Misure cautelari. Giudicato cautelare
In materia cautelare, nell’anno di riferimento, ha assunto centralità teorica il tema del cd. giudicato cautelare, argomento che, benché privo di univoche tracce normative, si segnala per i notevoli effetti pratici sulla libertà personale dell’indagato. Sono emerse, soprattutto, rilevanti questioni in ordine al tema delle contestazioni a catena e delle iniziative del p.m. tra coltivazione delle impugnazioni ed avvio di nuove procedure cautelari, oggetto di pronunce tanto della Corte costituzionale, quanto del vertice della legittimità.
Il tema del giudicato cautelare, del quale manca peraltro una definizione normativa, sta assumendo in tema de libertate implicazioni sempre più significative. Già evidenziatosi nella dinamica delle impugnazioni, soprattutto dell’imputato, tra domanda di riesame, domanda di revoca ed impugnazione ex art. 310 c.p.p., ha prospettato di recente rilevanti questioni in ordine al tema delle contestazioni a catena e delle iniziative del p.m. tra coltivazione delle impugnazioni ed avvio di nuove procedure cautelari. In particolare, con riferimento al primo profilo, la Corte costituzionale1 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, co. 3, c.p.p., nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura. Con riferimento al secondo aspetto considerato, le Sezioni Unite (16.12.2010, n. 7931, Testini, CED Cass. 249001) hanno affermato che in tema di misure cautelari, qualora il p.m., nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori «nuovi» può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare.
La declaratoria di parziale incostituzionalità che ha nuovamente colpito la disciplina di cui all’art. 297, co. 3, c.p.p.2 affonda le sue radici nell’ambito di un contrasto interpretativo sviluppatosi all’interno della giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti tra retrodatazione dei termini di decorrenza delle misure cautelari e l’istituto del giudicato. Nella prassi giudiziaria si era, infatti, posto in maniera sempre più pressante, l’interrogativo circa la configurabilità o meno del vietato fenomeno delle contestazioni a catena allorquando la seconda ordinanza custodiale fosse stata emessa nei confronti del medesimo soggetto soltanto dopo che il procedimento avente ad oggetto i fatti di cui all’ordinanza primigenia si fosse concluso con sentenza irrevocabile di condanna. Nonostante l’importanza primaria dei beni sottesi alla tematica in esame, la risposta della Corte di cassazione al quesito de quo era stata tutt’altro che univoca: mentre, infatti, secondo un primo filone interpretativo3, il funzionamento del regime di favore previsto dall’art. 297, co. 3, c.p.p. risultava del tutto insensibile all’eventuale consolidarsi della prima regiudicanda in un giudicato negativo, ex adverso, altro e prevalente orientamento4, riconosceva a tale accadimento efficacia ostativa all’operatività della retrodatazione. Chiamate a comporre il contrasto, le Sezioni Unite hanno avallato le posizioni assunte in materia dall’orientamento maggioritario5. Ciononostante, la tesi restrittiva ha continuato a non convincere sia la dottrina6 sia una parte della giurisprudenza di legittimità tanto che, proprio ad opera dei giudici della Prima Sezione, la questione è stata rimessa alla Corte costituzionale, occasionando così la declaratoria di incostituzionalità n. 233/2011. La pronuncia in questione non si limita, peraltro, a dichiarare la non conformità al dettato costituzionale della disciplina delle contestazioni a catena; modellando il proprio intervento sullo schema delle sentenze «additive», la Corte è, infatti, intervenuta direttamente sul contenuto della disposizione, estendendone lo spettro d’azione fino a farvi confluire anche l’ipotesi, prima non contemplata, in cui «per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura». Optando per l’incostituzionalità dell’art. 297, co. 3, c.p.p., la Corte dimostra di condividere l’assunto delle Sezioni Unite secondo cui la «coesistenza» o «con testualità» tra le misure costituisca, alla luce dei dati normativi