Abstract
Nella regolamentazione del procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, il legislatore si limita a fissare i termini per la proposizione della domanda, il giudice competente a decidere e l’entità massima liquidabile e a richiamare, nei limiti della compatibilità, le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario. In ordine ai criteri di determinazione del quantum debeatur, l’enigmatico parametro «equitativo», che compare nell’art. 314, co. 1, c.p.p., non è riempito in alcun modo di significato. Le vistose lacune normative emergenti all’interno dell’architettura processuale dell’istituto hanno indotto il Giudice di legittimità a rivestire un preponderante ruolo di «supplenza».
La riparazione per l’ingiusta detenzione replica concettualmente e strutturalmente la riparazione dell’errore giudiziario. È proprio in attuazione della comune funzione normativa dispiegata dai due istituti che il legislatore delegato ha previsto un «fisiologico processo osmotico» (Jannelli, E., La riparazione dell’errore giudiziario, in Chiavario, M.-Marzaduri, E., Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Torino, 2005, 733) tra le relative discipline: le regole fissate negli artt. 644-647 c.p.p. sono applicabili, in quanto compatibili, in materia di ingiusta detenzione (art. 315, co. 3, c.p.p.). A tali disposizioni si aggiungono, poi, le previsioni di cui agli artt. 315, co. 1 e 2, c.p.p. – che fissano i termini per la proposizione della domanda e il tetto massimo liquidabile – e 102 disp. att. c.p.p., relativo all’organo competente a decidere. Le vistose lacune normative sono colmate dalla giurisprudenza di legittimità in maniera non univoca: si attinge alle norme del codice di rito penale o a quelle di procedura civile a seconda che si proclami la natura penalistica (Cass. pen., S.U., 9.7.2003, n. 35760, in Cass. pen., 2003, 3721) o civilistica del procedimento in questione (quest’ultima sembra essere l’impostazione dominante: per tutte v. Cass. pen., S.U., 26.6.2002, n. 34559, e, recentemente, Cass. pen., sez. IV, 13.11.2008, n. 48247, in Ced Cass., n. 242758). La compresenza di opposti orientamenti evidenzia la marcata promiscuità di un istituto (Bellucci, A., Ingiusta detenzione (riparazione per la), in Dig. pen., Agg., Torino, 2010, 485) che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, è un «diritto soggettivo pubblico» distinto dal risarcimento del danno – in quanto l'obbligo statale non nasce ex illecito ma da una doverosa solidarietà verso la vittima della indebita detenzione (tra le tante, Cass. pen., sez. IV, 17.12.1992, n. 1520, in Ced Cass., n. 193229; Cass. pen., sez. IV, 19.2.2009, n. 1500, in Ced Cass., n. 243210) – ed inquadrato nella categoria dogmatica dell’indennizzo o indennità (ex plurimis, Cass. pen., sez. IV, 19.4.2005, n. 20916, in Ced Cass., n. 231655; v. anche C. Cost., 20.6.2008, n. 219, in Giur. cost., 2008, 2456). Di diverso avviso è la dottrina (Coppetta, M.G., La riparazione per ingiusta detenzione,Padova, 1993, 220; Di Chiara, G., Attualità del pensiero di Francesco Carrara in tema di ingiusto carcere preventivo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 1418; Turco, E., L’equa riparazione tra errore giudiziario e ingiusta detenzione, Milano, 2007, 2), per la quale la riparazione costituisce un tertium genus, distinto, per presupposti e finalità, non solo dal risarcimento, ma anche dall’indennizzo: mentre quest’ultima categoria dogmatica presuppone il sacrificio di un interesse individuale a vantaggio di un interesse pubblico, la riparazione postula la lesione del diritto del singolo cui non corrisponde la tutela di un superiore interesse della collettività, non essendo certo interesse dello Stato che l’innocente venga ingiustamente perseguito o che la limitazione della libertà personale rifugga da concreti e definiti profili di reità. A ciò si aggiunga che, a differenza di quanto avviene nel modello tipico di indennizzo, nella riparazione la lesione del diritto individuale non sempre è determinata da un «atto legittimo della pubblica autorità», posto che le fattispecie di «ingiustizia formale» ex art. 314, co. 2, c.p.p. sottendono, al contrario, una custodia cautelare disposta o mantenuta in forza di un titolo illegittimo (v. voce Misure cautelari. Riparazione per l’ingiusta detenzione. 1. Presupposti, § 3).
