogna dimenticare, però, che una successiva pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 21.6.2000, Tammaro, in Cass. pen., 2000, 3260) afferma che la categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità non è relativa alla sola fase dibattimentale, ma è applicabile anche ad altre fasi dell’iter procedimentale. L’interpretazione restrittiva dovrebbe ritenersi avallata dalla modifica legislativa del 2001, dato che questa, estendendo i confini dell’inutilizzabilità alle dichiarazioni de relato non riscontrate, sembra indicare – in generale – la voluntas legis di non circoscrivere la categoria dell’inutilizzabilità al solo dibattimento. La nuova formulazione dell’art. 273, co. 1-bis., c.p.p., a seguito della l. 1.3.2001, n. 63, statuisce che «nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli 192 commi 3 e 4, 195 comma 7, 203 e 271 comma 1». La scelta legislativa di non avere – pur potendo – effettuato un rinvio generale alla disciplina in tema di prova, ma solo ad alcune delle norme del libro III, dovrebbe far propendere per l’idea che l’art. 192 c.p.p. e, in generale le norme in tema di prova, potrebbero ritenersi operanti per le fattispecie cautelari esclusivamente nella parte in cui vengono espressamente richiamate.
Il legislatore all’art. 273 c.p.p. statuisce che nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se, a suo carico, non sussistono gravi indizi di colpevolezza. La semplice analisi grammaticale della norma indicherebbe che il legislatore, con la disposizione de qua, ha inteso circoscrivere l’applicazione delle misure cautelari alla presenza di una pluralità di indizi gravi, dato l’uso della forma lessicale plurale. Premessa la distinzione concettuale tra indizi previsti ai fini dell’applicazione di una misura cautelare e quelli richiesti per l’emissione di un provvedimento definitivo, il legislatore si è limitato a prevedere nella norma in questione come requisito la gravità degli indizi; invece, per far assurgere il risultato indiziario a rango di piena prova, oltre alla gravità ha espressamente richiesto, come ulteriori caratteristiche, la precisione e la concordanza. La «gravità» richiesta dall’art. 273 c.p.p. è da intendersi come idoneità a dimostrare, con un alto grado di probabilità, l’esistenza di una fattispecie penalmente rilevante, riconducibile ad un determinato soggetto. L’orientamento maggioritario (ex multis: Cass. pen., sez. IV, 6.7.2007, C., in Cass. pen., 2008, 1242; Cass. pen., sez. IV, 7.10.2004, Otadua, in Guida dir., 2004, fasc. 50, 75; Cass. pen., sez. IV, 4.7.2003, Pilo, ibidem, fasc. 4, 80; Cass. pen., sez. V, 6.11.2002, Burrai, ivi, 2003, fasc. 2, 80) ritiene che per l’applicazione delle misure in esame è sufficiente la sola gravità degli indizi, e non anche la convergenza e l’univocità degli stessi, quindi non la precisione e la concordanza richiesti dall’art. 192 c.p.p. Un altro orientamento(Cass. pen., sez. V, 24.5.1994, in Cass. pen., 1995, 2950; Cass. pen., sez. I, 2.4.1992, Mangone, in CED Cass., rv. 190119; Cass. pen., 23.3.1991, Fiore, in Arch. nuova proc. pen., 1991, 456), minoritario e diametralmente opposto a quello suddetto, reputa applicabile all’art. 273 c.p.p. la disposizione in materia di prova indiziaria in toto, con la conseguenza che, per l’emissione di una misura cautelare, sarebbero necessari i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Parte della