Misure di prevenzione e principio di determinatezza
Nonostante l’indeterminatezza congenita, la disciplina delle misure di prevenzione è stata per lungo tempo tollerata nel nostro ordinamento muovendo dall’assunto utilitaristico della sua imprescindibilità. La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo De Tommaso del 2017 ha, però, finalmente indotto la Cassazione a mettere in discussione la sua asserita compatibilità con il principio di determinatezza, sia sul versante dei presupposti applicativi che su quello dei contenuti. Tuttavia, l’interpretazione tassativizzante prospettata dalla giurisprudenza non ha convinto del tutto, lasciando molti dubbi sulla sua plausibilità tanto in relazione alle ipotesi di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011, quanto a talune prescrizioni relative alle misure di prevenzione personali la cui violazione è penalmente rilevante ex art. 75 d.lgs. n. 159/2011.
Per lungo tempo le misure di prevenzione hanno costituito una “zona grigia” del nostro ordinamento di dubbia compatibilità costituzionale in ragione della loro natura ancipite di sanzioni formalmente collocate al di fuori del diritto penale, ma, al contempo, in più punti, sostanzialmente ad esso affini. Dopo una forzata ricerca di fondamenti costituzionali capaci di legittimare la loro esistenza che ha portato a trovare una copertura implicita negli artt. 2, 13, 16, 25, co. 3, e 41 Cost.1, la recente introduzione di nuove fattispecie di pericolosità qualificata nell’art. 4 d.lgs. 6.9.2011, n. 159 ha rinfocolato gli interrogativi circa la legittimità costituzionale, segnando un loro silenzioso transito dalla antica dimensione di misure di polizia preventive praeter delictum legate alla generica pericolosità sociale futura del singolo, a quella di cripto-pene inflitte sulla base del sospetto di reati qualificati pregressi2.
Il varo del cd. codice antimafia nel 2011 e le sue ancor più recenti modifiche operate con la l. 17.10.2017, n. 161, oltre a ridisegnare la disciplina della prevenzione ante delictum enfatizzando le istanze di difesa sociale rispetto a quelle del favor libertatis e marginalizzando le fattispecie di pericolosità generica a tutto vantaggio di quelle di pericolosità
qualificata, ne ha lasciato immutati i genericissimi presupposti applicativi, nonché l’altrettanto vago contenuto di alcune prescrizioni la cui violazione è penalmente sanzionata.
Nonostante tali riforme, invero, gli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011 ammettono ancora, sulla carta, la possibilità di disporre misure restrittive della libertà di circolazione o del diritto di proprietà in presenza di requisiti del tutto indefiniti, quali l’essere abitualmente dediti a traffici delittuosi et similia; così come il delitto di Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale di cui agli artt. 8 e 75 d.lgs. n. 159/2011 è ancora formalmente configurabile anche nel caso di infrazione delle vacue prescrizioni del vivere onestamente, rispettare le leggi e non partecipare a pubbliche riunioni.
Dopo anni di aspre critiche inascoltate, la stura ad un atteso riallineamento al principio di determinatezza tanto dei presupposti applicativi, quanto dei contenuti delle misure di prevenzione è stata data – come sempre più spesso accade – dal formante esogeno indiretto della giurisprudenza convenzionale. Con la nota sentenza De Tommaso 20173, la Corte di Strasburgo – pur continuando a considerare tali misure estranee alla “materia penale” in quanto non incidenti sulla libertà di movimento di cui all’art. 5 CEDU – ha condannato l’Italia perché, a causa della approssimazione definitoria, la menzionata disciplina del codice antimafia non garantiva l’accessibilità delle misure e la prevedibilità dei loro effetti. In particolare, a finire nel bersaglio della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo per l’eccessiva imprecisione sono state, da un lato, le ipotesi di pericolosità generica di cui all’art. 1, lett. a) e b), d.lgs. n. 159/2011 che consentivano l’adozione di una misura di prevenzione nei casi evanescenti di soggetto dedito abitualmente a traffici delittuosi e di persona che viva abitualmente con i proventi di attività delittuose; dall’altro, le prescrizioni del vivere onestamente e del rispettare le leggi la cui violazione integrava in maniera esasperatamente elastica il delitto di cui agli artt. 8 e 75 d.lgs. n. 159/2011.
Nell’ottica europea, ambedue le previsioni normative (a prescindere dalla loro natura penale) sono state considerate incompatibili con gli standard di qualità della legge richiesti per giustificare qualsiasi limitazione di un diritto convenzionalmente riconosciuto, non assicurando al proposto la sufficiente e concreta prevedibilità delle conseguenze della sua condotta tramite una descrizione dettagliata dei rispettivi requisiti. Una così forte presa di posizione dei giudici di Strasburgo ha innescato un vorticoso processo di adeguamento della disciplina in materia di prevenzione personale e patrimoniale al diritto convenzionale che ha, però, fatto emergere nette divergenze sul metodo da seguire.
