Abstract
Le misure cautelari per loro natura non sono un fenomeno statico, ma, al contrario, suscettibile di variegate articolazioni derivanti dalla prospettazione di istanze processuali o dal verificarsi di fenomeni legali che ne comportano il (possibile) mutamento. Il lavoro approfondisce i casi, le forme e le modalità attraverso le quali è possibile la loro modifica – in melius o in pelius – e le garanzie e tutele da assicurare nelle diversificate ipotesi.
Le misure cautelari per loro natura non sono un fenomeno statico ma suscettibile di variegate articolazioni derivanti dalla prospettazione di istanze processuali o dal verificarsi di fenomeni legali.
Rientrano nella prima categoria le ipotesi della revoca o della sostituzione della misura (art. 299 c.p.p.): entrambe le situazioni si fondano sulla modifica dei presupposti di fatto e di diritto della cautela.
La revoca, quale causa estintiva della misura, riposa sull’assenza totale delle condizioni di applicabilità o delle esigenze cautelari poste a fondamento della misura, tanto nel caso in cui si accerti la loro insussistenza ex ante, quanto ex post. La valutazione è, dunque, invertita rispetto a quella formulata all’atto dell’adozione della cautela.
La modifica dei presupposti, vale a dire l’attenuazione delle condizioni o delle esigenze o l’alterazione della proporzionalità ed adeguatezza delle misure può determinare la sostituzione in melius (allorché siano attenuate) o in peius (allorché si siano aggravate), da intendersi non solo come sostituzione della cautela ma anche delle modalità esecutive di quest’ultima.
Sotto tale aspetto, si ricorda che, mentre al Tribunale del riesame è attribuito in via esclusiva il controllo sulla validità dell’ordinanza cautelare, con riguardo ai requisiti pretesi nel momento genetico, invece, l’ordinanza in tema di revoca della misura, che può essere adottata senza l’osservanza di termini, per qualsiasi fase del procedimento, in cui se ne ravvisi la necessità, mira a verificare la sussistenza attuale delle condizioni di applicabilità della misura prescritta dagli artt. 273 e 274 c.p.p. o di quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia ai fatti sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all’ordinanza impositiva, facendoli oggetto di valutazione eventualmente diversa da quella prescelta dal giudice che ha applicato la misura (Cass. pen., S.U., 18.6.1993, n. 14).
Il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera, infatti, come parametro di commisurazione delle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, al momento della scelta e per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangono o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale (Cass. pen., S.U., 31.3.2011, n. 16085) (v. Misure cautelari [dir. proc. pen.] 3. Criteri di scelta). Rimane fermo – anche dopo la modifica operata dalla l. n. 47 del 2015 – il vincolo stabilito dall’art. 275, co. 3, c.p.p. relativo alla presunzione, anche relativa, ex lege delle esigenze cautelari (art. 299, co. 2 e 4, c.p.p.) per specifiche ipotesi delittuose. Si ricorda che la presunzione de qua opera non solo nel momento genetico della misura coercitiva, ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (Cass. pen., S.U., 19.7.2012, n. 34473). Le Sezioni Unite hanno inoltre affermato che è illegittimo il provvedimento di revoca della custodia cautelare motivato esclusivamente in riferimento alla sopravvenuta carenza di proporzionalità della misura in ragione della corrispondenza della durata della stessa ad una percentuale, rigidamente predeterminata ricorrendo ad un criterio aritmetico, della pena irroganda nel giudizio di merito e prescindendo da ogni valutazione della persistenza e della consistenza delle esigenze cautelari che ne avevano originariamente giustificato l’applicazione (Cass. pen., S.U., 31.3.2011, n. 16085).
Revoca e sostituzione presuppongono la previa investitura del giudice (da parte dell’imputato, del suo difensore o da parte del pubblico ministero): alla regola generale fanno eccezione i casi (artt. 294, 392, 406, 416, 438, 447 e 465 c.p.p.), nei quali il giudice è investito del procedimento (art. 299, co. 3, c.p.p.) potendo il decidente disporre in via officiosa l’estinzione o la modificazione in melius della misura. Trattasi di ipotesi tassative ed eccezionali che non ammettono ulteriori estensioni.
