Abstract
La garanzia delle libertà personali viene affermata attraverso i criteri applicativi delle misure limitative a carattere temporaneo, quali le cautelari che, pur in grado di inibire prontamente la condotta criminosa, prescindono da un definitivo accertamento di responsabilità; la tutela della pericolosità sociale è garantita dalle misure di sicurezza. In merito al primo dei profili, si esamina la struttura e la funzione delle misure coercitive, ponendo in rilievo l’art. 282 bis (introdotto dalla l. n. 154/2001) che, con la nuova misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, ne integra la tipologia delle misure più miti, pur potendo, tuttavia, arricchire l’applicazione di contenuti preventivi ed afflittivi che di fatto ne rinforzano la gravità. In relazione al secondo degli aspetti, viene posta in risalto la funzione delle misure di sicurezza, quale risultato nel bilanciamento di due opposti interessi: la libertà personale da un lato, la pericolosità sociale dall’altro.
1. Premessa
Nell’attuale codice di procedura penale, a differenza dei precedenti nei quali l’espressione «libertà personale» veniva esplicitamente riportata in una serie di istituti raggruppati in un unico libro, comprensivo delle disposizioni inerenti la specifica tematica, non è presente un corpo unitario della materia, bensì istituti disciplinati in vari libri del codice (v. l’arresto in flagranza ed il fermo per i quali risulta preminente l’appartenenza alla fase delle indagini preliminari).
Riveste, semmai, il carattere di unitarietà, il libro dedicato alle misure cautelari laddove, tuttavia, il distinguo tra le cautele «coercitive» e le «interdittive» evidenzia, in merito alle prime, le misure che in particolare incidono sulla limitazione fisica dell’individuo, mentre le altre sulla sua vita di relazione. Le misure cautelari in genere sono connotate da un rapporto di strumentalità con il procedimento penale in quanto garantiscono: l’accertamento del reato (se sussiste un pericolo di inquinamento delle prove), l’esecuzione della sentenza conclusiva del processo (se vi è pericolo che l’imputato fugga o disperda il proprio patrimonio), e impediscono l’aggravamento delle conseguenze del reato (limitando la commissione di ulteriori reati).
2. L’esigenza di legalità nella garanzia costituzionale
L’attenzione che la Costituzione riserva alla «persona» si traduce in una serie di principi riconducibili all’individuazione degli ambiti di libertà e diritti inviolabili. L’art. 2 Cost. è la disposizione di carattere generale che, riconoscendo l’inviolabilità dei diritti dell’uomo, ha la funzione metodologica di «clausola aperta» alle garanzie ed alle libertà fondamentali della persona, rinviando non solo a quei diritti naturali cristallizzati nelle successive norme costituzionali, bensì a quelli derivanti dall’evoluzione dei diritti della persona in forza della dinamica sociale e anche dei mutamenti normativi a carattere internazionale. Con la funzione di norma matrice, l’art. 2 Cost. va, pertanto, coordinato con le altre disposizioni costituzionali relative alle specifiche libertà ed ai singoli diritti: gli artt. 13 (inviolabilità della libertà), 14 (inviolabilità del domicilio), 15 (libertà e segretezza della corrispondenza), 16 (libertà di circolazione), 21 (libera manifestazione di pensiero), 27 (presunzione di non colpevolezza), dai cui precetti si evince che le cosiddette «restrizioni significative», intendendo per tali quelle che incidono in maniera irreparabile sulla libertà personale, devono essere sempre disposte dal giudice e sono ricorribili direttamente in Cassazione; diversamente, quelle «minori», determinando una restrizione transitoria della libertà, possono essere applicate anche dal pubblico ministero e non sono soggette a ricorso dinanzi alla Suprema Corte; nonché con l’art. 111, co. 7, Cost. la cui funzione è di giurisdizionalizzare i provvedimenti incidenti sulla libertà personale.
3. I presupposti per l’applicazione di tutte le misure restrittive la libertà personale
In merito all’esercizio del potere coercitivo, l’art. 280 c.p.p., disciplina nel testo i limiti generali e, nel rinvio ad altre disposizioni, le specifiche deroghe. In particolare l’inciso di cui al comma 1 va inteso nel senso che l’applicazione della misura custodiale può essere disposta, in seguito alla convalida dell’arresto in flagranza per il delitto di evasione, anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 280 e 274, co. 1, lett. c), c.p.p. (Cass. pen., sez. VI, 24.11.2009, n. 47302, in CED Cass. pen., 2009, n. 245484), in quanto tale limite è derogato dall’art. 280, co. 3, c.p.p. nelle ipotesi di trasgressione delle prescrizioni relative ad una misura cautelare, tra le quali rientra l’ipotesi d’evasione dagli arresti domiciliari (Cass. pen., sez. V, 18.4.2008, n. 36930, in Cass. pen., 2009, 2537).