Il primo effetto diretto delle censure di indeterminatezza provenienti dall’Europa si è riverberato sul terreno “non penale” dei presupposti applicativi delle misure di prevenzione.
Sull’onda della sentenza De Tommaso, infatti, è stata immediatamente sollevata questione di legittimità costituzionale della disciplina delle misure di prevenzione personali e patrimoniali fondate sulle fattispecie di pericolosità generica di cui all’art. 1, lett. a) e b) del d.lgs. n. 159/2011 (sebbene nell’ordinanza ci si riferisca alle identiche versioni pregresse di cui all’art. 1, nn. 1 e 2, l. 27.12.1956, n. 1423), per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione, rispettivamente, alla libertà di circolazione di cui all’art. 2 Prot. 4 CEDU, per ciò che concerne le misure di prevenzione personali, ed al diritto di proprietà di cui all’art. 1 Prot. CEDU, per ciò che concerne la misura di prevenzione patrimoniale della confisca4.
Le fattispecie di pericolosità generica superstiti, infatti, continuavano a risultare in più punti palesemente indeterminate nonostante gli oramai risalenti interventi di ripulitura effettuati dalla Corte costituzionale e dal legislatore con cui erano state soppresse le ipotesi più macroscopicamente imprecise degli “oziosi e vagabondi abituali”, dei “proclivi a delinquere” e degli indiziati di “altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume”, contemplate nell’originaria disciplina; l’unica alternativa percorribile sembrava la declaratoria di illegittimità costituzionale5. Tuttavia, immediatamente dopo l’ordinanza di rimessione alla Consulta, il diritto vivente ha provato a risolvere da sé il problema, seguendo la strada già tracciata dalla Cassazione in una sentenza di poco precedente in cui era stata riconosciuta la necessità di applicare «il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione»6 alle misure di prevenzione, in quanto provvedimenti con portata afflittiva (in chiave preventiva) anche se non di natura sanzionatoria in senso stretto. La giurisprudenza, temendo il crollo dell’intero sistema di prevenzione incentrato sulle ipotesi di pericolosità generica, ha imboccato la strada della “interpretazione tassativizzante”7 degli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011, provando a fornire una “precisazione semantica” delle locuzioni più generiche in essi contenute8, nonché del delitto di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159/2011, espungendone le sottofattispecie più indeterminate.
In primo luogo, la Cassazione ha cercato di concretizzare l’astrattezza dei presupposti delle fattispecie
di pericolosità generica escludendo “la cattiva qualità della legge”9 denunciata dalla C. eur. dir. uomo tramite una sua curvatura ermeneutica, nella speranza recondita di condizionare l’imminente decisione della Corte costituzionale.
In particolare, in questo sforzo di tipizzazione interpretativa della pericolosità sociale, ha puntualizzato che, nella categoria dei soggetti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» individuata dall’art. 1, lett. a), per “delittuosi” si intendano i soli fatti costituenti delitto in senso stretto e non qualunque comportamento illecito come, ad esempio, un illecito amministrativo o una contravvenzione10.
La stessa S.C. ha poi reinterpretato la locuzione “abitualmente dediti”, così come il lemma “abitualmente” di cui alla successiva lett. b) del medesimo articolo, riferendolo ai soli casi in cui ci sia stato un accertamento in sede penale della ripetuta dedizione – in un significativo lasso temporale della vita del proposto – a determinate condotte delittuose11, di fatto richiedendo per l’applicazione di una misura di prevenzione oltre ad un giudizio prognostico sulla pericolosità individuale del proposto di carattere predittivo, anche, e prima ancora, un giudizio cognitivo sui fatti da questi commessi12.
Ancora, la Corte ha letto il termine “provento” impiegato sempre nella lett. b) come sinonimo di reddito illecito effettivamente prodotto, escludendo la possibilità di presumere la sussistenza di un provento in ogni reato a connotazione economica, come una corruzione o una frode fiscale13.
Infine, ha richiesto l’effettiva destinazione, almeno parziale, del suddetto provento al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento del proposto e del suo eventuale nucleo familiare14.