Ragioni di tutela e protezione della vittima del reato, assicurate già a livello sovranazionale, impongono, nel caso in cui si tratti di procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, che la richiesta di revoca o sostituzione delle misure previste dagli artt. 282 bis, 282 ter, 283, 284, 285 e 286 c.p.p., formulate dal p.m. e dell’imputato, se non proposte nel corso dell’interrogatorio di garanzia, vengano contestualmente notificate, a cura della parte richiedente e a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa, salvo che quest’ultima non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio. La comunicazione dell’istanza è funzionale alla possibile presentazione, da parte del difensore e della persona offesa, di memorie al giudice, ai sensi dell’art. 121 c.p.p. I provvedimenti di revoca o sostituzione applicati per le indicate misure e nei menzionati procedimenti devono essere immediatamente comunicati, a cura della p.g., ai servizi socio-assistenziali e al difensore della persona offesa o, in mancanza, a quest’ultima.
Va sottolineato come la legge – ai fini della revoca o della sostituzione della misura – non imponga la prospettazione di elementi nuovi o diversi da quelli emersi fino a quel momento, potendo la richiesta fondarsi anche su fatti originari o coevi alla misura (salvo il limite del giudicato cautelare) ovvero su di una differente valutazione o prospettazione dei fatti già conosciuti dal giudice ovvero di fatti esistenti ma non ancora valutati.
Sulla richiesta il giudice è tenuto a pronunciarsi entro 5 giorni (termine ordinatorio e la sua inosservanza non determina alcuna sanzione salvo quella disciplinare). Il giudice deve sempre interpellare il pubblico ministero, pena, altrimenti, la nullità del provvedimento. L’accusa potrà manifestare, con parere non vincolante, il proprio assenso o dissenso nei due giorni seguenti. Ragioni di tutela e protezione della vittima del reato impongono quando si tratti di delitti commessi con violenza alla persona e l’istanza inerisce alle cautele previste dagli artt. 282 bis, 282 ter, 283, 284, 285 e 286 c.p.p., che essa venga notificata, a cura della parte richiedente e a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa, salvo che quest’ultima non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio.
Qualora lo ritenga opportuno, il giudice, prima di decidere, può procedere ad assumere l’interrogatorio dell’imputato: l’atto andrà – invece – obbligatoriamente condotto nel caso in cui la domanda abbia ad oggetto fatti nuovi mai prospettati o diversi, se l’imputato ne fa richiesta.
La sostituzione in peius della misura o la sua applicazione con modalità meno gravose può essere disposta dal giudice solo su richiesta del Procuratore della Repubblica: la domanda è formulabile tanto nel caso in cui le esigenze cautelari risultano aggravate (art. 299, co. 4, c.p.p.), quanto – sembrerebbe – nel caso di trasgressione alle prescrizioni da parte del soggetto (art. 276 c.p.p.). Il rito si discosta da quello finora prospettato: il procedimento sarà infatti segreto, atteso che la nuova misura deve essere disposta “a sorpresa”, parimenti al caso della sua applicazione originaria.
Quanto fin qui prospettato mette in luce come il giudice sia terzo rispetto all’oggetto cautelare, spettandogli il compito istituzionale di raffrontare le antitetiche posizioni dell’imputato e dell’accusa e, nell’ambito dei criteri stabili dalla legge e nei limiti dei poteri assegnatigli, esprimersi. La possibile instaurazione di un’attività istruttoria – normalmente negata – è consentita in relazione alle condizioni di salute e alle altre condizioni o qualità personali dell’imputato (Cass. pen., S.U., 17.2.1999, n. 3): la procedura, priva di formalità, dovrà essere particolarmente celere, in quanto l’attività va espletata al più presto o, al massimo, entro 15 giorni (art. 299, co. 4 ter, c.p.p.). Una disciplina più articolata è prevista quando la richiesta coinvolga la custodia cautelare in carcere e riguardi i malati di Aids (art. 299, co. 4 ter, ult. parte, c.p.p.).
Con la l. 16.4.2015, n. 47 si è previsto che nel caso di sostituzione in bonam e in malam partem sia possibile l’applicazione cumulativa di misure coercitive e interdittive.