Il giudice investito di una istanza di revoca o di sostituzione di una misura cautelare custodiale alla cui esecuzione sia sopravvenuta una causa estintiva della pena (nella specie costituita dall’indulto concesso con l. 31.7.2006, n. 241) deve procedere alla verifica della proporzionalità ed adeguatezza della misura applicata, tenendo conto della possibilità che la pena prevedibilmente irroganda risulti in toto ovvero per la gran parte estinta, sì da rendere non più proporzionato ed adeguato il mantenimento della misura medesima (Cass. pen., sez. IV , 24.5.2007, n. 36896 , in CED Cass. pen., 2008, n. 237233).
È da escludere che sia possibile applicare contemporaneamente più misure cautelari diverse e compatibili tra loro, al di fuori dei casi espressamente previsti dagli artt. 276, co. 1, (trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura precedentemente imposta) e 307, co. 1 bis, (provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza termini) in quanto trova applicazione il principio di tipicità delle misure cautelari. Sul punto è intervenuta anche una pronuncia delle Sezioni unite, nella quale si afferma che: «non è ammessa l’applicazione simultanea, in un mixtum compositum, di due diverse misure cautelari tipiche, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili» (Cass. pen., S.U., 30.5.2006, n. 29907 , in Dir. giust., 2006, fasc. 9, 36; a conferma di quanto già precedentemente sostenuto da Cass. pen., sez. III, 27.10.2005, n. 43972 in Arch. nuova proc. pen., 2007, 117, laddove si puntualizza che solo nel caso previsto dall’art. 307, co. 1 bis, c.p.p., il giudice nel disporre nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini le misure cautelari ha la facoltà di applicarle anche cumulativamente, fornendo adeguata motivazione dell’esercizio di tale potere discrezionale).
4. Le misure coercitive di tenue gravità
Disciplinando il divieto di espatrio, l’art. 281 c.p.p. impone al soggetto nei cui confronti è disposta la misura di non oltrepassare il territorio nazionale senza l’autorizzazione del giudice. Con l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria l’art. 282 prescrive al soggetto di recarsi presso gli uffici della stessa nei giorni e nelle ore indicati dal giudice; la prescrizione (art. 283 c.p.p.) di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione è preordinata al divieto nei confronti dell’indagato di dimorare in un determinato luogo, inteso come territorio del comune di dimora abituale al fine di assicurare un controllo più efficace nel territorio di una frazione del comune o nel territorio di un comune vicino. Ne deriva che è illegittimo il provvedimento che applichi la misura al fine di vietare all’indagato di accedere in alcuni specifici edifici, trattandosi di finalità cui è preordinato l’art. 290 c.p.p. che disciplina il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali e imprenditoriali (Cass. pen., sez. V, 9.4.2010, n. 19565, in CED Cass. pen., 2010, n. 247498).In ossequio al principio di legalità, le misure cautelari personali possono essere applicate esclusivamente nell’ambito di figure tassativamente definite; pertanto non è ammissibile l’applicazione simultanea, in un mixtum compositum, di due diverse misure tipiche quali l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ex art. 282 c.p.p. ed il divieto o obbligo di dimora ex art. 283 c.p.p. (Cass. pen., sez. III, 4.5.2004, n. 37987, in Arch. nuova proc. pen., 2005, 744).
5. Le misure cautelari disposte a tutela della persona offesa
L’art. 282 bis introduce una nuova misura cautelare coercitiva che impone l’obbligo di allontanamento dalla casa familiare. Il punto di partenza è la normativa compresa nella l. 4.4.2001, n. 154 che intende fornire adeguata tutela alla vittima di comportamenti violenti nella prospettiva di predisporre rimedi adeguati al fenomeno della violenza nell’ambito familiare; in virtù delle rilevazioni condotte dalle varie associazioni sorte a riguardo, risulta infatti statisticamente dimostrato che il fenomeno riveste strutturalmente i caratteri della sommersione e trasversalità. L’uno imputabile alla scarsa propensione delle vittime alla denuncia sia per gli stretti vincoli familiari, sia per la tendenza a considerare gli episodi di violenza comunque questione da risolvere all’interno delle mura domestiche. L’altro, per la diffusività del fenomeno nei vari strati sociali e la mancanza di una relazione con gli strati sociali più disagiati.