vigenti, un elemento condizionante l’operatività della retrodatazione; coerente con tale assetto la conclusione per cui il giudicato formatosi in epoca antecedente all’emissione della seconda ordinanza paralizza il funzionamento della disciplina, essendo indubbio che, con la conclusione del processo di merito e l’inizio della fase esecutiva, la vicenda cautelare si estingue. La Corte sottolinea, però, come al contempo un assetto siffatto apra la strada ad irragionevoli disparità di trattamento: l’imputato, infatti, può avvalersi del rimedio della retrodatazione in quei casi in cui l’indebito prolungamento dello stato custodiale risulta attenuato dalla parziale confluenza dei titoli custodiali, mentre è sprovvisto di ogni tutela proprio quando l’abuso dello strumento cautelare è massimo perché le due misure non si trovano mai a concorrere. Sotto altro profilo, la disciplina risulta confliggente con il parametro di cui all’art. 13, co. 5, Cost.: il p.m., infatti, servendosi dell’espediente di provocare l’emissione delle ordinanze successive alla prima soltanto dopo il consolidarsi del giudicato, è abilitato ad eludere il regime dei termini cautelari, sostituendosi così al legislatore nella individuazione della durata dello status custodiae. Sulla scia di analoghi rilievi critici già sviluppati in dottrina7, la Corte costituzionale sottolinea come le ragioni addotte dalla Suprema Corte per giustificare l’inoperatività della retrodatazione nel caso tra le due ordinanze vi sia stata una interruzione di efficacia, siano del tutto infondate. L’affermazione secondo cui, in assenza di continuità tra le misure, non si verificherebbe alcun indebito prolungamento dello stato detentivo è, infatti, ritenuta priva di pregio perché viziata da una errata interpretazione della ratio sottesa alla retrodatazione: scopo dell’art. 297, co. 3, c.p.p. non è, infatti, quello di impedire che attraverso l’emissione di diverse ordinanze si verifichi un surrettizio prolungamento dei termini della prima misura – essendo gli stessi predeterminati per legge ex art. 303 c.p.p. – ma, al contrario, quello di impedire che, attraverso il suddetto espediente, si verifichino indebite dilatazioni della durata «complessiva» della custodia cautelare per effetto del cumulo integrale dei termini cautelari afferenti a ciascuna misura; termini che, invece, qualora, il p.m. si fosse attivato tempestivamente, avrebbero potuto confluire in un unico periodo custodiale riducendo di molto l’intera durata dello stato detentivo. Né validi argomenti a sostegno della tesi restrittiva si ricaverebbero, nel caso di sopravvenienza di un giudicato, dall’operare delle regole del ne bis in idem e dello scomputo del presofferto. Quanto al primo profilo, il Giudice delle leggi sottolinea come erroneamente, in ambito giurisprudenziale, si sia ritenuto che il giudicato soddisfi in toto le esigenze di tutela sottese alla disciplina in esame. L’efficacia preclusiva scaturente dal divieto di bis in idem, se è vero che paralizza il nuovo esercizio dell’azione, in uno penale e cautelare, in relazione al medesimo fatto, resta del tutto inerte a fronte di casi come quello esaminato, ove le misure successive alla prima riguardano fatti diversi. Né alcun limite di ordine logico-sistematico alla retrodatazione discenderebbe, poi, dalla detrazione della custodia cautelare dalla pena concretamente inflitta ex art. 657, co. 1, c.p.p. Privo di pregio sarebbe, infatti, il rilievo secondo cui, con il mutare del titolo legittimante lo stato restrittivo a seguito del sostituirsi della pronuncia definitiva di merito all’ordinanza di custodia cautelare, il meccanismo di cui all’art. 297, co. 3, c.p.p. non potrebbe trovare applicazione atteso che quello di imputare alla durata di una misura cautelare periodi detentivi già scontati in esecuzione di pena non costituisce un fenomeno vietato dall’ordinamento ma, al contrario, la diretta attuazione di un principio cardine della disciplina cautelare quale quello della compatibilità tra custodia in carcere e detenzione quoad poenam sancito dall’art. 297, co. 5, c.p.p.