Si pone nel solco della contiguità con i fenomeni della revoca e della sostituzione l’ipotesi dell’avvenuta violazione delle prescrizioni imposte: dopo la riforma operata dalla l. n. 47/2015, il giudice può – in primo luogo – operare la sostituzione (in peius) della misura violata o – in secondo luogo – disporre il suo inasprimento attraverso il cumulo con un’altra misura più grave. Se l’inosservanza riguarda una misura interdittiva, questa può essere sostituita o cumulata con una misura coercitiva (art. 276, co. 1, c.p.p.).
Escluso ogni automatismo, il giudice – in conformità ai criteri generali – sarà tenuto a motivare il provvedimento sulla base dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione, senza dover procedere ad un nuovo interrogatorio ai sensi dell’art. 294 c.p.p. (Cass. pen., S.U., 18.12.2008, n. 4932) L’aggravamento del regime cautelare, causato dalla trasgressione, costituisce un “atto a sorpresa”; non trattandosi di un provvedimento “introduttivo” della misura – ma di un atto che s’innesta su una cautela in esecuzione – il recupero delle garanzie potrà avvenire in sede d’appello a norma dell’art. 310 c.p.p.
Quando l’inosservanza attenga all’allontanamento dal luogo della restrizione ovvero il giudice debba valutare le implicazioni di una accertata evasione, il decidente valuterà se applicare la natura della restrizione inframuraria, salvo che il fatto sia di lieve entità: in tal caso sarà, dunque, necessario tener conto dell’entità della violazione e non al fatto per il quale è stata applicata la misura.
Incertezze giurisprudenziali si segnalano in merito al procedimento applicativo: per una parte della Cassazione esso si fonda, secondo le regole generali, sulla istanza dell’accusa; per altra parte, il giudice potrebbe pronunciarsi d’ufficio sulla base della segnalazione della p.g. A suffragare la prima impostazione sovviene C. cost., 8.3.1996, n. 63 nella parte in cui attesta come sulla domanda non vi sarebbe instaurazione del previo interrogatorio che comprometterebbe le esigenze cautelari, tutelate dall’imprevedibilità della misura.
Ragioni di giustizia sostanziale e formale sono alla base delle cause di estinzione legale della misura (artt. 300, 302, 303 e 304, co. 6, c.p.p.). Trattasi, in via generale, di ipotesi che operano automaticamente, non implicando alcuna valutazione giudiziale. Il richiamo va – sotto questo aspetto – alla perdita d’efficacia per l’omesso interrogatorio di garanzia del soggetto (art. 302 c.p.p.), per il mancato rispetto dei termini di cui ai commi 5 e 10 dell’art. 309 c.p.p. nel procedimento di riesame e nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento dell’ordinanza da parte della Cassazione (art. 311, co. 5 bis, c.p.p.) e per l’avvenuto decorso del tempo stabilito nell’ordinanza cautelare disposta per garantire l’acquisizione o la genuinità della prova, sempreché non ne venga disposta la rinnovazione (art. 301 c.p.p.). Muovono essenzialmente dal rapporto che intercorre tra il procedimento cautelare – del tutto incidentale – e gli esiti processuali del procedimento di merito (cd. procedimento principale), le altre ipotesi estintive. La misura si estinguerà ogniqualvolta il rito principale si concluda con l’archiviazione, con la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento (art. 300, co. 1, c.p.p.). La perdita d’efficacia non opererà – tuttavia – per la custodia in carcere nel caso in cui con le sentenze venga applicata la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
Ragioni di coerenza rispetto alla regola della proporzionalità giustificano – invece – l’ipotesi della perdita d’efficacia della misura per intervenuta pronuncia della sentenza di condanna quando la pena irrogata è dichiarata estinta ovvero condizionalmente sospesa. Analogamente, la custodia cautelare perde efficacia anche nel caso in cui la condanna irrogata abbia un’entità uguale o inferiore alla custodia già espiata, senza che rilevi l’eventuale proposizione dell’impugnazione contro la sentenza. L’estizione opera di diritto (Cass. pen., S.U., 31.3.2011, n. 18353) e le cause de quibus andranno dichiarate dal giudice con ordinanza ai sensi dell’art. 306 c.p.p. Nel caso della scadenza dei termini, sussiste, peraltro, il concorrente potere-dovere di istanza del p.m. (Cass., S.U., 14.7.2015, n. 14688).