La funzione della misura cautelare è di interrompere il ciclo della violenza impedendone la perpetuazione; pertanto, si adotta la misura temporanea quale la cautelare che prescinde da un definitivo accertamento di responsabilità, pur in grado di inibire prontamente la condotta criminosa.
Dalle linee guida della legge emerge la volontà di ricercare una via di ricomposizione dei conflitti intrafamiliari e alla disciplina della temporaneità si affianca l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare. La finalità è duplice: da un lato, si cerca di soddisfare l’esigenza con misure giudiziarie efficaci perché rapide, dirette a garantire l’allontanamento dalla casa familiare dell’autore del comportamento violento e, dall’altro, si cerca di limitare il disagio derivante dalla necessità di abbandonare la casa per sottrarsi agli abusi. Su tutto aleggia il ragionevole intento di non pregiudicare in modo definitivo i rapporti familiari.
Le condotte violente all’interno della cerchia domestica da fenomeno puramente sociologico hanno assunto una connotazione penalmente rilevante. Difatti, anteriormente alla l. n. 154/2001, pur in presenza di situazioni gravi e di accertata pericolosità, al giudice era precluso ordinare l’allontanamento dalla casa familiare dell’autore di comportamenti violenti dannosi nei confronti del coniuge o di altri familiari conviventi, anche se è singolare che non sia stato ampliato il catalogo delle fattispecie penali, tenuto conto che i precedenti legislativi in tema di tutela della famiglia stigmatizzavano determinati fatti di reato.
I presupposti per l’applicazione della misura: la violenza riconducibile agli estremi di una fattispecie criminosa e la manifestazione di volontà del soggetto offeso al quale spetta il giudizio sulla convenienza di dare impulso al processo.
Si tratta di una sorta di querela-garanzia che ha la funzione di tutelare la riservatezza della persona offesa, avendo riguardo ai rapporti personali tra colpevole e soggetto passivo che rientrano nell’ambito dei legami familiari.
Determinati reati di particolare gravità sono perseguibili d’ufficio con le modalità di acquisizione della notitia criminis quali la denuncia da parte di pubblici ufficiali e di privati: nella fattispecie rivestono il ruolo di pubblici ufficiali gli assistenti sociali quali incaricati di un pubblico servizio (artt. 331 e 333 c.p.p.) e il referto, giacché i primi professionisti che vengono in contatto con le vittime del maltrattamento sono gli esercenti una professione sanitaria, i quali hanno un preciso obbligo di denunciare i reati di cui vengono a conoscenza e che siano perseguibili d’ufficio. Determinante nell’emersione delle violenze in ambito familiare è quindi il ruolo svolto dai medici; il medico deve redigere referto tutte le volte in cui la persona assistita riveli lesioni che facciano sospettare un delitto (art. 334 c.p.p.).
L’art. 282 bis c.p.p. ha introdotto due nuove specie di misure cautelari: l’una di carattere coercitivo che riguarda, su richiesta del p.m., l’allontanamento dalla casa familiare e l’impedimento del rientro; l’altra di carattere patrimoniale che comporta la corresponsione di un assegno a favore delle persone conviventi che per effetto dell’allontanamento rimangono prive di sostentamento.
L’ingiunzione costituisce titolo esecutivo. L’obiettivo è di eliminare, attraverso l’allontanamento del soggetto cui si ascrivono condotte lesive del buon ordine familiare, ogni possibile occasione di contatti da cui possono scaturire ulteriori condotte illecite. L’elenco dei luoghi vietati contenuto nella norma può considerarsi solo esemplificativo, in quanto: «il presupposto della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282 bis cod. proc. pen., non è la condizione di attuale coabitazione dei coniugi, ma l’esistenza di una situazione – che non deve necessariamente verificarsi all’interno della casa coniugale – per cui all’interno di una relazione familiare si manifestano condotte in grado di minacciare l’incolumità della persona» (Cass. pen., sez. VI, 15.4.2010, n. 17788, in Cass. pen., 2011, 3114).