Legittimato a proporre l’istanza di riparazione è, anzitutto, il soggetto che ha patito l’ingiusta detenzione, il quale può agire personalmente o tramite procuratore speciale (Cass. pen., sez. IV, 18.2.2009, n. 14413, in Ced Cass., n. 243880); in caso di morte del diretto interessato, la legittimazione si estende ai prossimi congiunti (art. 644, co. 1, c.p.p.) – che agiscono in proprio e non iure hereditario (Cass. pen., sez. IV, 9.4.2008, n. 23913, in Ced Cass., n. 240300) –, sempre che non si trovino «nella situazione di indegnità prevista dall’art. 463 c.c.» (art. 644, co. 3, c.p.p.).
Il termine perentorio, prescritto a pena di inammissibilità, per la presentazione della domanda – che ha carattere sostanziale e, dunque, non è suscettibile di sospensione nel periodo feriale (Cass. pen., sez. IV, 6.2.1997, n. 328, in Ced Cass., n. 207251) –, originariamente fissato in diciotto mesi, è stato esteso dall’art. 15 l. 16.12.1999, n. 479, a due anni (art. 315, co. 2, c.p.p.) e, in tal modo, uniformato a quello previsto dall’art. 645, co. 1, c.p.p. in materia di errore giudiziario. Esso decorre dal giorno in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna (v. Cass. pen., sez. IV, 23.4.2009, n. 26427, in Ced Cass., n. 244502, secondo cui l’impugnazione della parte civile – inidonea a modificare le statuizioni penali del provvedimento impugnato – non incide sulla decorrenza del termine per la proposizione della domanda riparatoria) o inoppugnabile la sentenza di non luogo a procedere; per il provvedimento di archiviazione, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 15 l. n. 479/1999, rileva non più il momento della pronuncia bensì quello della notificazione (art. 315, co. 1, c.p.p.; in arg. v. Bono, G., La decorrenzadei termini per la domanda di riparazione, in Cass. pen., 2010, 680; Scomparin, L., sub art. 314 c.p.p., in Chiavario, M., Commento al nuovo codice di procedura penale, III, Agg., Torino, 1996, 61).
La domanda va presentata presso la cancelleria della Corte d’appello nel cui distretto è stata emessa la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento; nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, è competente la Corte d’appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato (art. 102 disp. att. c.p.p.). La presentazione materiale può essere demandata anche ad un soggetto diverso dall’instante o dal procuratore speciale (Cass. pen., S.U., 12.3.1999, n. 8, in Foro it., 1999, II, 256; in dottrina, Della Marra, T., Un punto fermo sulle modalità di presentazione della domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione, in Giur. it., 1995, 627; non sono applicabili, in via analogica, le forme previste per l’atto di impugnazione, sicché si ritiene esclusa la spedizione dell’istanza a mezzo del servizio postale: Cass. pen., sez. IV, 7.11.2006, n. 11962, in Ced Cass., n. 236275). Il Collegio decide in camera di consiglio osservando le forme di cui all’art. 127 c.p.p. (art. 646, co. 1, c.p.p.). Il presidente, dopo aver vagliato l’ammissibilità della domanda, fissa con decreto la data dell’udienza. Al fine di consentire l’instaurazione di un regolare contraddittorio, domanda e decreto vanno comunicati al p.m. – ossia al Procuratore generale presso la Corte d’appello – e notificate, a cura della cancelleria, al Ministro dell’Economia e delle Finanze – presso la competente sede distrettuale dell’Avvocatura dello Stato – e a tutti gli interessati, compresi «gli aventi diritto che non hanno proposto la domanda» (art. 646, co. 2, c.p.p.), almeno dieci giorni prima della data fissata per l’udienza (art. 127, co. 1, c.p.p.). Nel caso di omessa comunicazione o notificazione scatta la nullità generale a regime intermedio ex art. 178, lett. b) e c)., c.p.p. (Cass. pen., S.U., n. 35760/2003). Il decreto di fissazione dell’udienza va, ovviamente, notificato anche a chi ha proposto la domanda, a pena di nullità assoluta, trattandosi di una fattispecie direttamente riconducibile all’«omessa citazione dell’imputato» ex art. 179, co. 1, c.p.p. Fino a cinque giorni prima dell’udienza, le parti hanno facoltà di depositare memorie e documenti (art. 127, co. 2, c.p.p.) e, qualora la domanda sia stata presentata da un congiunto, gli altri eventuali interessati possono intervenire tardivamente in udienza formulando le proprie richieste, a pena di decadenza «dal diritto di presentare la domanda di riparazione successivamente alla chiusura del procedimento stesso» (art. 646, co. 4, c.p.p.).