giurisprudenza (Cass. pen., sez. I, 11.6.2003, Catapano, in Guida dir., 2003, fasc. 44, 80; Cass. pen., sez. I, 11.1.1995, Anaclerio, in CED Cass., rv. 200316) ha, in proposito, ritenuto che l’uso nell’art. 273 c.p.p. della forma plurale, non è indicativo della voluntas legis della concorrenza di una pluralità di indizi, ma ha solo scopo indeterminativo, bastando anche un solo indizio grave a legittimare l’adozione di una misura cautelare. Quello che viene richiesto dall’art. 273 c.p.p. è l’alta probabilità «dell’attribuibilità del reato all’indagato» (Cass. pen., sez. II, 23.11.2004, Gambacorta, in Guida dir., 2005, fasc. 8, 92; Cass. pen., sez. II, 16.6.2003, Zanco, ivi, 2004, fasc. 3, 75; Cass. pen., sez. II, 26.6.2002, Berretta, ivi, 2003, fasc. 1, 97; Cass. pen., sez. III, 23.2.1998, Derzsiova, in CED Cass., n. 210514; Cass. pen., S.U., 21.4.1995, Costantino, cit.).Nel caso di fattispecie probatoria plurima, gli indizi devono essere univocamente orientati e legati da un nesso logico con il reato per cui si procede (Cass. pen., sez. IV, 4.3.2008, in Guida dir., fasc. 21, 71; Cass. pen., sez. VI, 26.1.1999, Di Girolamo, in Arch. nuova proc. pen., 1999, 432; Cass. pen., sez. II, 21.4.1994, Pellicanò, ivi, 1994, 727; Cass. pen., sez. VI, 10.3.1999, Capriati, ivi, 1999, 564), dato che risultati probatori contradditori non potrebbero, legittimamente, implicare l’applicazione di una misura cautelare. Nel caso di indizio singolo, questo, per costituire l’unica base probatoria per l’emissione del provvedimento de quo, deve necessariamente essere grave.
Medesimo discorso può essere fatto relativamente alle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.: allorquando il legislatore richiede al giudice una valutazione circa l’eventuale pericolo di inquinamento o dispersione delle prove (lett. a), pericolo di fuga (lett. b), o pericolo di reiterazione del reato (lett. c), gli richiede, di fatto, una prognosi in termini di probabilità e non di certezza dell’esistenza del pericolo reale, concreto ed attuale che possa verificarsi una delle ipotesi previste dalla norma in questione. Il percorso cognitivo-decisorio seguito dal giudice per l’applicazione di un provvedimento cautelare deve essere approfondito e incisivo, ancorché condotto allo stato degli atti, su elementi che potrebbero modificarsi nell’iter procedimentale e non su vere e proprie prove (Cass. pen., S.U., 30.10.2002, Vottari, in Guida dir., 2003, fasc. 5, 98). A dimostrazione di ciò l’art. 292, lett. c), c.p.p. richiede che l’ordinanza dispositiva di una misura cautelare contenga, a pena di nullità, tra gli altri requisiti, l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza.
Attenzione particolare richiedono i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso: relativamente a queste fattispecie criminose il legislatore ha predisposto, in alcuni casi, iter procedurali differenti e la prassi ha, per così dire, creato, in funzione di tutela dell’ordine pubblico, dei parametri diversi, più rigidi, in base ai quali valutare le circostanze indizianti e, in particolar modo le esigenze cautelari, rispetto alle fattispecie delittuose ordinarie.
Il legislatore non ha limitato l’applicazione di un provvedimento cautelare alla sola fase delle indagini preliminari, ma permette l’emissione di una ordinanza in materia de libertate, anche nella fase processuale, allorquando ne ricorrano i presupposti.
