Abstract
Viene analizzato il giudizio d’appello cautelare proponibile contro le misure cautelari personali diverse da quelle coercitive di “prima applicazione”, approfondendo la natura dell’istituto, gli atti controllabili, i soggetti legittimati, il procedimento e i suoi possibili esiti.
La varietà delle misure cautelari personali applicabili e delle vicende (modificative, estintive, sospensive, reintroduttive) connesse ai provvedimenti cautelari ha impegnato il legislatore a prevedere, quale altro mezzo di gravame, oltre al riesame, l’appello (art. 310 c.p.p.).
Il rimedio ha carattere residuale, essendo limitato alle ordinanze relative a misure cautelari diverse da quelle assoggettabili a riesame (coercitive e di prima applicazione), e, per l’implicito rinvio contenuto nell’art. 310 c.p.p., ha una cognizione limitata ai punti della decisione che hanno formato oggetto di censura (art. 597, co. 1, c.p.p.) (Cass. pen., S.U., 31.3.2004, Donelli, in Dir. pen. e processo, 2005, 49): in quest’ambito, il tribunale della libertà decide ex novo su tutte le questioni astrattamente ipotizzabili in ordine ai punti cui si riferiscono i motivi proposti.
La diversa struttura del rimedio – rispetto al riesame – determina alcune significative “ricadute”: l’autorità procedente deve trasmettere soltanto la documentazione su cui si fonda l’ordinanza appellata; trattandosi di un procedimento speciale rispetto all’impugnazione ordinaria, la disciplina di carattere generale è applicabile per tutto quanto non sia espressamente e diversamente disposto dall’art. 310 c.p.p.; le formule terminative sono quelle della conferma e riforma, ma, il dato più significativo – rispetto al riesame – è rappresentato dall’assenza di termini perentori a cui far conseguire situazioni di caducazione della misura.
Stante l’alternatività dei due rimedi, i provvedimenti appellabili sono quelli insuscettibili di riesame, per i quali, peraltro, non è consentito il ricorso per saltum. La competenza del tribunale distrettuale (art. 309, co. 7, c.p.p.) è funzionale.
In caso di errore nelle scelte o nell’indicazione del mezzo di gravame troverà operatività l’art. 568, co. 5, c.p.p.: posta, tuttavia, la diversità tra il riesame e l’appello, in relazione alla presentazione dei motivi, la conversione opererà solo in presenza di un gravame ammissibile e l’inammissibilità (art. 591 c.p.p.) sarà pronunciata, anche in caso di conversione da ricorso, dal giudice fornito di competenza. Non trova applicazione l’appello incidentale, del tutto estraneo al sistema delle impugnazioni in materia cautelare (Cass. pen., S.U., 28.10.2010, G. e altro, in Riv. pen., 2011, 895, con nota di G. Giannelli).
I soggetti legittimati ad appellare sono il pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (le funzioni in udienza devono, invece, essere svolte unicamente dal pubblico ministero che ha il suo ufficio presso il tribunale decidente, a cui sono dati gli avvisi e a cui deve essere comunicato il contenuto dell’ordinanza, spettandogli la legittimazione all’eventuale ricorso per cassazione) l’imputato ed il suo difensore.
Anche per proporre l’appello de libertate, la parte legittimata deve avere interesse, concreto e attuale, all’impugnazione.
L’iter dell’appello ricalca in larga parte quello del giudizio di riesame (arg. ex art. 310 che rinvia all’art. 310, co. 1-4 e 7, c.p.p.).
In sintesi: i termini per impugnare sono fissati in dieci giorni decorrenti dalla notificazione o dalla comunicazione dell’atto o dall’avviso del deposito; la domanda contenente – a pena di inammissibilità – i motivi di gravame potrà essere presentata secondo quanto previsto dagli artt. 582 e 583 c.p.p.; è inibita, in assenza di rinvio dell’art. 310 al co. 6 dell’art. 309 c.p.p., la proposizione di motivi, anche nuovi, fino all’udienza; le memorie difensive devono essere presentate almeno cinque giorni prima dell’udienza camerale (art. 127, co. 2).