L’art. 300, co. 5, c.p.p. si occupa, invece, dell’ipotesi nella quale l’imputato prosciolto o destinatario di una sentenza di non luogo a procedere venga successivamente condannato per lo stesso fatto: in tal caso, il giudice potrà adottare nei suoi confronti una o più misure coercitive solo in quanto l’imputato si sia dato alla fuga o vi sia il pericolo concreto di fuga ovvero sussista il concreto pericolo di commissione dei delitti indicati all’art. 274, co. 1, lett. c), c.p.p. In conclusione, al giudice è inibito disporre la misura per la tutela dell’acquisizione o genuinità della prova (art. 274, co. 1, lett. a), c.p.p.). Le condizioni e i limiti della norma non operano, tuttavia, nel caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere, senza che abbia rilievo alcuno la circostanza di mero fatto che egli sia stato, prima di detta sentenza, sottoposto o meno a custodia cautelare (Cass. pen., S.U., 23.2.2000, n. 8).
Soddisfa il perdurare delle esigenze probatorie la previsione della rinnovazione (art. 301 c.p.p.). L’istituto opera per tutte le misure cautelari disposte per finalità connesse alla tutela della prova. La rinnovazione si sostanzia nell’emissione di una nuova ordinanza cautelare che il giudice adotta, su richiesta del pubblico ministero (da formularsi prima della scadenza del termine), allorché verifichi il perdurare delle specifiche ed inderogabili esigenze di cui all’art. 274, co. 1, lett. a), c.p.p., dopo aver obbligatoriamente sentito il difensore della persona cui la misura è rivolta (C.cost., 8.6.1994, n. 219).
L’ordinanza di rinnovazione, pur essendo “nuova”, sarà suscettibile d’appello ex art. 310 c.p.p.
Il punto di equilibrio tra le esigenze probatorie, connaturali all’attività investigativa, e le garanzie di libertà della persona sottoposta alla misura è rappresentato – ad ogni modo – dal potere di disporre la rinnovazione, anche per più di una volta, ma, entro i termini massimi di durata previsti dalla legge per le corrispondenti misure agli artt. 305 e 308 c.p.p. (art. 301, co. 2, c.p.p.)
Per la medesima ragione, una peculiare disciplina circonda la custodia inframuraria. In tal caso, vi è una predeterminazione legale: la cautela è “costretta” dalla legge entro il limite dei 30 giorni. Alla regola fanno eccezione, per intuibili ragioni legate alla natura ed al carattere delle fattispecie delittuose, i reati di cui all’ art. 407, co. 2, lett. a), nn. 1-6 c.p.p. e le ipotesi nelle quali ricorrono peculiari condizioni investigative (art. 301, co. 2 bis, c.p.p.): a fronte della prospettazione delle ragioni che hanno impedito il compimento delle indagini per le cui esigenze la misura era stata disposta, è, comunque, consentito all’accusa richiedere la proroga del termine mensile. Prima di decidere sulla domanda al giudice è fatto obbligo di interrogare l’imputato. Il termine potrà essere prorogato per non più di due volte e, comunque, entro il limite massimo di 90 giorni (art. 301, co. 2 ter, c.p.p.).
Altre ipotesi di allungamento dei termini di custodia cautelare sono regolate all’art. 305 c.p.p. che disciplina l’istituto di carattere eccezione (Cass. pen., S.U., 21.4.1995, n. 12) della proroga della custodia cautelare (v. Cass. pen., S.U., 11.7.2001, n. 33541).
In primo luogo, in ogni stato e grado del procedimento di merito (escludendo il giudizio innanzi alla Corte di cassazione, nel quale è interdetto lo svolgimento d’attività probatoria), i termini sono prorogati per il tempo in cui deve essere espletata una perizia sullo stato di mente dell’imputato.