Il procedimento si celebra davanti alla Corte di appello in camera di consiglio, a norma dell’art. 127 c.p.p. (art. 646, co. 1, c.p.p.): si tratta, dunque, di una trattazione camerale «partecipata», in assenza del pubblico (art. 127, co. 6, c.p.p.). Sul punto, va richiamata la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (C. eur. dir. uomo, 10.4.2012, Lorenzetti c. Italia) che ha ravvisato la violazione dell’art. 6 Conv. europea, in tema di «diritto ad un equo processo», «per la mancanza di pubblicità del rito camerale che si celebra davanti alla Corte di appello». In particolare, la Corte di Strasburgo, sottolineata l’importanza che assume la pubblicità dell’udienza nel quadro dei principi tracciati dalla Convenzione e rammentati, altresì, alla luce della propria giurisprudenza, i casi in cui può ritenersi consentito derogare al principio de quo (come quelli che contemplino la trattazione di «questioni altamente tecniche») ha osservato che, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione – ove il giudice è chiamato a valutare «se l’interessato abbia contributo a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave» (v. voce Misure cautelari. Riparazione per l’ingiusta detenzione. 1. Presupposti, § 6) –, «nessuna circostanza eccezionale giustifica l’esimersi dal tenere un’udienza sotto il controllo del pubblico, non trattandosi di questioni di natura tecnica che possano essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo». Preso atto di tale pronuncia, le Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 18.10.2012, n. 41694, in Ced Cass., n. 253289) non si sono potute sottrarre all’«obbligo» di invocare l’intervento del Giudice delle leggi, dichiarando la rilevanza e la non manifesta infondatezza – in riferimento agli artt. 117, co. 1 e 111, co. 1, Cost. – della questione di legittimità costituzionale dell’art. 315, co. 3, c.p.p., in relazione all’art. 646, co. 1, c.p.p., nella parte in cui non consente che, su istanza degli interessati, il procedimento per la riparazione si svolga, davanti alla Corte d’appello, nelle forme della pubblica udienza.
La partecipazione all’udienza – che si apre con la relazione di un membro del Collegio, preventivamente designato dal Presidente (art. 45 disp. att. c.p.p.) – è meramente facoltativa per i destinatari dell’avviso, che sono sentiti, se compaiono, a pena di nullità intermedia (art. 178, co. 1, lett. c) c.p.p., ai sensi del combinato disposto dei co. 3 e 5 dell’art. 127 c.p.p.: v. Cass. pen., sez. IV, 25.11.2009, n. 48373, in Ced Cass., n. 245730). L’interessato detenuto fuori dal distretto della Corte d’appello procedente deve essere sentito dal magistrato di sorveglianza del luogo prima del giorno fissato per l’udienza solo se ne faccia richiesta (art. 127, co. 3, c.p.p.); qualora, poi, sia detenuto nel luogo in cui ha sede il giudice competente, l’udienza è rinviata in presenza di un suo legittimo impedimento a comparire (art. 127, co. 4, c.p.p.). Secondo la prevalente giurisprudenza, scatta la nullità assoluta sia nei casi di mancata audizione da parte del magistrato di sorveglianza (tra le tante, Cass. pen., sez. VI, 17.12.1997, n. 5164, in Ced Cass., n. 211721), sia nei casi di mancata traduzione all’udienza camerale (ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 16.2.1998, n. 1041, in Ced Cass., n. 210645).
Ai sensi dell’art. 645, co. 1, c.p.p., a corredo della domanda vanno presentati i «documenti ritenuti utili»: dunque, chi invoca la riparazione ha, innanzitutto, l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto, allegando l’ordinanza cautelare e il provvedimento che ne attesta l’ingiustizia; correlativamente, il Ministro dell’economia e delle finanze, quale convenuto, ha l’onere di dimostrare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa creditoria avanzata dall’instante (Cass. pen., sez. IV, 2.4.2004, n. 23630, in Ced Cass., n. 229074). Secondo l’orientamento prevalente, il fondamento solidaristico e la rilevanza pubblicistica dell’istituto in questione consentono di prescindere da una rigorosa applicazione dell’art. 2697 c.c., in materia di onere della prova: pertanto, il giudice adito può avvalersi di ampi poteri d’ufficio (Cass. pen., sez. IV, 25.11.2008, n. 9948, in Ced Cass., n. 243701), integrando le eventuali lacunose allegazioni delle parti (cfr. Cass. pen., sez. IV, 12.3.2008, n. 21060, in Ced Cass., n. 240020). Tuttavia, sulla parte interessata incombe un onere probatorio perfetto ove intenda vincolare il giudice alla considerazione di specifici fattori nella determinazione equitativa del pregiudizio (Cass. pen., sez. I, 17.12.1991, n. 4931, in Ced Cass., n. 188915).