Per assicurare il diritto di difesa – a pena di nullità ex art. 178, co. 1, lett. c), c.p.p. – dovranno essere trasmessi al giudice d’appello gli atti di cui ha tenuto conto il g.i.p. nel provvedimento impugnato; ma, in assenza di un richiamo al co. 5 dell’art. 309 c.p.p., il ritardo nella trasmissione non determina la caducazione automatica della misura coercitiva, né comporta conseguenze e sanzioni processuali nei confronti dei soggetti cui il ritardo sia addebitabile, pur essendo doverosa una sollecita attivazione da parte del p.m. (art. 100 disp. att. c.p.p.) (Cass. pen., S.U., 29.5.2008, Malgioglio, in Guida dir., 2008, fasc. 31, 101). È assicurato il diritto di estrarre copia dagli atti e, dopo, C. Cost., 10.10.2008, n. 336, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 268 c.p.p., quello di ottenere – dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone la misura – la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate e utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate.
Il procedimento si svolge in camera di consiglio nelle forme dell’art. 127 c.p.p.; l’omesso avviso alle parti della data dell’udienza camerale – da comunicarsi o notificarsi almeno dieci giorni prima e da intendersi rispettato anche attraverso il rinvio ad una udienza successiva – dà luogo ad una nullità, parimenti a quanto accade se dall’omissione ne derivi l’impossibilità per (entrambi) i difensori di partecipare all’udienza (Cass. pen., S.U., 25.6.1997, Gattellaro, in Giur. it., 1998, 115).
Il termine di venti giorni fissato dall’art. 310 c.p.p. per la deliberazione ha natura ordinatoria: la sua inosservanza non determina la perdita di efficacia del provvedimento (Cass. pen., S.U., 29.5.2008, cit.).
Parimenti non determina la perdita di efficacia della misura il mancato rispetto di trenta giorni, ovvero dei quarantacinque in caso di pluralità di arrestati o di gravità dei reati, per il deposito del provvedimento, come previsto dall’art. 309, co. 10, c.p.p.
Pur in mancanza di una normativa specifica, in applicazione dei principi generali, a seguito del giudizio di gravame potrà essere pronunciata la condanna dell’imputato alle spese.
L’appello de libertate è un procedimento speciale rispetto alle impugnazioni previste dal titolo II del libro IX la cui disciplina, di carattere generale, è applicabile per tutto quanto non espressamente e diversamente disposto dall’art. 310 c.p.p.
Pertanto, poiché l’art. 310 c.p.p. non richiama il co. 9 dell’art. 309 c.p.p., che consente al tribunale di annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati ovvero può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto attribuire al tribunale in sede d’appello, i caratteri propri delle impugnazioni, con la conseguente applicabilità del principio tantum devolutum quantum appellatum previsto dall’art. 597 c.p.p. (da intendersi implicitamente richiamato), che attribuisce al giudice di appello la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti: la cognizione non è condizionata alle deduzioni in fatto e alle argomentazioni in diritto, poste dal giudice della decisione a sostegno del proprio assunto (Cass. pen., S.U., 25.6.1997, Gibilras, in Cass. pen., 1998, 1591, con nota di D. Vicoli).
È stata superata dalle Sezioni Unite la controversia se nell’ambito dei motivi dedotti il giudice dell’appello abbia il potere di decidere anche sulla base di elementi nuovi addotti o indicati dalle parti. Secondo una prima tesi, alla quale ha aderito il Collegio Riunito, al quesito deve darsi risposta positiva, applicandosi i principi di cui all’art. 603 c.p.p., nel qual caso, l’elemento nuovo va escluso solo se inconferente o relativo ad atti di cui sia vietata l’acquisizione o se il giudice è in grado di decidere allo stato degli atti (Cass. pen., S.U., 31.3.2004, Donelli, in Arch. nuova proc. pen., 2004, 279). Le stesse Sezioni Unite hanno, però, chiarito che non si avverte il bisogno di mutuare dall’art. 603 c.p.p. la disciplina che consente una riespansione del diritto delle parti alla prova, nella ipotesi in cui essa è consentita, dovendosi, invece, optare per le modalità acquisitive previste nel modello camerale dell’art. 127 c.p.p.
La tesi negativa riposava sul mancato richiamo da parte dell’art. 310 al co. 9 dell’art. 309 c.p.p., potendo i nuovi elementi essere fatti valere ex art. 299 c.p.p. e tenendo conto del fatto che il divieto non si estende agli atti interni del processo, quali le sentenze ed i provvedimenti resi nelle fasi pregresse dai giudici o dagli organi intervenuti nel procedimento.