Trattandosi di un atto che pregiudica colui che sta eseguendo la misura, la legge prescrive che il giudice, prima di decidere sulla domanda formulata dal p.m., deve sentire il legale, al fine di acquisire anche le istanze difensive di fatto ma, vertendosi sulla perizia, anche quelle più squisitamente tecniche. Il provvedimento di proroga è suscettibile del solo ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 311 c.p.p.
In secondo luogo, la proroga dei termini di custodia può aver luogo per esigenze investigative. La domanda potrà essere, infatti, formulata dall’accusa, nel solo corso delle indagini preliminari, quando i termini siano prossimi a scadere e siano palesate gravi esigenze cautelari che, correlate ad accertamenti particolarmente complessi ovvero alle nuove indagini resesi necessarie dopo l’invio dell’avviso di conclusioni delle indagini all’indagato (art. 415 bis c.p.p.) rendano necessario il protrarsi della misura.
Atteso il carattere particolarmente “tecnico” della decisione, il giudice delle indagini preliminari dovrà instaurare un contraddittorio semplificato, ma effettivo.
La proroga può essere rinnovata una sola volta fino al limite della metà dei termini massimi di custodia previsti dalla legge per la fase delle indagini preliminari, l’unica, come premesso, entro la quale può essere richiesta la proroga.
In estrinsecazione degli artt. 13, ult. co., e 27, co. 2, Cost., la compressione anticipata della libertà personale esige riscontri rapidi dei presupposti contestati: l’aspetto temporale è il perno dell’intera disciplina cautelare. L’indicazione cronologica rappresenta l’espressione del sacrificio massimo che si può richiedere al soggetto che soffre la contrazione anticipata della propria libertà personale ogniqualvolta l’autorità sia “inadempiente” nello svolgimento dell’attività investigativa o giurisdizionale.
In conformità, l’art. 303 c.p.p. tratteggia la disciplina dei termini di durata massima delle misure cautelari personali: il trascorrere del tempo incide, in questo caso, sul provvedimento, per suo carattere «provvisorio», condizionandolo in maniera automatica. Alla scadenza, il giudice deve disporre la cessazione degli effetti (se si tratta di misura obbligatoria o interdittiva) o la liberazione (se si tratta di misura custodiale, salvo che l’indagato non sia detenuto per altra causa).
Il sistema dei termini è strutturato su tre livelli che prevedono: termini “intermedi” di fase e di grado, termini “massimi complessivi” e termini “massimi finali”.
Con riferimento ai termini intermedi (di fase o di grado) il legislatore prevede che, tenuto conto della gravità dei reati, la misura perde efficacia se, entro 3 mesi, 6 mesi, 1 anno, dall’inizio dell’esecuzione non sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio o l’ordinanza con cui il giudice dispone il giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438 c.p.p. ovvero senza che sia pronunciata la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti; ovvero che, sempre in relazione alla gravità dei reati, la misura perde efficacia, se entro 6 mesi, 1 anno, 1 anno e 6 mesi, dall’emissione del provvedimento che dispone il giudizio non sia stata pronunciata sentenza di primo grado. Meccanismi analoghi, seppur con termini diversi, sono previsti per i segmenti successivi (giudizio d’appello e giudizio di cassazione; art. 303, co. 1, lett. c) e d), c.p.p.).
Norme particolari sono dettate con riferimento ai delitti di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. ed in relazione al rito abbreviato (art. 303, co. 1, lett. b), n. 3-bis e lett. b-bis) c.p.p.; Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 29556; Cass. pen., S.U., 28.4.2011, n. 30200). Peraltro, in tema di durata della custodia cautelare, ai fini dell’individuazione del termine di fase allorchè vi sia stata una sentenza di condanna, di primo o secondo grado, occorre tener conto della pena complessivamente inflitta per tutti i reati per i quali è in corso la misura della custodia cautelare, e quindi alla pena unitariamente quantificata a seguito dell’applicazione del cumulo materiale o giuridico per riconoscimento del vincolo della continuazione (Cass. pen., S.U., 31.5.2007, n. 23381); in caso di pena stabilita cumulativamente per il reato continuato dal giudice del procedimento principale, spetta al giudice investito della questione cautelare provvedere all’individuazione dell’aumento per i reati satellite e determinare la frazione di pena riferibile a ciascuno dei reati in continuazione, ispirandosi a criteri che tengano conto della loro natura e oggettiva gravità, secondo l’apprezzamento fattone dal giudice di merito (Cass. pen., S.U., 26.3.2009, n. 25956). Invero, ai fini dell’operatività della norma, nel caso in cui per alcuni soltanto dei reati avvinti dalla continuazione mantenga efficacia la custodia cautelare, per “condanna” e per “pena inflitta” deve intendersi quella riguardante questi ultimi reati e non la “condanna” e la “pena inflitta” per l’intero reato continuato (Cass. pen., S.U., 26.2.1997, n. 1).