La misura cautelare ex art. 282 bis, inquadrandosi tra le più miti, pur potendosi arricchire di contenuti preventivi ed afflittivi che di fatto ne rinforzano la gravità, integra la tipologia delle misure coercitive; inoltre, appare particolarmente modellata sulle esigenze del caso concreto: è possibile autorizzare l’accesso alla casa familiare, prescrivere particolari modalità di visita, determinare la misura del pagamento periodico di un assegno a favore dei conviventi (co. 3), il quale, tuttavia, può essere disposto unicamente in caso di applicazione dell’allontanamento dalla casa familiare. L’autorizzazione del giudice potrebbe riguardare il recupero di effetti personali o modalità di visita per seguire i figli; in tal caso, compete allo stesso giudice regolamentare le modalità di attuazione e le relative limitazioni.
Per integrità va intesa non soltanto la mera integrità fisica, ma anche una più ampia tutela di carattere morale. Nella misura dell’allontanamento dalla casa familiare si ravvisa una particolare tutela delle persone offese dal reato fino a legittimare un intervento di sostegno antecedente all’accertamento della responsabilità penale dell’autore del reato.
Si tratta comunque di una misura cautelare coercitiva per la cui applicazione devono sussistere i presupposti generali di cui agli artt. 273-280 c.p.p. e le esigenze cautelari, ad eccezione di quanto stabilito all’art. 282 bis, co. 6, c.p.p. in merito a particolari delitti commessi in danno di un prossimo congiunto (quelli riguardanti la violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’abuso dei mezzi di correzione, la prostituzione minorile, la pornografia minorile, la detenzione di materiale pornografico, la violenza sessuale, gli atti sessuali con minore, la corruzione di minore, la violenza sessuale di gruppo) la misura viene applicata al di fuori dei presupposti di cui all’art. 280.
Ancora, nell’ipotesi di elusione del provvedimento di natura accessoria, di contenuto patrimoniale eventuale non si applica la disciplina generale degli artt. 276 e 299 (sostituzione della misura con altra più grave), ma si ricorre all’ordinaria disciplina civilistica dell’esecuzione forzata. Tale disposizione assume particolare significato se letta in correlazione con la disciplina dettata per il procedimento penale davanti al giudice di pace per un tentativo di conciliazione tra querelante e querelato, attuabile con l’ausilio dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche e private, e posto che tra i reati di competenza del giudice di pace rientrano anche le percosse e le lesioni (Cass. pen., sez. VI, 12.5.2009, n. 30736, in Dir. pen. e processo, 2009, 1238).
6. Le misure custodiali
In applicazione dei criteri di adeguatezza e proporzionalità di cui all’art. 275 c.p.p., le misure degli arresti domiciliari e della custodia in carcere configurano l’extrema ratio cui ricorrere quando, in concreto, le esigenze cautelari del singolo caso non possano risultare soddisfatte dall’applicazione di qualsiasi altra forma, meno oppressiva, di limitazione della libertà.
L’equiparazione giuridica delle misure in questione comporta, altresì, analoghi effetti quali: il divieto di applicazione quando è prevedibile il beneficio della sospensione condizionale della pena; il computo del periodo trascorso in custodia ai fini della determinazione della pena detentiva definitiva; l’operatività della disciplina di cui all’art. 314 c.p.p. in merito alla riparazione per ingiusta detenzione; la decorrenza dei termini di durata massima. Sul punto è configurabile una «contestazione a catena», con conseguente applicabilità del disposto dell’art. 297, co. 3, c.p.p., quando una prima ordinanza abbia applicato gli arresti domiciliari ed una seconda la custodia cautelare (Cass. pen., sez. VI, 15.4.2009, n. 21544, in CED Cass. pen., 2009, n. 244176). Sulla prevista conversione degli arresti domiciliari in custodia in carcere nell’ipotesi in cui il soggetto abbia disatteso le statuizioni inerenti alla misura, quali il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, il giudice, una volta accertata l’avvenuta trasgressione, è tenuto a disporre la revoca degli arresti domiciliari e a ripristinare automaticamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibilità di rivalutare le esigenze cautelari, versandosi in un’ipotesi di presunzione di inadeguatezza di qualsiasi misura diversa da quella custodiale (Cass. pen., sez. VI, 27.11.2007, n. 12313, in CED Cass. pen., 2008, n. 239327). Si tratta di un provvedimento che il giudice può adottare a seguito di valutazione circa la trasgressione inerente alla misura già imposta e la relativa inconciliabilità con le finalità per le quali gli obblighi stessi furono dettati (art. 276, co. 1 ter, c.p.p.). Non è condivisibile, pertanto, una recente pronuncia che ha ritenuto illegittima la modifica ex officio della misura degli arresti domiciliari in senso maggiormente afflittivo disposta dal giudice in assenza di richiesta del pubblico ministero (Cass. pen., sez. V, 22.12.2010, n. 13271, in CED Cass. pen., 2011, n. 249505).Il giudice, applicando la custodia domiciliare, individua il luogo ove eseguire la misura; normalmente si tratta dell’abitazione, intesa come il luogo in cui il soggetto conduce la propria vita domestica e privata, con esclusione delle aree che non ne costituiscono parte integrante (spazi condominiali, giardini, cortili). È, tuttavia, da escludere che gli arresti domiciliari possano essere eseguiti presso un immobile oggetto di un sequestro preventivo, disposto nei confronti dello stesso destinatario della misura coercitiva o delle persone con lui conviventi (Cass. pen., sez. II, 16.11.2010, n. 42127, in CED Cass. pen., 2010, n. 248920).