Quanto al paniere probatorio a disposizione della Corte d’appello decidente, recentemente, le Sezioni Unite, chiarito che l’inutilizzabilità «patologica» non possa derubricarsi – se non in termini costituzionalmente discutibili – a mero connotato endoprocessuale, hanno esteso l’operatività della sanzione di cui all’art. 271 c.p.p., accertata in sede di cognizione, al giudizio promosso ai sensi dell’art. 315 c.p.p. (v. Cass. pen., S.U., 30.10.2008, n. 1153, in Cass. pen., 2009, 1833, con nota di Aprati., R., Gli effetti della inutilizzabilità delle intercettazioni nel giudizio per la riparazione per ingiusta detenzione; v. anche Marando, G., Procedimento di riparazione dell'ingiusta detenzione e tutela della legalità della prova, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 2137 ss.; Panzavolta, M., Un altro tassello della "giusta riparazione": no all'impiego delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel giudizio di merito, in Giur. it., 2010, 942, ss., Papagno, C., I limiti temporali all’analisi del dolo e della colpa nel giudizio sulla riparazione, in Cass. pen., 2011, 1823 ss.; Piccialli, P., Il giudizio di riparazione e le intercettazioni inutilizzabili, in Corr. mer., 2009, 673). Permangono incertezze ermeneutiche sulla operatività della inutilizzabilità meramente «fisiologica» (in senso positivo v. Cass. pen., sez. IV, 23.4.2009, n. 38181, in Ced Cass., n. 245308; contra Cass. pen., sez. IV, 20.11.2008, n. 3620, in Ced Cass., n. 243646).
Il procedimento riparatorio si conclude con ordinanza (artt. 646, co. 1, e 127, co. 6, c.p.p.): di inammissibilità, per decorso del termine, carenza di legittimazione attiva o mancata osservanza delle forme e delle modalità di presentazione ex art. 645, co. 1, c.p.p.; di rigetto ove la domanda risulti infondata, perché priva del titolo o proposta in presenza di una causa ostativa; di accoglimento se sussistono tutti i requisiti di ammissibilità e fondatezza. Nell’ordinanza devono essere esposte le ragioni per cui si ritiene riparabile (o non) il periodo di privazione della libertà personale sofferto. Nel caso in cui il rigetto sia giustificato dalla presenza della causa ostativa ex art. 314, co. 1, c.p.p. – che va apprezzata concretamente, non potendosi attribuire efficacia preclusiva a condotte che solo ipoteticamente avrebbero potuto causare o contribuire a causare l'evento lesivo ma che, di fatto, non hanno minimamente influito sull'adozione del provvedimento cautelare –, dovere inderogabile del giudice – il cui mancato assolvimento è censurabile in cassazione – è, altresì, quello di fornire una motivazione logica, congrua e completa, in ordine alla riferibilità della condotta ostativa all'interessato (tra le tante, Cass. pen., sez. IV, 21.5.2002, n. 28961, in Ced Cass., n. 221819). La presenza della causa ostativa va accertata all’esito di una prognosi postuma – la quale presuppone che il giudice della riparazione si «cali nei panni» del giudice della cautela, si riporti ad un dato momento del passato e, tenendo conto delle circostanze di fatto allora note o conoscibili, stabilisca se determinate condotte siano idonee ad ingenerare nell’autorità giudiziaria la falsa apparenza della configurabilità di un illecito penale e da indurla prevedibilmente ad adottare o a non revocare il provvedimento restrittivo – che, pur potendosi fondare sullo stesso materiale acquisito al processo di cognizione, segue un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello tracciato nel processo di merito (tra le tante Cass. pen., sez. IV, 10.3.2000, n. 1705, in Ced Cass., n. 216479), salvo il divieto per il giudice di negare la riparazione facendo leva sul carattere doloso o gravemente colposo di una condotta dell'interessato ritenuta non sufficientemente provata dal giudice della cognizione (Cass. pen., sez. III, 20.4.2011, n. 19998, in Ced Cass., n. 250385).
In caso di accoglimento della domanda, il giudice è tenuto a fissare l’ammontare del quantum debeatur – somma che produce interessi dalla data della pronuncia giudiziale (Cass. pen., sez. IV, 22.6.2010, n. 34674, in Ced Cass., n. 248084) – in base ad una valutazione «equitativa» (v. infra, 4), che non può mai determinare uno sfondamento del tetto massimo previsto dall’art. 315, co. 2, c.p.p. (assente nella corrispondente norma in tema di riparazione dell’errore giudiziario), pari, nell’originaria previsione, a cento milioni di lire e innalzato, dalla l. n. 479/1999, a un miliardo di lire (oggi, 516.456,90 euro) (in senso critico, Coppetta, M.G., Riparazione per ingiusta detenzione, inEnc. giuridica Treccani, Roma, 2001, 6; Turco, E., L’equa riparazione, cit., 106; v., anche Spangher, G., I nuovi profili della riparazione per ingiusta detenzione, in Peroni, F., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, 242). Ai prossimi congiunti non può mai essere assegnata una somma maggiore di quella che sarebbe stata liquidata al prosciolto (art. 644, co. 2, c.p.p.).