Come si è accennato, però, la decisione di Strasburgo ha condizionato anche l’interpretazione delle ipotesi di pericolosità qualificata di cui all’art. 4, lett. a), b) e d), d.lgs. n. 159/2011, inducendo la Cassazione ad operare una autentica risemantizzazione della locuzione più scivolosa, quella di “indiziato”, che compare al loro interno. Nel diritto vivente, infatti, è stato considerato tale solo il soggetto che in precedenza abbia commesso dei delitti accertati con una sentenza di condanna sostanziale, cioè anche non definitiva15; escludendo così l’applicabilità di una misura di prevenzione nei confronti di un soggetto prosciolto con una sentenza di assoluzione, ed ammettendola nei confronti di un proposto nei cui confronti sia stata accertata la responsabilità penale ma sia poi intervenuta la prescrizione, l’amnistia, l’indulto ecc., come, peraltro, già affermato dalla giurisprudenza anche in ordine ad altre misure sanzionatorie quali la confisca urbanistica. Sempre sul fronte delle ipotesi di pericolosità qualificata, la giurisprudenza ha provato a fornire un’interpretazione tassativizzante del concetto di appartenenza mafiosa che designa il novero dei destinatari di cui all’art. 4, lett. a)16. Anche in tale circostanza la Suprema Corte ha rifiutato letture esasperatamente estensive di questa fattispecie di pericolosità, escludendo con una recentissima decisione delle S.U. che si possa ricomprendere al suo interno qualsiasi manifestazione di adesione ad un sodalizio mafioso e riferendo, altresì, il concetto di appartenenza alle sole ipotesi di partecipazione stricto sensu e di concorso esterno17, lasciando fuori ogni altra forma di contiguità. Infine, nella stessa decisione delle S.U. è stato chiarito che non può essere ritenuta sussistente in tal caso la pericolosità del proposto sulla scorta del solo previo accertamento dell’indizio di appartenenza mafiosa, dovendosi sempre verificare in concreto anche l’effettiva attualità della pericolosità sociale al momento della decisione.
Come si è anticipato, la sentenza De Tommaso ha indotto la penetrazione del principio di determinatezza anche rispetto alle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione personali, incidendo sulle porzioni della fattispecie incriminatrice di cui agli artt. 8 e 75, d.lgs. n. 159/2011 considerate inaccessibili e imprevedibili, vale a dire le prescrizioni del vivere onestamente, rispettare le leggi e non partecipare a pubbliche riunioni. In tale circostanza, la dinamica seguita è stata però inversa alla precedente, in quanto lo strumento utilizzato in prima battuta è stato quello dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme della fattispecie in esame. Facendo tesoro delle critiche di inaccessibilità formulate dalla C. eur. dir. uomo, le Sezioni Unite con la nota sentenza Paternò del 2017 hanno ritenuto che il delitto di Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale non potesse avere ad oggetto le prescrizioni “generaliste” del vivere onestamente e del rispettare le leggi18, ma unicamente quelle specifiche tassativamente elencate nell’art. 8 d.lgs. n. 159/2011 «e immediatamente riconoscibili come fattore di orientamento della condotta»19. La violazione delle prime può solo rilevare in sede di esecuzione del provvedimento ai fini dell’eventuale aggravamento della misura. A pochi giorni di distanza, però, tale approccio è stato confutato da un’altra Sezione della S.C. che ha ritenuto l’intervento della Consulta l’unica alternativa percorribile per superare l’evidente imprecisione della fattispecie in questione, sollevando questione di legittimità costituzionale per contrasto tra l’art. 75 d.lgs. n. 159/2011 e gli artt. 25 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU e all’art. 2 Prot. 4 CEDU, interpretati alla luce della ratio decidendi espressa dalla sentenza De Tommaso20.
Ad avviso di questo orientamento contrapposto, dietro quella che sembra una normale interpretazione convenzionalmente conforme, si cela un’insolita “abrogazione giurisprudenziale parziale” di un segmento della norma incriminatrice, che a sua volta maschera una disapplicazione occulta non consentita del diritto interno per contrasto con il diritto convenzionale: l’unico modo per espungere dalla fattispecie incriminatrice le menzionate prescrizioni “generaliste” ancora formalmente contenute nella sua trama letterale è una sentenza del giudice delle leggi, o un interevento legislativo.
Nonostante tale contrasto, la soluzione dell’abrogazione giurisprudenziale è stata nuovamente prospettata dalla Cassazione in tempi più recenti rispetto ad un altro caso di indeterminatezza del delitto di violazione delle misure di prevenzione, quello della prescrizione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni contemplata dagli artt. 8 e 75, co. 2, d.lgs. n. 159/201121. Per la S.C., infatti, anche in questa circostanza il precetto penale si presenta in termini del tutto incerti ed imprecisi e va, dunque, interpretato restrittivamente non tenendo conto ai fini della sua configurazione di questa prescrizione. Anche in tal caso la disposizione è a tal punto vaga da demandare «di fatto alla discrezionalità del giudice il compito di colmare il vuoto di determinatezza della norma e in particolare di un elemento costitutivo del reato quale è la “pubblica riunione”, da definire, volta per volta, attraverso la coniugazione del dato fattuale con la ratio fondante la fattispecie criminosa», senza alcuna previa specificazione in merito all’ambito temporale o spaziale del relativo divieto. La sua inosservanza da parte del soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, quindi, non integra più il delitto ex art. 75 d.lgs. n. 159/2011, nonostante figuri ancora formalmente tra le sue modalità realizzative.