L’art. 284, co. 3, c.p.p. dispone che il giudice autorizzi l’indagato ad allontanarsi dalla abitazione. In tema di autorizzazione ad assentarsi per svolgere un’attività lavorativa, la valutazione del giudice in ordine alla situazione di assoluta indigenza dell’imputato sottoposto agli arresti domiciliari deve essere improntata, stante l’eccezionalità della previsione, a criteri di particolare rigore, pur potendo ricomprendersi nei bisogni primari dell’individuo anche le necessità ulteriori rispetto alla fisica sopravvivenza, quali quelle relative alla comunicazione, l’educazione e la salute (Cass. pen., sez. III, 15.7.2010, n. 34235, in CED Cass. pen., 2010, n. 248228).
All’art. 285 c.p.p. la misura più coercitiva viene indicata con la formula «custodia cautelare in carcere» al fine di escludere ogni qualsivoglia anticipazione di pena come potrebbe apparire da «carcerazione preventiva», espressione peraltro presente nell’art. 13, co. 5, Cost. Anche se «custodia cautelare» equivale a privazione della libertà dell’imputato, la disposizione pone in risalto il luogo: un istituto di custodia in cui il soggetto viene immediatamente condotto, per trovarsi a disposizione dell’autorità giudiziaria.
La revoca della custodia cautelare in carcere non può essere disposta sulla base del solo ed assorbente criterio aritmetico della corrispondenza della durata dell’applicazione della misura ai due terzi della condanna inflitta all’imputato con sentenza impugnata, in quanto, in applicazione del principio di proporzionalità, sia il giudice che procede, sia il tribunale della libertà devono, in una valutazione globale e complessiva della vicenda cautelare, esaminare le ragioni e le circostanze dedotte a sostegno della contraria indicazione di persistenza del «periculum libertatis» (Cass. pen., sez. VI, 8.10.2008, n. 38868, in Cass. pen., 2009, 2536).
Ai fini della sostituzione della misura della custodia cautelare carceraria con quella degli arresti domiciliari e comunque con altra meno grave, il mero decorso del tempo non è elemento rilevante, perché la sua valenza si esaurisce nell’ambito della disciplina dei termini di durata massima della custodia stessa, e quindi necessita di essere considerato unitamente ad altri elementi idonei a suffragare la tesi dell’affievolimento delle esigenze cautelari (Cass. pen., sez. II, 8.11.2007, n. 45213, in Cass. pen., 2008, 4759). Ugualmente, la più recente Cassazione ha escluso la sostituzione della custodia cautelare in carcere con altra meno afflittiva, richiesta in seguito alla sopravvenuta confessione e all’offerta reale risarcitoria a favore della persona offesa, sulla motivazione che tali fatti non costituiscono un novum rispetto alle questioni già valutate dal giudice del riesame (Cass. pen., sez. I, 25.1.2012, n. 4791).
Qualora il soggetto sottoposto alla custodia cautelare in carcere necessiti di cure specialistiche incompatibili con il luogo di detenzione, il giudice può disporre la custodia cautelare in luogo di cura (art. 286 c.p.p.). Si tratta di una misura sostitutiva della custodia in carcere che realizza il principio in funzione del quale le modalità di esecuzione delle misure devono assicurare i diritti della persona ad esse sottoposti (art. 277 c.p.p.), nella specie la tutela della salute.