La Corte d’appello che accolga la domanda, oltre a pronunciare la condanna alle spese, in favore della vittima, della parte che risulti «soccombente» – cioè che, opponendosi, abbia «colorato di contenziosità» il procedimento (v., ex plurimis, Cass. pen., sez. IV, 28.5.2008, n. 34997, in Ced Cass., n. 240563) –, può assegnare, ai sensi dell’art. 646, co. 5, c.p.p., una provvisionale a titolo di alimenti, ove accerti che l’avente diritto versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento (Cass. pen., sez. IV, 18.6.2008, n. 30063, in Ced Cass., n. 240384). Oltre al pagamento della somma di denaro, è prevista, poi, quale forma di risarcimento in forma specifica, la reintegrazione nel posto di lavoro della vittima licenziata a causa della ingiusta detenzione (art. 102 bis disp. att. c.p.p.).
L’ordinanza è ricorribile per cassazione da tutti gli interessati: chi ha proposto l’istanza – tramite il difensore (art. 571, co. 3, c.p.p.) che sia iscritto nell’albo speciale ex art. 613 c.p.p. (v. Cass. pen., S.U., 27.6.2001, n. 34535, in Cass. pen., 2002, 74, la quale ha chiarito che l'unica deroga all’art. 613 c.p.p. è quella prevista dall'art. 571, co. 1, c.p.p., che riconosce al solo «imputato» la facoltà di proporre personalmente l'impugnazione; da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 3.11.2010, n. 41636, in Ced Cass., n. 248449) –, il pubblico ministero e l’amministrazione convenuta; il termine è di quindici giorni ex art. 585, co. 1, lett. a), c.p.p. e decorre dalla notificazione o comunicazione dell’ordinanza (art. 646, co. 3, c.p.p.). Non è ammesso il ricorso per la correzione dell’errore di fatto ex art. 625 bis c.p.p. (Cass. pen., sez. III, 21.1.2010, n. 8735, in Ced Cass., n. 246216); solo in caso di rigetto è possibile adire la Corte europea, al fine di conseguire, in via sussidiaria, la riparazione ingiustamente negata alla stregua dei rimedi interni (Bellucci, A., Ingiusta detenzione, cit., 487; v. infra, § 5).
Particolarmente controversa si presenta la questione relativa all’individuazione dei criteri cui deve attenersi il giudice chiamato a determinare il «quantum di pregiudizio» patito dalla vittima dell’ingiusto provvedimento, posto che il riferimento all'«equità» – unico elemento preso in esame dal legislatore – ha contenuto sfumato e si presta a valutazioni differenti. Nell’ambito della variegata produzione giurisprudenziale che si è sviluppata sul tema emerge una certezza: il giudice non è vincolato ai parametri normativi fissati in materia di responsabilità aquiliana, stante la diversità ontologica tra riparazione e risarcimento del danno (v. supra, § 1). Ciò posto, sin dall’entrata in vigore dell’istituto, si sono fronteggiati due antitetici filoni intepretativi. Il primo, minoritario, riduce il ruolo del giudice a quello di un «contabile» che deve calcolare la misura della riparazione essenzialmente in base ad un criterio nummario, risultante dal collegamento tra durata effettiva della limitazione di libertà subita, termine massimo della custodia cautelare e tetto massimo liquidabile; solo in via residuale ed eventuale, al fine di adeguare la somma al caso concreto, il giudice, in via equitativa, può procedere a degli «aggiustamenti marginali» del dato aritmetico ricavato, valorizzando con prudenza altre circostanze di fatto, sia di carattere oggettivo (detenzione in carcere o nel proprio domicilio, autorizzazione al lavoro o meno) che soggettivo, fornendo al riguardo adeguata e congrua motivazione anche circa le regole d'esperienza che ne hanno suggerito l'adozione (tra le tante, Cass. pen., sez. IV, 28.1.1993, n. 131, in Ced Cass., n. 193382). Il secondo, assolutamente prevalente, svincola il giudice da criteri meramente aritmetici e attribuisce ai pregiudizi in concreto sofferti dalla vittima che siano in rapporto eziologico con l’ingiusta detenzione la stessa dignità della durata della custodia cautelare sofferta. E ciò sia per effetto dell'applicabilità, in tale materia, della disposizione di cui all'art. 643, co. 1, c.p.p. (arg. art. 315, co. 3, c.p.p.) – che commisura la riparazione dell'errore giudiziario, oltre che alla durata dell'eventuale espiazione della pena, alle «conseguenze personali e familiari» derivanti dalla condanna –, sia in considerazione del valore «dinamico» che l'ordinamento costituzionale attribuisce