Qualora il procedimento regredisca ad una fase o ad un grado di giudizio diverso ovvero sia rinviato ad altro giudice, dalla data che statuisce la regressione o il rinvio, fermo restando che si deve tenere conto anche dei periodi di detenzione imputabili ad altra fase o grado del procedimento medesimo, limitatamente ai periodi riferibili a fasi o gradi omogenei ai sensi degli artt. 303, co. 2 e 304, co. 6, c.p.p. (Cass. pen., S.U., 31.3.2004, n. 23016) ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia i termini indicati per ciascun grado o stato decorrono nuovamente; analogo fenomeno opera nel caso di evasione a decorrere, in questo caso, dalla data in cui è ripristinata la custodia cautelare. La necessità di fissare dei termini massimi anche in questo caso ha indotto la Consulta a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 303, co. 2, c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 13 Cost., nella parte in cui la disposizione non consente di computare, ai fini dei termini comunque invalicabili di fase, determinati dall’art. 304, co. 6, c.p.p., i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito (C. cost., 22.7.2005, n. 299).
Quanto ai termini complessivi, la custodia cautelare non può comunque superare: 2 anni quando si procede per un delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non superiore nel massimo a 6 anni; 4 anni nel caso della pena della reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 6 anni nel caso in cui trattasi di delitto punito con l’ergastolo o la reclusione superiore a 20 anni. La natura dei termini complessivi non consente lo sforamento neppure ove trovino applicazione le ipotesi già viste di proroga (art. 305 c.p.p.) e – come si vedrà –le situazioni di «neutralizzazione» o di «congelamento». In ogni caso, il termine massimo di durata dalla custodia, non può essere superato anche sommando i periodi di sospensione per particolare complessità del dibattimento o del giudizio abbreviato (Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 29556).
Le misure coercitive diverse dalla custodia carceraria ed i parificati arresti domiciliari perdono efficacia, con il riacquisto della libertà personale compromessa, quando dall’inizio dell’esecuzione è decorso il «doppio dei termini» previsti per la custodia cautelare. Per le misure interdittive il periodo è, invece, di dodici mesi (art. 302 c.p.p.).
Quanto ai criteri di computo, il legislatore fissa alcune regole per calcolare la durata della misura: il momento iniziale dal quale calcolare i termini decorre dalla cattura dall’arresto o dal fermo; quello terminale si colloca al momento dell’irrevocabilità della sentenza di condanna; quelli intermedi sono individuati nella pronuncia dei provvedimenti che definiscono la fase ed il grado (che costituiscono anche il momento iniziale del nuovo segmento, ove il soggetto non venga liberato).
Il legislatore, tuttavia, stabilisce che alcuni specifici giorni, nei quali il soggetto è pur ristretto in stato di custodia cautelare, non vengono conteggiati nei tempi dei segmenti processuali, ma solo, alla fine, per il termine complessivo di cui all’art. 303, co. 4, c.p.p.: si tratta dei giorni in cui sono tenute le udienze e di quelli impiegati per la deliberazione della sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulle impugnazioni (cd. congelamento o neutralizzazione). La previsione opera automaticamente senza necessità di una richiesta della pubblica accusa o di un provvedimento del giudice.