L’applicazione di un provvedimento cautelare, dopo la decisione di rinvio a giudizio, pone inevitabilmente il quesito se sia necessario, anche in questo caso, compiere una valutazione sulla sussistenza della colpevolezza del soggetto, o se, essendo insito nella decisione di rinvio a giudizio un parziale accertamento sul fumus commissi delicti, non sia necessario svolgere alcuna ulteriore verifica in termini di colpevolezza. Tale interpretazione metterebbe in evidenza che la richiesta e il decreto che dispone il giudizio rappresentano il fumus commissi delicti. L’accertamento, quindi, dovrebbe essere circoscritto – in questi casi – alla sola sussistenza delle esigenze cautelari. Questo orientamento è stato accolto da una parte della giurisprudenza, già nella vigenza del codice 1930, e ha trovato conferma in alcune pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. pen., S.U., 25.10.1995, Liotta, in Cass. pen., 1996, 766; Cass. pen., S.U., 25.10.1995, Trimarchi, in Foro it., 1996, II, 351) anche dopo le modifiche apportate dalla l. 16.12.1999, n. 479. Secondo questa interpretazione il decreto che dispone il giudizio è il «risultato di un apprezzamento di merito prognostico di colpevolezza assimilabile e sovrapponibile a quello di qualificata probabilità di colpevolezza richiesto dall’art. 273 c.p.p.»(Cass. pen., sez. II, 14.11.2000, Tavanxhiu, in CED Cass., rv. 218907; nello stesso senso Cass. pen., sez. I, 15.2.1996, Prudentino, ivi, rv. 204021; Cass. pen., sez. VI, 28.6.1995, Renzulli, ivi, rv. 202454), con l’effetto che non è necessario, una volta emesso il decreto de quo, effettuare un successivo accertamento circa il fumus delicti, dato che l’accertamento della colpevolezza è già contenuto nella decisione de qua. Di contrario avviso –prima della riforma del 1999 – la Corte costituzionale (C. cost., 7.3.1996, n. 71, in Arch. pen., 1996, 126) che, intervenuta in materia, ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 309 e 310 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, anche nel caso in cui sia già stato emesso il decreto che dispone il giudizio. La Corte riteneva indispensabile, quindi, un nuovo accertamento, anche nell’ipotesi di decisione sul rinvio a giudizio e misura cautelare relativi ad una stessa fattispecie penale e ad uno stesso soggetto. La stessa Corte ha, altresì, precisato che solo una sentenza di condanna contiene in sè l’accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, dato che possiede un plus di certezza e attendibilità probatoria, idoneo a inglobare il minus della sussistenza dei gravi indizi richiesti per l’emissione di un’ordinanza cautelare, giovando anche alle esigenze di economia e coerenza del sistema processuale. L’orientamento proposto dalla Corte è da ritenersi comunque attuale e condivisibile, anche alla luce della modifica legislativa del 1999. Una diversa interpretazione risulterebbe, di fatto, pregiudizievole nei confronti dei diritti dei singoli, e contraddirebbe lo spirito del codice attuale, dato che si precluderebbe, al soggetto per il quale è stata chiesta la misura, un accertamento che per legge gli è dovuto, sulla base non di un giudizio certo, come accade nel caso di una sentenza definitiva, ma di un giudizio di probabile colpevolezza. In questo senso si è indirizzato un altro orientamento giurisprudenziale, avallato dalle Sezioni Unite(Cass. pen., S.U., 30.10.2002, Vottari, cit.).
Il legislatore, richiedendo gravi indizi di colpevolezza per l’emissione delle misure cautelari, non ha inteso riferirsi esclusivamente alla prova indiretta, ma anche alla prova rappresentativa, carente della verifica probatoria: ha inteso con il termine indizio elementi probatori dotati di una minore vis dimostrativa di quella richiesta per l’applicazione di un provvedimento definitivo (ex multis: Cass. pen., sez. II, 23.11.2004, Gambacorta, cit.; Cass. pen., sez. III, 3.12.2003, Scotti, in Guida dir., 2004, fasc. 15, 93). Questione che ha sempre suscitato dibattiti dottrinali e giurisprudenziali è quella relativa a quali siano gli elementi probatori che possano costituire la species gravi indizi di colpevolezza. La giurisprudenza ha nel tempo creato una sorta di “archivio” dei «possibili» gravi indizi di colpevolezza, costituito dai precedenti giurisprudenziali. Tale “inventario” (per dettagliato excursus: Rombi, N., Sub art. 273 c.p.p., in Giarda, A.-Spangher, G., Codice di procedura penale commentato, Milano, 2007, 1473, Curtotti Nappi, D., Sub art. 273 c.p.p., in Gaito, A., Codice di procedura penale ipertestuale, Torino, 2008, 1345) ovviamente non può ritenersi né tassativo, né obbligatorio, perché nel nostro sistema non esiste il principio del precedente giudiziario vincolante. Accanto a questi parametri ermeneutici giurisprudenziali, anche il legislatore è intervenuto attraverso delle innovazioni normative, creando delle regole di valutazione della prova in materia cautelare. Il co. 1-bis dell’art. 273 c.p.p. statuisce che, nella valutazione degli indizi di colpevolezza, si applicano le disposizioni degli artt. 192, co. 3 e 4, 195, co. 7, 203 e 271 c.p.p. Dall’indicazione legislativa si può dedurre che, nei limiti consentiti dalla legge, possono essere utilizzati come gravi indizi: la chiamata in correità, i risultati delle intercettazioni telefoniche e la testimonianza indiretta.