Il silenzio legislativo mantenuto in relazione alla tipologia delle decisioni adottabili dal tribunale in sede d’appello ed il mancato richiamo a quanto disposto dal co. 9 dell’art. 309 c.p.p. fanno ritenere che siano adottabili solo le formule terminative previste per il giudizio di appello. In termini generali, si rileva che, per ragioni di coerenza dell’ordinamento, tale silenzio assume il significato di un rinvio implicito ai principi e alle norme che disciplinano l’istituto dell’appello, nelle parti che si rendono applicabili. Ne consegue che il tribunale, quale giudice di appello dei provvedimenti in materia di libertà personale, può confermare o riformare il provvedimento impugnato e non può annullarlo per difetto di motivazione, ma deve, invece, nel rispetto del principio tantum devolutum quantum appellatum, completarla, integrandola in tutto o in parte.
In ossequio al principio devolutivo, il collegio ex art. 310 c.p.p. è tenuto a limitare la cognizione ai punti dell’ordinanza interessati dai motivi dell’impugnazione, ma tale principio deve essere correlato con quello della naturale e logica conseguenza dell’annullamento, che fa rivivere la situazione giuridica esistente prima del provvedimento annullato. Ne consegue che, una volta sostituita dal g.i.p. – a seguito di istanza di parte – la misura del divieto di dimora con quella degli arresti domiciliati, legittimamente il tribunale della libertà che accolga l’appello dell’indagato, ripristina la misura del divieto di dimora sul rilievo della persistenza di esigenze cautelari; mentre l’applicazione di una misura cautelare disposta in sede di appello avverso l’ordinanza che ha revocato, senza sostituirla, quella precedentemente emessa, opera ex novo ed impone la rivalutazione delle esigenze cautelari.
Anche al tribunale della libertà è consentito motivare per relationem.
In deroga a quanto disposto dall’art. 588 c.p.p., il co. 3 dell’art. 310 c.p.p. stabilisce che l’esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l’appello del p.m., dispone una misura cautelare, è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva.
Come anticipato, anche nel giudizio d’appello sarà necessario tener conto di C. cost., 15.3.1996, n. 71, con possibilità di autonoma valutazione del quadro indiziario nonostante l’intervenuto rinvio a giudizio dell’imputato (Cass. pen., S.U., 25.10.1995, Liotta, in Cass. pen., 1996, 776).
La decisione emessa, una volta divenuta definitiva, ha efficacia preclusiva rubus sic stantibus in ordine alle questioni di fatto o in diritto esplicitamente o implicitamente dedotte, ma non anche a quelle deducibili, in quel giudizio (Cass. pen., S.U., 10.4.2007, Librato, in Cass. pen., 2007, 3229); pertanto le questioni dedotte, in difetto di nuove acquisizioni probatorie che implichino un mutamento della situazione di fatto sulla quale la decisione era fondata, restano precluse nel procedimento cautelare eventualmente attivato dal p.m., mediante nuova richiesta nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso fatto (Cass. pen., S.U., 31.3.2004, Donelli, in Cass. pen., 2004, 2746, con nota di P. Spagnolo).
Art. 5 CEDU; artt. 13, 24, 27, 107 e 111 Cost.; art. 310 c.p.p.
Aprile, E., Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2003; Aprile, E., I procedimenti dinanzi al tribunale della libertà, Milano, 1999; Aprile, E., Le impugnazioni delle ordinanze sulla libertà personale, Milano, 1996; Guida alle impugnazioni dinanzi al tribunale del riesame, a cura di A. Bassi e T.E. Epidendio, Milano 2002; Ceresa Gastaldo, M., Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993; Furgiuele, A., L’appello cautelare, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, II, Prove e misure cautelari, a cura di A. Scalfati, t. II, Le misure cautelari, Torino, 2009, 541 ss.; La Rocca, S.-La Rocca, E.N., Impugnazioni de libertate, in Le misure cautelari personali, a cura di G. Spangher e C. Santoriello, I, Torino 2009; Polvani, M., Le impugnazioni de libertate: Riesame, appello, ricorso, II ed., Padova, 1999; Spagnolo, P., Il tribunale della libertà. Tra normativa nazionale e normativa internazionale, Milano, 2008.