Con la locuzione «contestazioni a catena» si richiama quel fenomeno che si verifica quando ad una prima ordinanza cautelare facciano seguito altri provvedimenti relativi allo «stesso fatto» – anche se diversamente circostanziato o qualificato – già oggetto del primo atto ovvero all’emissione di nuove ordinanze relative, questa volta, a fatti di reato differenti, ma già configurabili dagli atti investigativi, fin dal momento della richiesta della prima ordinanza. Trattasi, come si comprende, di fattispecie nelle quali può venire “allungato” il periodo di restrizione della libertà del soggetto sottoposto alla cautela: l’adozione “multipla” degli atti restrittivi, implicando una decorrenza ex novo dei termini, finirebbe per confliggere con la prospettata disciplina dei termini di durata massima (art. 13, ult. co., Cost.). Al fine di evitare queste possibili tensioni, l’art. 297, co. 3, c.p.p. prospetta la decorrenza della durata a far data dall’esecuzione della prima ordinanza, anche quando trattasi di fatti diversi da quello “contestato” nella prima ordinanza, purché si tratti di fatti commessi anteriormente e «connessi» (concorso formale, continuazione o nesso teleologico) al fatto per il quale è stata emessa la prima misura. La regola non si applica – tuttavia – quando le nuove ordinanze siano emesse dopo che è stato disposto il rinvio a giudizio, ogniqualvolta i fatti non fossero – comunque – desumibili dagli atti prima di quel momento. Dunque, in generale, la legge opera una “retrodatazione” dei diversi provvedimenti alle condizioni appena indicate. Un rafforzamento di tale salvaguardia proviene dalla Corte di cassazione che ha sostenuto come anche in caso di fatti diversi non legati dalla connessione prevista dall’art. 297, co. 3, c.p.p., «i termini delle misure cautelari disposte con le ordinanze successive decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, quando si accerti che al momento dell’emissione di questa erano desumibili dagli atti gli elementi che hanno giustificato le ordinanze successive» e dalla Corte costituzionale (C. cost., 3.11.2005, n. 408) che ha ritenuto illegittima l’esclusione della retrodatazione dei termini di durata in relazione a reati diversi non avvinti da una connessione cosiddetta “qualificata”, ogniqualvolta, al momento dell’emissione della prima ordinanza, gli elementi che hanno legittimato l’emissione delle ordinanze successive erano già desumibili dagli atti o, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, l’esclusione quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura (C. cost., 6.7.2001, n. 233). Così è consentito dedurre innanzi al tribunale del riesame la retrodatazione quando il termine interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare e vi è la desumibilità dell’ordinanza applicativa della misura coercitiva di tutti gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva (Cass. pen., S.U., 19.7.2012, n. 45246).
Le due decisioni consacrano, dunque, l’operatività della retrodatazione ad un parametro certo, “obiettivo” e predeterminato, qual è la desumibilità dagli atti degli elementi che hanno legittimato l'emissione delle ordinanze successive ed allargano l’ambito della garanzia fissata dall’art. 297, co. 3, c.p.p. ai casi di pluralità di titoli e di fatti di reato non necessariamente avvinti dalla connessione ex art. 12, co. 1, lett. b) e c), c.p.p., evitando un illegittimo prolungamento dei termini di custodia cautelare se il pubblico ministero diluisce nel tempo le contestazioni.
La possibile presenza di vicende incidenti sul decorso fisiologico dei tempi della restrizione della libertà personale, ha indotto a prevedere una possibile sospensione del loro decorso, con conseguente superamento dei termini intermedi e complessivi e fissazione di termini “massimi finali”.
Circoscritta alla fase del giudizio e rimessa alla scelta del giudice, la sospensione è disposta, a volte d’ufficio, altre volte previa richiesta del pubblico ministero, con ordinanza appellabile ex art. 310 c.p.p. Così, a titolo esemplificativo, la sospensione dei termini opera, nel corso della fase del giudizio, quando il dibattimento è sospeso o rinviato per impedimento dell’imputato o del suo difensore o su richiesta di questi ultimi, purché la sospensione ed il rinvio non siano disposti per l’acquisizione delle prove o per la concessione dei termini a difesa; quando, sempre nella fase del giudizio, il dibattimento è sospeso o rinviato per mancata presentazione, allontanamento o mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati; nella fase del giudizio, durante la pendenza dei termini per la redazione della sentenza quando non è possibile per il giudice procedere alla estensione immediata dei motivi o quando la redazione della motivazione è molto complessa dato il numero degli imputati e la gravità delle imputazioni (si pensi ai cd. maxi-processi). La complessità delle udienze preliminari, dei dibattimenti e dei giudizi abbreviati permea pure le altre ipotesi annoverate dall’art. 304, co. 1 c-bis, 2 e 4 c.p.p. Sono previste garanzie per i coimputati estranei alle delineate situazioni (art. 304, co. 5, c.p.p.).