La chiamata in correità è sempre stata utilizzata come indizio cautelare: prima della riforma sul giusto processo, intervenuta anche in materia cautelare, notevoli dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, ruotavano intorno al quesito circa la valutazione della stessa. Attualmente la legge stabilisce che nel giudizio cautelare, così come nel dibattimento, la chiamata di correo per assurgere a grave indizio, idoneo a permettere l’applicazione di una misura cautelare, deve essere corroborato.
L’introduzione del co. 1-bis dell’art. 273 c.p.p. con la l. n. 63/2001, avrebbe dovuto avere una funzione chiarificatrice, almeno relativamente all’aspetto della disciplina valutativa della chiamata in correità, dirimendo la bagarre tra le opposte interpretazioni giurisprudenziali che erano intervenute sul tema. In realtà, neppure l’intervento legislativo è riuscito a creare un orientamento univoco in materia: se da un punto di vista è stato chiarificatore, avendo espressamente disposto che per l’utilizzo di una chiamata in correità ai fini cautelari, questa deve essere riscontrata, da un altro punto di vista ha creato ulteriori polemiche sulla tipologia del riscontro, date le differenze tra il procedimento ordinario e quello cautelare. È proprio su quest’ultimo aspetto che la giurisprudenza si è divisa e si scontra ancora oggi: secondo un’interpretazione (ex multis: Cass. pen., sez. VI, 17.2.2005, Scoma, in CED Cass., rv. 231180; Cass. pen., sez. V, 11.5.2004, Zini, ivi, rv. 229552; Cass. pen., sez. V, 21.1.2003, Formigli, in Cass. pen., 2003, 3484) i riscontri non devono essere individualizzanti, dato che altrimenti verrebbe meno la distinzione tra prova funzionale al giudizio sulla responsabilità penale e indizio grave relativo all’applicazione di una misura cautelare. Secondo un’altra interpretazione(ex multis: Cass. pen., sez. VI, 16.7.2009, M.F., in CED Cass., 244472; Cass. pen., sez. I, 25.5.2005, Lo Cricchio, in Cass. pen., 2006, 1489; Cass. pen., sez. VI, 3.12.2004, Sapia, in CED Cass., rv. 230763)sono necessari riscontri esterni individualizzanti, altrimenti la chiamata in correità non potrebbe essere in grado di costituire un utile elemento probatorio per l’attribuzione del fatto di reato all’indagato/imputato e, in ossequio agli artt. 13 e 27 Cost., non potrebbe essere idonea a fondare l’applicazione di una misura cautelare. A dirimere la questione sono intervenute le Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 31.10.2006, p.m. in c. Spennato, in Giur. it., 2007, 2291) affermando che le dichiarazioni rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato, se attendibili intrinsecamente, possono essere utilizzate come indizi in sede cautelare qualora siano corroborate da riscontri esterni individualizzanti, che possano far prevedere in termini di alta probabilità – visto il momento procedimentale in cui può essere chiesta l’applicazione di una misura cautelare – l’attribuzione del fatto oggetto di reato al soggetto che dovrebbe essere sottoposto alla misura. L’esplicito rinvio legislativo alle norme in tema di valutazione della prova dovrebbe imporre – compatibilmente con la struttura del procedimento cautelare – che la valutazione della chiamata in correità sia effettuata nella maniera più puntuale possibile, “quasi” alla stessa stregua di quanto avviene in dibattimento.