7. Le misure di sicurezza
L’applicazione provvisoria della misura dell’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario trova fondamento nei criteri richiesti per l’applicazione di misura cautelare (art. 274 c.p.p.), laddove la pericolosità si incentra nel «concreto pericolo che la persona commetta gravi delitti specificamente indicati dalla disposizione ovvero delitti della stessa specie di quello per cui si procede» (C. cost., 11.6.1999, n. 228, in Giur. cost., 1999, 2063).
La valutazione di pericolosità sociale, a cui fa seguito l’applicazione di misura di sicurezza, di regola viene effettuata prima dal giudice della cognizione, al fine di verificarne la sussistenza contestualmente alla pronuncia della sentenza, e in seguito dal magistrato di sorveglianza che concretamente applica la misura (artt. 679-680 c.p.p.).
Purtuttavia, nell’ipotesi in cui il soggetto sottoposto a custodia in carcere risulti socialmente pericoloso (nel senso che si ritiene possa commettere nuovi reati, art. 203 c.p.) il giudice che ha emesso l’ordinanza di misura custodiale, previo accertamento sulla pericolosità sociale, può disporre l’applicazione in via provvisoria, ex art. 312 c.p.p., della misura di sicurezza che comporta il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (se l’infermità di mente è totale) o in casa di cura e custodia (se l’infermità è parziale).
In particolare, nella situazione in cui lo stato di mente dell’imputato appaia tale da renderne necessaria la cura nell’ambito del servizio psichiatrico e sia del pari necessario mantenere nei suoi confronti la custodia cautelare, il giudice ordina, ai sensi dell’art. 73, co. 3, c.p.p., che la misura sia eseguita nelle forme di cui all’art. 286 c.p.p., mediante il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i necessari provvedimenti per prevenire il pericolo di fuga; in alternativa, può disporre l’assegnazione dell’imputato ad un istituto o sezione speciale per infermi o minorati psichici (art. 111, co. 5, ord. penit. – d.P.R. 30.6.2000, n. 230), ma in nessun caso l’imputato può essere assegnato ad un ospedale psichiatrico giudiziario, tipica misura di sicurezza (Cass. pen., sez. IV, 10.12.2003, n. 3518, in Arch. nuova proc. pen., 2005, 740). Diversamente, è legittima l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario di persona assolta in primo grado per vizio totale di mente, in quanto il richiamo, operato dall’art. 312 c.p.p. all’art. 273, co. 2, c.p.p. e, quindi, in negativo, all’insussistenza di una causa di non punibilità, deve ritenersi riferibile solo alle cause di non punibilità diverse da quelle che, a norma dell’art. 206 c.p., consentono l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza (Cass. pen., sez. I, 11.10.1999, n. 5535, in Cass. pen., 2001, 879).
In merito all’interrogatorio della persona cui è applicata in via provvisoria una misura di sicurezza, presupponendo che lo stesso sia comunque preordinato alle funzioni di garanzia che svolge con riguardo all’intero sistema delle misure cautelari, si sarebbe portati a ritenere di non dover reiterare l’atto già posto in essere al momento dell’applicazione della misura cautelare, alla quale l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza era poi immediatamente seguita (Cass. pen., Sez. V, 17.11.2003, n. 3076, in Arch. Nuova proc. pen., 2005, 257). Tuttavia, v’è ragione di rinnovare l’atto, in quanto funzionale alla verifica dell’attualità della pericolosità sociale del soggetto.
La Corte costituzionale, di recente, è stata investita di una serie di profili di legittimità costituzionale riguardanti la conformità al precetto costituzionale di cui all’art. 32, oltre a norme di diritto sostanziale (artt. 206, 208, 222 c.p.) anche al disposto dell’art. 313, co. 2, c.p.p., laddove dispone nuovi accertamenti sulla pericolosità sociale dell’imputato. La Consulta, dichiarando la manifesta inammissibilità della questione, ha puntualizzato che in tema di misure di sicurezza viene escluso ogni automatismo nell’applicazione delle misure a carattere detentivo, «anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente, le esigenze di cura e tutela della persona interessata» (C. cost., 6.11.2009, n. 287).
Fonti normative
Artt. 2, 13-16, 21, 27 e 111 Cost.; artt. 280-286 bis, 312 e 313 c.p.p.; art. 1 l. 4.4.2001, n. 154; art. 111, co. 5, ord. penit.
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