In parallelo, la legge (art. 159 c.p.) stabilisce che il provvedimento di sospensione abbia effetti interruttivi della prescrizione.
Comunque, a garanzia del soggetto ristretto, per effetto della sospensione, la durata della custodia nelle diverse fasi del procedimento non può superare il «doppio» dei termini «intermedi» di fase –già illustrati –, senza tener conto, tuttavia, del peculiare termine previsto all’art. 303, co. 1, lett. b), n. 3-bis, c.p.p., e i termini complessivi di cui all’art. 303, co. 4, c.p.p. aumentati della metà ovvero, quando il limite sia più favorevole, quello dei «due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza; a tal fine la pena dell’ergastolo è equiparata alla pena massima temporanea».
Cercando di esemplificare: i riferiti termini intermedi del primo segmento di 3 mesi, 6 mesi ed 1 anno, per effetto della sospensione, potranno arrivare, rispettivamente, al massimo di 6 mesi, 1 anno, 2 anni; quelli complessivi di 2, 4, 6 anni potranno, rispettivamente, portare la durata finale della custodia cautelare a 3, 6, 9 anni.
Nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini (art. 307 c.p.p.), quando permangono le ragioni che avevano determinato la custodia cautelare il giudice può disporre le altre misure cautelari di cui ricorrono i presupposti. Quando trattasi di un reato di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. la legge ammette l’applicazione – anche cumulativa – delle misure del divieto di espatrio, dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e del divieto ed obbligo di dimora.
Tuttavia, la custodia cautelare può essere ripristinata: a) quando l’imputato abbia dolosamente trasgredito le prescrizioni della misura disposta dopo l’avvenuta scarcerazione sempreché, in relazione alla trasgressione, ricorra taluna delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.; b) contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna di primo grado o secondo grado, quando ricorre l’esigenza del pericolo di fuga di cui all’art. 274, co. 1, lett. ,b), c.p.p. Il ripristino della custodia determina un nuovo decorso dei termini, ma, ai fini del computo dei termini massimi della durata complessiva della custodia cautelare (art. 303, co. 4, c.p.p.), si tiene conto anche della custodia anteriormente subita.
In entrambe le ipotesi (trasgressione delle prescrizioni della misura e pericolo di fuga) la polizia giudiziaria può procedere al fermo del fuggitivo.
La legge ammette l’applicazione in via provvisoria e puramente cautelare della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per l’imputato che risulti affetto da vizio totale di mente e del ricovero in casa di cura e custodia quando la persona risulti semi-inferma di mente (art. 206, co. 1, c.p.), nel caso in cui il giudice accerti la sussistenza dei gravi indizi di commissione del fatto, la pericolosità sociale dell’imputato, vale a dire, la probabilità di commissione di reati (art. 203 c.p.), e l’assenza di cause di giustificazione, di non punibilità o di estinzione del rato (art. 312 c.p.p.). La Corte costituzionale ha precisato che al giudice non è precluso adottare una misura di sicurezza non detentiva come la libertà vigilata (art. 228 c.p.), purchè sia idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e, parimenti, a contenere la sua pericolosità sociale.
Salva la non operatività dei termini massimi di custodia cautelare, posto che – a garanzia della persona inferma – il giudice è tenuto a procedere a un accertamento periodico semestrale sullo stato di mente del soggetto, il procedimento d’applicazione delle misure di sicurezza, le garanzie e il loro regime d’impugnazione è analogo a quello previsto per le misure custodiali (art. 313, co. 3, c.p.p.).
Artt. 13, 24, e 111 Cost.; artt. 299-308 c.p.p.
Spangher, G., Le misure cautelari personali, AA. VV. Procedura penale – Teoria e pratca del processo, tomo II, Misure cautelari. Indagini preliminari. Giudizio, a cura di A. Marandola, Torino, 2015, 92 ss.