L’art. 273 c.p.p. dispone che, nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, si applicano le disposizioni dell’art. 271, co. 1, c.p.p. circa i divieti di utilizzazione delle intercettazioni. Si deduce, dalla norma in questione, l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni come elementi probatori idonei a legittimare l’applicazione di una misura cautelare.
La modifica legislativa è intervenuta per cercare di porre un freno alla prassi di utilizzare, come elementi probatori idonei a legittimare una misura cautelare, i risultati delle intercettazioni compiute senza il rispetto delle formalità richieste dalla legge: era sufficiente che queste fossero state autorizzate e fossero state disposte nei casi previsti dalla legge, per essere utilizzate in materia cautelare. La novità normativa va letta come un’applicazione del principio – che, come abbiamo visto, costituisce un valido parametro di giudizio circa l’utilizzabilità degli elementi probatori in materia cautelare – per cui possono costituire gravi indizi di colpevolezza in materia cautelare, tutti quelli elementi probatori che, pronosticando un giudizio di colpevolezza del soggetto da sottoporre alla misura, sono suscettibili di assunzione e utilizzazione in dibattimento. Ad oggi, non possono essere utilizzati come elementi probatori, i risultati delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge e senza l’osservanza delle formalità richieste dagli artt. 267 e 268, co. 1 e 3, c.p.p. Parte della giurisprudenza (Cass. pen., sez. I, 1.4.2003, Cozzolino, in Guida dir., 2003, fasc. 36, 93; Cass. pen., sez. VI, 28.3.2003, Fedorova, ibidem, fasc. 37, 78; Cass. pen., sez. I, 23.2.2002, Wuta Ofei, in Dir. giust., 2002, fasc. 19, 77), ammettendo che la sanzione dell’inutilizzabilità è circoscritta alle ipotesi espressamente disciplinate, afferma tuttavia che possono costituire gravi indizi ex art. 273 c.p.p. anche le intercettazioni riportate in forma riassuntiva, dato che non è richiamata in materia cautelare la norma circa la verbalizzazione dei risultati probatori in esame, norma prevista, invece, per la fase dibattimentale, pena l’inutilizzabilità della prova. Questa interpretazione contrasta con quello che sembra essere la voluntas legis, cioè estendere in materia de libertate la disciplina sull’inutilizzabilità delle prove (Cass. pen., S.U., 31.10.2001, Policastro, in Guida dir., 2001, fasc. 48, 68; Cass. pen., S.U., 20.11.1996, Glicora, in Cass. pen., 1997, 2037), nata al fine di tutelare i diritti di libertà dei singoli che, in questa fase, sono messi in gioco. Solo la presenza del duplice requisito della gravità della fattispecie probatoria e della sua utilizzabilità ex art. 271 c.p.p. consente alle intercettazioni di costituire la base probatoria per l’applicazione di una misura cautelare.
L’intervento legislativo del 2001 ha risolto, invece, un altro problema che attanagliava la giurisprudenza: i limiti di validità, come indizio cautelare, di una dichiarazione de relato.
In mancanza di indicazione legislativa contraria, allorquando una dichiarazione indiretta conteneva degli indizi gravi, questa poteva venire, legittimamente, utilizzata come base probatoria per l’applicazione di una misura cautelare. L’interpretazione della categoria probatoria de qua destava molte preoccupazioni, perché doveva essere molto rigorosa e richiedeva un’attenzione particolare in punto di valutazione. Di conseguenza, il vuoto legislativo in materia, aveva dato spazio a interpretazioni giurisprudenziali pregiudizievoli per i soggetti per i quali veniva richiesta la misura. Il silenzio legislativo legittimava ogni tipo di interpretazione, dietro lo scudo della gravità degli indizi contenuti nella dichiarazione, gravità che era anche difficile da dimostrare, allorquando mancava la fonte diretta dell’informazione.