alla libertà di ciascun individuo, dal quale deriva la doverosità di una valutazione differenziata caso per caso (Cass. pen., S.U., 31.1.1995, n. 1, in Giur. it., 1996, II, 155; in dottrina, v. Catarinella, P., Ancora in tema di riparazione per ingiusta detenzione, in Giur. mer., 1994, 677; Macrì, M., Il riferimento alle «conseguenze personali e familiari» derivanti dalla custodia cautelare rende effettivo il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, in Resp. civ. prev., 1995, 721; Pini, V., La quantificazione dell’indennizzo nella riparazione per ingiusta detenzione: parametri variabili e disorientamenti giurisprudenziali, in Giur. it., 1995, 438; Id., In tema di quantum debeatur nella riparazione per l’ingiusta detenzione, in Giur. it., 1996, 145; Zanetti, E., La riparazione dell’ingiusta detenzione alla prova dell’equo indennizzo, in Riv. dir. proc., 2006, 111). Il giudice che eserciti correttamente il potere equitativo, dunque, deve tener conto, e non marginalmente, delle precise voci di danno indicate dall’interessato – un particolare pregiudizio psico-fisico, il discredito sociale, l'interruzione dell’attività lavorativa o ricreativa, il fallimento dell’impresa, la perdita di un affare o di ulteriori prospettive di carriera e di studio, la mancata conclusione di contratti, l’indegnità a succedere, la separazione o il divorzio, etc. –, prendendo atto che non ha dinanzi a sé un essere umano astratto, indifferenziato, senza volto, ma una persona che ha una propria soggettività, sensibilità, background sociale, culturale, economico, che ha vissuto e vive la libertà in un certo modo e che, se ne è privata, è colpito in quel particolar modo di vivere (Cass. pen., S.U., n. 1/1995).
Tale ultimo orientamento negli anni successivi si è consolidato e affinato. Nelle recenti pronunce si legge che il parametro aritmetico – «l'unico che raccorda a dati certi e paritari il pregiudizio derivante dalla limitazione della libertà» e che consente di sottrarre la determinazione del quantum debeatur «all'imponderabile soggettivismo del giudice» – costituisce solo il punto di partenza per la liquidazione della somma da accordare, la quale può subire rimaneggiamenti verso l’alto, nei limiti del tetto massimo (Cass. pen., S.U., 9.5.2001, n. 24287, in Ced Cass., n. 218975), in presenza di particolari contingenze (peraltro, secondo Cass. pen., sez. III, 13.2.2008, n. 13603, in Ced Cass., n. 239684, non può incidere sulla liquidazione della somma la custodia carceraria sofferta in base all’art. 41 bis ord. pen., «non differenziandosi in maniera sostanziale, quanto alla limitazione della libertà personale, dalla custodia carceraria normale») – come lo strepitus fori (Cass. pen., sez. IV, 6.10.2009, n. 40906, in Ced Cass., n. 245369), il licenziamento (Cass. pen., sez. IV, 9.4.2009, n. 35662, in Ced Cass., n. 245436), l'interruzione delle attività lavorative e ricreative, dei rapporti affettivi e degli altri rapporti interpersonali, il mutamento radicale, peggiorativo e non voluto, delle abitudini di vita (Cass. pen., sez. IV, 18.3.2009, n. 22688, in Ced Cass., n. 243990, in materia di riparazione dell’errore giudiziario; v., però, Cass. pen., sez. IV, 11.7.2007, n. 39815, in Ced Cass., n. 237837, per la quale deve escludersi che tra le conseguenze ulteriori indennizzabili possa essere ricompresa una voce a titolo di danno esistenziale, perché il pregiudizio che con questa tipologia di danno non patrimoniale viene evidenziato non è diverso ed autonomo da quello conseguente alla stessa privazione della libertà personale, di per sé idonea, da sola, a sconvolgere per un periodo consistente le abitudini di vita della persona; in senso critico Turco, E., Ingiusta detenzione e riparazione del danno esistenziale, in Cass. pen., 20084735), le lesioni psichiche permanenti (Cass. pen., sez. III, 10.3.2011, n. 15665, in Ced Cass., n. 250004; la sindrome depressiva non costituisce, invece, circostanza particolare idonea di per sé ad incrementare l'indennizzo liquidato in base al solo criterio aritmetico, trattandosi di una ripercussione frequentemente presente in situazioni di ingiusta detenzione: Cass. pen., sez. III, n. 13603/2008) –, o verso il basso – in considerazione, ad esempio, della colpa lieve dell’instante (Cass. pen., sez. IV, 20.5.2008, n. 27529, in Ced Cass., n. 240889), delle