2.1 Il principio di preclusione
Ponendosi lungo il solco tracciato dalle precedenti pronunce in materia, le Sezioni Unite8 hanno affrontato e risolto la questione concernente la sussistenza ed i limiti del potere del pubblico ministero, nelle more di un giudizio di impugnazione già instaurato in relazione ad una precedente misura, di chiedere l’emissione di una nuova misura cautelare nei confronti dello stesso soggetto e per il medesimo fatto, sulla base di nuovi elementi. Nel percorso motivazionale prospettato dal Supremo Collegio, in primo piano si pone l’esame dei due noti precedenti che la Sezione rimettente ha valorizzato per evidenziare l’esistenza di un contrasto. Il riferimento attiene alle sentenze Donelli e Donati. Con la prima pronuncia, le Sezioni unite hanno stabilito che il pubblico ministero, in pendenza di appello contro il rigetto dell’istanza cautelare, è legittimato a proporre in tale sede nuovi elementi di prova, potendo altresì valutare se scegliere tale strada o utilizzare i predetti elementi a sostegno di una nuova richiesta cautelare, tuttavia precisando che, in tale ultimo caso, la decisione del giudice sarebbe stata preclusa fino alla decisione sull’appello9. Con la seconda sentenza, si è escluso che il medesimo ufficio del pubblico ministero possa esercitare l’azione penale nei confronti della persona in relazione alla quale sia già pendente un processo per lo stesso fatto nella medesima sede giudiziaria10. Offrendo quella che è stata autorevolmente definita alla stregua di «interpretazione autentica»11, le Sezioni Unite chiariscono e delimitano la portata applicativa dei propri precedenti arresti. Così, se da un lato le argomentazioni della sentenza Donati circa l’immanenza nell’ordinamento processualpenalistico di un generale principio di preclusione risultano pienamente condivise, dall’altro, il Supremo Collegio non manca di sottolineare come il principio in parola debba adeguarsi, nell’esplicazione dei propri effetti, alle caratteristiche specifiche del contesto in cui opera. Questa premessa consente di affermare che nel procedimento cautelare il principio della preclusione non può misurarsi, come nel procedimento principale, solo sulla mera identità del soggetto e del fatto. A venire in rilievo, infatti, è un ambito che impone l’adeguamento delle relative valutazioni al mutare delle situazioni di riferimento e, dunque, un contesto caratterizzato dalla «natura contingente dei provvedimenti»; il canone oggetto di analisi, pertanto, non può non ricomprendere anche l’identità della base probatoria12, e dunque degli elementi posti e valutati a sostegno o a confutazione del fatto e della sua rilevanza cautelare. In tema di giudicando cautelare, quindi, le Sezioni Unite evocano l’operatività della stessa conclusione prospettata in ordine alla determinazione dei limiti del giudicato cautelare; del resto – sottolinea il Supremo Collegio – sarebbe contrario alle esigenze di tempestività e di pronta tutela della collettività tipiche del settore cautelare «negare, a causa di una pendenza in atto, l’immediato utilizzo dei nova utili a sostenere una determinata posizione, rinviandolo ex lege alla cessazione di quella pendenza». In conclusione, il Supremo Collegio afferma che nelle more della decisione su una impugnazione de libertate, quando il pubblico ministero intenda utilizzare elementi probatori nuovi nei confronti della stessa persona e in relazione al medesimo fatto, può scegliere se produrli nel procedimento di impugnazione o porli a base di una nuova istanza cautelare. Tuttavia, e tracciando un ponte ideale con la sentenza Donelli, le Sezioni Unite riaffermano l’operatività del principio electa una via non datur recursus ad alteram; in altri termini, la strada intrapresa dal requirente gli preclude la possibilità di coltivare l’iniziativa cautelare alternativa13.