Il rinvio contenuto nell’art. 273, co. 1-bis, c.p.p. al co. 7 dell’art. 195 c.p.p., statuendo che non sono utilizzabili le dichiarazioni di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame, estende i confini della sanzione dell’inutilizzabilità, garantendo in misura più puntuale i diritti di libertà dei singoli. In proposito parte della dottrina(Spangher, G., Più rigore e legalità nella valutazione dei gravi indizi per l’applicazione delle misure cautelari personali, in Tonini, P, a cura di, Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, Padova, 2001, 417) ha ritenuto che, per conferire attendibilità alla dichiarazione indiretta – sempre nei limiti dell’attendibilità che si può raggiungere nel procedimento cautelare – non è necessaria l’escussione della fonte principale, ma è sufficiente che questa sia nota, essendo ugualmente valida la dichiarazione, anche se il terzo non verrà preventivamente sentito.
Per l’applicazione di una misura cautelare personale è necessaria la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e di una delle esigenze cautelari previste, come alternative tra loro, dall’art. 274 c.p.p.
Il legislatore statuisce che le misure cautelari sono disposte quando, valutati i gravi indizi di colpevolezza, esistono situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova; quando l’indagato si è dato alla fuga o sussiste il pericolo di fuga, se il giudice ritenga possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione; quando vi è pericolo che vengano commessi determinati reati viste le modalità del fatto di reato e la pericolosità sociale del soggetto. In ogni caso il pericolo richiesto dalla norma per l’applicazione della misura deve essere concreto cioè effettivo ed attuale, basato su elementi che possono ritenersi ragionevolmente attendibili.
La lett. a) dell’art. 274 c.p.p., modificata dalla l. 8.8.1995, n. 332, prevede l’applicazione della misura cautelare quando, per specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, sussiste il pericolo di dispersione e inquinamento delle prove. Due le specificazioni necessarie: in primo luogo le indagini cui fa riferimento il legislatore sono quelle relative al procedimento a carico dell’indagato e non a procedimenti diversi, anche se connessi o riuniti (Cass. pen., sez. VI, 4.3.2002, in CED Cass., rv. 225215); in secondo luogo il termine «prova» che utilizza il legislatore all’art. 274 c.p.p. è da intendersi in larga accezione: elementi probatori, fonti e vere e proprie prove. Affinchè il pericolo possa valutarsi come realmente esistente deve esserci un rischio effettivo e reale che il soggetto da sottoporre alla misura possa inquinare o disperdere materiale probatorio. Secondo un recente orientamento giurisprudenziale (Cass. pen., sez. III, 12.10.2007, Russo, in CED Cass., rv. 237556; contra Cass. pen., sez. VI, 29.1.2007, Tamponi, in CED Cass., rv. 235973) anche eventuali coindagati possono essere sottoposti ad una disposizione restrittiva qualora vi sia il concreto pericolo che possano compromettere la salvaguardia di gran parte del materiale investigativo e probatorio. La norma dispone, inoltre, che il pericolo non può essere desunto dal rifiuto dell’indagato o dell’imputato di rendere dichiarazioni nè dalla mancata ammissione degli addebiti, dal momento che queste scelte rientrano nel diritto al silenzio del soggetto, espressione del diritto di difesa. Il giudice deve, quindi, verificare che sussista un rischio concreto di inquinamento o dispersione delle prove, facendo una prognosi in termini di alta probabilità. Visto che non è possibile affermare con certezza matematica che il soggetto da sottoporre alla misura sicuramente inquinerà o disperderà le prove, il giudizio sarà fondato sull’id quod plerumque accidit. Per garantire che la valutazione sia compiuta in maniera effettiva e puntuale il giudice ha l’obbligo ex art. 292 c.p.p., previsto a pena di nullità della misura stessa, di indicare nel provvedimento gli elementi e le circostanze di fatto dalle quali viene desunto il pericolo de quo e di fornire «sul punto adeguata e logica motivazione» (Cass. pen., sez. III, 3.12.2003, Scotti, in Guida dir., 2004, fasc. 17, 94). La motivazione rappresenta, anche in questo caso, il controllo sul corretto operato del giudice, un’argine a provvedimenti che, se illogici, sarebbero lesivi della libertà personale.