precorse, negative, esperienze giudiziarie (Cass. pen., sez. IV, 22.6.2010, n. 34673, in Ced Cass., n. 248083), delle modalità meno afflittive di esecuzione della misura cautelare (per la detenzione domiciliare viene solitamente liquidata una somma dimezzata rispetto a quella derivante dall'applicazione del mero criterio aritmetico: Cass. pen., sez. IV, 10.6.2010, n. 34664, in Ced Cass., n. 248078), della tipologia della sentenza emessa (il grado di sofferenza cui è esposto il colpevole ristretto per un periodo eccessivo rispetto alla pena inflitta è di norma inferiore a quello patito dall’innocente che subisca la detenzione: Cass. pen., S.U., 30.5.2006, n. 25084, in Cass. pen., 2007, 2366, con nota di Turco, E., Pluralità di imputazioni e riparabilità della custodia cautelare eccedente la misura della pena inflitta: la parola alla Consulta; e C. cost., 20.6.2008, n. 219, in Giur. cost., 2008, 2456) –, a condizione che, in un caso e nell'altro, il giudice dia conto della valutazione dei relativi parametri di riferimento (Cass. pen., sez. III, 13.2.2008, n. 13602, in Ced Cass., n. 239683; Cass. pen., sez. IV, 21.7.2009, n. 38266, in Ced Cass., n. 245034), perché solo una motivazione adeguata e logicamente congrua può operare quale correttivo alla latente arbitrarietà insita nell’intervento equitativo del giudice (tra le tante, Cass. pen., sez. III, 10.2.2004, n. 23211, in Ced Cass., n. 229289; Coppetta, M.G., Riparazione per ingiusta detenzione, cit., 6, sottolinea come sia in agguato il rischio, pericoloso e iniquo, di determinazioni del tutto sproporzionate e fortemente discriminanti, «poiché i criteri quantificatori operano come variabili incontrollabili e incontrollate nel potere discrezionale del giudice», e auspica, pertanto, una modifica legislativa che abolisca il tetto massimo e sostituisca il parametro equitativo con criteri puntuali e rigorosi).
Nel caso in cui l’illegittima privazione della libertà personale tragga origine dalla condotta colpevole del giudice si assiste ad una sovrapposizione tra ingiusta detenzione e illecito civile e problematica diventa l’individuazione delle linee di confine con il risarcimento del danno previsto dalla l. 13.4.1988, n. 117, concernente la responsabilità civile del magistrato per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie (Bellucci, A., Ingiusta detenzione, cit., 489). In particolare, l’applicazione della custodia cautelare, da parte del giudice, con dolo o colpa grave, in violazione delle disposizioni contenute negli artt. 273 e 280 c.p.p., oltre ad essere «riparabile» ex art. 314, co. 2, c.p.p., è «risarcibile» ai sensi dell’art. 2 l. n. 117/1988, mentre il mantenimento della misura de libertate nonostante il venir meno predette condizioni, determinato sempre da dolo o colpa grave del magistrato e non sorretto da un «giustificato motivo», «riparabile» ai sensi dell’art. 314, co. 2, c.p.p., è riconducibile alla figura del «diniego di giustizia» e, pertanto, «risarcibile» ex art. 3 l. cit. (Coppetta, M.G., Custodia cautelare ingiusta e responsabilità civile dei magistrati, in Ind. pen., 1990, 125). L’interessato può disporre sia dell’azione riparatoria che di quella risarcitoria. Tuttavia, specifiche regole idonee a disciplinare la eventuale contemporanea presentazione delle due istanze non sono dettate né dal codice di rito né dalla l. n. 117/1988, il cui art. 14 si limita a statuire che «le disposizioni della presente legge non pregiudicano la riparazione alle vittime degli errori giudiziari e di ingiusta detenzione». In attesa di un intervento chiarificatore del legislatore, sia che si ritenga opportuno fissare la priorità della procedura risarcitoria su quella riparatoria, per il contenuto più ampio che il risarcimento assume rispetto alla riparazione, a carico della quale pesa il limite del tetto massimo (così Coppetta, M.G., La riparazione, cit., 248), sia che si affermi la preminenza della procedura riparatoria, più spedita e accessibile, su quella risarcitoria, circondata da non poche cautele (Turco, E., L’equa riparazione, cit., 348), deve, con certezza, escludersi che alla giuridica possibilità per l’interessato di disporre delle due azioni corrisponda anche la concreta possibilità di cumulare le somme richieste (v. Vanni, R., Nuovi profili della riparazione dell’errore giudiziario, Padova, 1992, 77).