Le due pronunce, se pur su piani diversi, mettono al centro della riflessione il tema del giudicato cautelare. Sotto un primo aspetto, esso si sostanzia nell’impossibilità per il pubblico ministero di attivare due procedure cautelari contestuali per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona. Si tratterebbe di un elemento preclusivo, governato dall’economia processuale e teso ad evitare, altresì, decisioni contrastanti. Naturalmente le implicazioni dell’assunto sembrano andare al di là della posizione dell’accusa, potendo coinvolgere anche le concorrenti iniziative della difesa nel sovrapporsi delle richieste di controllo sulla legittimità e sul merito del provvedimento.
1 C. cost., 22.6.2011, n. 233, inedita.
2 Con la sentenza C. cost., 3.11.2005, n. 408, in Giur. cost., 2005, 4473, con nota di Montagna, Punti fermi in tema di contestazioni a catena e termini di durata della custodia cautelare, la Corte aveva dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 297, co. 3, c.p.p. «nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza».
3 Cass., sez. VI, 24.9.2008, n. 38852, Amato, CED Cass. 241406; Cass., sez. VI, 2.4.2007, n. 18305, Parrino, CED Cass. 236505.
4 Cass., sez. V, 20.2.2008, n. 25154, Virga, CED Cass. 240484; Cass., sez. I, 15.11.2007, n. 44944, Contaldo, CED Cass. 238881; Cass., sez. IV, 3.10.2007, n. 3013, Del Bianco Marcos, CED Cass. 238740.
5 Cass., S.U., 23.4.2009, Iaccarino, in Cass. pen., 2010, 487, con nota critica di Ludovici, L’impatto del giudicato sul computo dei termini cautelari: si restringe ancora il campo applicativo dell’art. 297 comma 3 c.pp., e in Guida dir., 2009, n. 31, 80, con nota critica di Romeo, Sulla retrodatazione dei termini di custodia la soluzione continua a non convincere.
6 Ludovici, L’impatto del giudicato sul computo dei termini cautelari, cit., 493; Romeo, Sulla retrodatazione dei termini di custodia la soluzione continua a non convincere, cit., 84. Per un primo approccio al tema, v. Giuliani, Il giudicato come limite implicito all’operatività della regola ex art. 297 comma 3 c.p.p. (un limite discutibile di una regola irragionevole), in Cass. pen., 2007, 1670; Aprile, Contestazione a catena e irrevocabilità della sentenza nel procedimento della prima ordinanza cautelare, ivi, 2008, 3729.
7 Ludovici, L’impatto del giudicato sul computo dei termini cautelari, cit., 493 ss.
8 Cass., S.U., 16.12.2010, n. 7931, Testini, CED Cass. 249001. Sulla pronuncia v., Gaeta, Le esigenze di una tutela tempestiva della collettività giustificano il potere attribuito alla pubblica accusa, in Guida dir., 2011, n. 15, 46; Conti, Harmonized precedents: le Sezioni Unite tornano sul principio di preclusione, in Dir. pen. e processo, 2011, 697.
9 Cass., S.U., 31.3.2004, n. 18339, Donelli, in Dir. pen. e processo, 2005, 59, con nota di Zignani, Poteri cognitivi, istruttori e decisori del tribunale della libertà investito dell’appello.
10 Cass., S.U., 28.6.2005, n. 34655, Donati, in Corr. mer, 2006, 239, con nota di G. Leo, Ne bis in idem e principio di preclusione nel processo penale; sulla pronuncia v., inoltre, Amato, Estensione del «ne bis in idem» sulla base di principi generali, in Guida dir., 2005, n. 40, 76.
11 Così, Gaeta, Le esigenze di una tutela tempestiva della collettività giustificano il potere attribuito alla pubblica accusa, cit., 62.
12 Cfr. Conti, Harmonized precedents: le Sezioni Unite tornano sul principio di preclusione, cit., 700.
13 Per una prospettiva conforme ai principi espressi dalle Sezioni Unite v., Cass. pen., sez. I, 13.12.2005, n. 47212, p.m. in proc. Romito, CED Cass. 233272; Cass. pen., sez. III, 11.10.2005, n. 40838, Ighodaro, CED Cass. 232476..