La lett. b) dell’art. 274 c.p.p. prevede che sussiste esigenza cautelare allorquando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste il concreto pericolo di fuga, a condizione che il giudice ritenga di poter irrogare una pena superiore a due anni di reclusione. L’interesse da tutelare, in questo caso, è evitare che il soggetto possa fuggire per sottrarsi all’esecuzione dell’eventuale condanna ed, inoltre, assicurare la presenza dell’imputato o dell’indagato durante il procedimento. Il pericolo deve essere, anche in questo caso, concreto: deve esistere la ragionevole probabilità che l’indagato o l’imputato possa fuggire (per tutti v. Cass. Pen., SU 24 settembre 2001, Litteri; Id., IV, 24 maggio 2007, O., in Ced Cass. 238299), tale rischio viene valutato sulla base delle circostanze processuali, nonchè di altri fatti relativi al reato e al soggetto che presumibilmente ha commesso il reato.
La lett. c) dell’art. 274 c.p.p. prevede che sussistano i presupposti per l’applicazione della misura quando, per modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’indagato o dell’imputato, sussiste il pericolo concreto che questi commetta gravi delitti con l’uso delle armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero commetta delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quelli per i quali si procede.
Se la prima delle esigenze cautelari statuita dall’art. 274 c.p.p. ha come scopo quello di tutelare la genuinità della prova, la seconda quello di garantire la presenza del soggetto indagato o imputato, la terza ha come obiettivo quello di tutelare la collettività. In questo caso il legislatore prevede espressamente che il giudizio deve essere basato sull’esame congiunto di due aspetti, quello oggettivo, il reato, e quello soggettivo, la personalità del soggetto che ha commesso il fatto (ex multis, v. Cass. pen., sez. IV, 1.4.2004, Albanese, in CED Cass., rv. 229141; Cass. pen., sez. IV, 26.3.2003, Cena, in CED Cass., rv. 225600). Quanto all’esame degli elementi oggettivi di commissione del reato per il quale si procede, vanno esaminate, secondo il dettato codicistico, le modalità e le circostanze di commissione dello stesso; quanto agli elementi soggettivi, la norma dispone che l’analisi vada condotta sulla personalità del reo e sulla sua pericolosità sociale, desunta da comportamenti e atti concreti anche indipendenti dal fatto-reato, quali ad esempio lo stile di vita, le attitudini criminose, il ruolo che svolge qualora faccia parte di un’associazione criminosa (Cass. pen., sez. VI, 20.8.1992, Bucci, in CED Cass., rv. 191657), i precedenti penali comprese anche le pendenze (Cass. pen., sez. V, 19.10.2004, Scettro, in Guida dir., 2004, fasc. 49, 92), la recidiva. Ad ogni modo anche la condotta criminosa del soggetto nella fattispecie di reato può costituire «elemento significativo per valutare la personalità dell’agente», rilevante se esaminato congiuntamente ad altri elementi probatori (Cass. pen., sez. V, 24.11.2005, Filippelli, in CED Cass., rv. 231170; Cass. pen., sez. IV, 21.11.2001, Russo, ivi, rv. 220331). Il compito del giudice è molto delicato visto che non deve semplicemente valutare elementi probatori, ma deve fare una prognosi circa la possibilità che il soggetto reiteri la condotta crimosa, previsione che deve necessariamente essere basata sulla probabilità e che deve tenere conto sia del diritto di libertà del singolo sia dell’esigenza di tutela della collettività. Il giudice, anche in questo caso, nel disporre la misura cautelare deve darne congrua motivazione.
Artt. 273-274 c.p.p.
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