Nell’ipotesi in cui risulti una «falsità in atti o in giudizio» o «un altro fatto previsto dalla legge come reato», quale antecedente causale della custodia cautelare, la vittima dell’ingiusta detenzione può esercitare l’azione risarcitoria contro l’autore del reato: non vi sono, infatti, ragioni per escludere la compatibilità, sotto tale profilo, dell’art. 647 c.p.p. con la disciplina in esame. Nell’evenienza in cui l’imputato, sottoposto a custodia cautelare in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. e, all’esito del processo, condannato, sia successivamente prosciolto in sede di revisione, può prospettarsi, poi, una concorrenza tra l’azione prevista dall’art. 314, co. 2, c.p.p. e quella contemplata dall’art. 643 c.p.p. È verosimile ritenere che il diritto riconosciuto da quest’ultima norma, presupponendo una sentenza di proscioglimento emessa in sede di revisione, maturi in un momento successivo a quello in cui sia stata concretamente avanzata la pretesa riparatoria ai sensi dell’art. 314, co. 2, c.p.p., il cui dies a quo è segnato dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Peraltro, se, nel momento in cui prendono corpo i presupposti per ottenere la riparazione dell’errore giudiziario, il procedimento delineato dall’art. 315 c.p.p. non è stato ancora attivato, l’interessato potrebbe presentare un’istanza congiunta di riparazione per l’ingiusta detenzione e l’errore giudiziario patiti.
Un’ulteriore forma di riparazione, che opera in via sussidiaria rispetto a quella predisposta dal legislatore negli artt. 314 e 315 c.p.p., deriva, infine, dalla Convenzione europea, il cui art. 5, par. 5, come già accennato, stabilisce che «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione». La previsione risponde all’esigenza di assicurare la riparazione ogni qual volta la restrizione della libertà personale risulti disposta o mantenuta contra legem (al contrario, la Convenzione europea tace sulla ingiustizia ex post, non riconoscendo il diritto riparatorio all’imputato prosciolto per le restrizioni apportate legittimamente alla sua libertà), ossia in violazione di uno dei diritti fondamentali garantiti dallo stesso art. 5, par. 1. Nello specifico, secondo quest’ultima disposizione, nessuno può essere privato della libertà quando non si ravvisino «ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato» (fumus commissi delicti) oppure «motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso» (pericolosità sociale e pericolo di fuga). La legittimità della detenzione, poi, è subordinata al rispetto di un iter procedurale minimo, che comprende la tempestiva informazione dei motivi dell’arresto e dell’accusa, la traduzione «al più presto» dinanzi ad un magistrato, la ragionevole durata del procedimento, nonché la facoltà di adire un tribunale per il controllo - «entro brevi termini» - sulla legalità della detenzione.
Obbligo per i singoli Stati contraenti è quello di adeguare la disciplina interna alle garanzie fissate nel menzionato art. 5; in caso di inadempimento, l’interessato può attivare un giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 34 CEDU), alle cui sentenze è riconosciuta forza vincolante (art. 46 CEDU). L’accertamento della violazione presuppone una verifica pregiudiziale in ordine all’esaurimento di tutte le vie di ricorso interne (art. 35 CEDU). Le implicazioni di tale principio non sono di poco conto: per tutte le ipotesi di privazione della libertà personale illegittime ai sensi dell’art 5 CEDU, ma che non rientrano nel raggio applicativo del rimedio riparatorio interno – si pensi alla compressione della libertà determinata da una misura cautelare non custodiale (C. eur. dir. uomo, 12.2.2009, Nolan c. Russia) o da una misura di prevenzione personale (C. eur. dir. uomo, 4.8.2005, Zecǐri c. Italia) o alla detenzione protrattasi indebitamente oltre la durata ragionevole (C. eur. dir. uomo, 11.7.2006, Harkmann c. Estonia) oppure ai casi di omesso o ritardato controllo giurisdizionale sulla legalità della iniziativa restrittiva (tra le tante, C. eur. dir. uomo, 3.7.2007, Naranjo Hurtado c. Italia) o, ancora, alla custodia patita in assenza di esigenze cautelari –, si dischiude una prospettiva riparatoria di dimensione sovranazionale (sul punto Bellucci, A., Ingiusta detenzione, cit., 484): accertato l’esaurimento delle vie di ricorso interne, segue il giudizio sulla lesione e, se del caso, la condanna dello Stato alla riparazione.
Art. 24 Cost.; art. 5 CEDU (resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 484); art. 9 Patto internazionale sui diritti civili e politici (reso esecutivo con l. 25.10.1977, n. 881); art. 314 c.p.p.; art. 315 c.p.p., art. 643 c.p.p.; art. 644 c.p.p.; art. 645 c.p.p.; art. 646 c.p.p.; art. 647 c.p.p.; art. 102 disp. att. c.p.p.; art. 102 bis disp. att. c.p.p.
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