Alla luce di quanto detto sinora, può dirsi definitivamente riallineata al principio di determinatezza la disciplina in materia di misure di prevenzione? L’interpretazione tassitivizzante prospettata dalla giurisprudenza sotto i molteplici versanti sinora ricostruiti è risolutiva delle incertezze sollevate dalla vaghezza della littera legis?
La risposta sembra essere negativa, non convincendo del tutto la via prescelta dalla giurisprudenza prevalente di risolvere i problemi di indeterminatezza della disciplina della prevenzione praeter delictum in via ermeneutica con il contributo tassativizzante del giudice comune. In particolare, per quanto concerne le ipotesi di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011, una simile opzione non sembra pienamente rispettosa delle esigenze di precisione legislativa e, quindi, di prevedibilità individuale delle decisioni giudiziarie.
La sentenza De Tommaso, in realtà, sembrerebbe aver fatto luce su un aspetto non rimarginabile in sede interpretativa tramite lo strumento ermeneutico dell’interpretazione tassativizzante: i concetti e le locuzioni impiegate per descrivere le ipotesi di pericolosità sono talmente generici da rendere impossibile per il giudice comune l’attribuzione di alcun significato plausibile22. Secondo il criterio enucleato anche dalla Corte costituzionale della cd. non interpretabilità della disposizione23, l’interpretazione tassativizzante conforme a Costituzione è possibile unicamente in presenza di plurime opzioni interpretative, ma non nel caso di vuoto contenutistico come quello che caratterizza i punti critici delle fattispecie di pericolosità.
Nonostante gli sforzi della giurisprudenza più recente, l’unica alternativa in simili circostanze resterebbe quella percorsa in prima battuta della questione di legittimità costituzionale ed attualmente in attesa di risposta.
La speranza di una parte della dottrina è quella di una coraggiosa pronuncia di accoglimento dei giudici costituzionali con cui, dichiarando illegittime le fattispecie di pericolosità generica, si inizi a squarciare il velo ipocrita che avvolge la materia della prevenzione e si avvii un suo complessivo ripensamento24.
Il rischio però è che il diritto vivente che, come si è visto, nel frattempo si è prontamente formato sul punto, induca la Corte a dichiarare inammissibile la questione, ritenendo esistenti oggi altre opzioni ermeneutiche tassativizzanti compatibili con la Costituzione.
La soluzione più probabile pare essere quella salomonica di una decisione-monito con cui, pur non prendendo posizione esplicita sulla questione, si invita il legislatore a risolvere per il futuro il problema in maniera radicale con un intervento normativo esplicito.
I dubbi avverso la risposta giurisprudenziale ai deficit di determinatezza delle fattispecie di pericolosità hanno toccato anche l’interpretazione prima ricostruita del concetto di appartenenza mafiosa di cui all’art. 4 d.lgs. n. 159/2011.
Si è infatti eccepito che al suo interno non possa rifluire anche il concorso esterno, ma unicamente le condotte di partecipazione mafiosa, stante la oramai conclamata differenza tra le due figure delittuose in parola25. Com’è noto, la giurisprudenza nazionale, costituzionale ed europea considera il concorso esterno una fattispecie autonoma di creazione giurisprudenziale ben distinta dalla partecipazione associativa a cui, quindi, non è possibile estendere integralmente le regole per essa previste, come confermano la sentenza C. eur. dir. uomo Contrada c. Italia del 2015 e la sentenza C. cost., 26.3.2015, n. 49 sulle presunzioni di cui all’art. 275 c.p.p. in materia di misure cautelari.
L’applicabilità di una misura di prevenzione nei confronti del concorrente esterno potrebbe essere, al più, ricavata, in via residuale, da una delle ipotesi di pericolosità generica di cui all’art. 1 d.lgs. n. 159/2011 laddove ne ricorrano i presupposti.
Infine, le medesime riserve riguardano anche l’interpretazione abrogatrice del delitto parzialmente indeterminato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159/2011.
Anche in questo caso, l’assoluta imprecisione delle locuzioni contestate sembra precludere lo spazio per l’esegesi convenzionalmente conforme di tipo riduttivo praticata dalla giurisprudenza e coincidente con una disapplicazione occulta, lasciando, al contrario, intravedere come unica alternativa percorribile quella della questione di legittimità costituzionale tramite l’art. 117 Cost. indicata nell’ordinanza isolata della S.C. prima richiamata. Il potere di disapplicazione delle norme penali interne, infatti, è riconosciuto ex art. 11 Cost. al giudice comune solo nei casi di contrasto con il diritto UE e non anche in quelli di contrasto con la CEDU: neanche le S.U. potrebbero considerare tamquam non esset il riferimento del delitto di cui all’art. 75 alle prescrizioni indeterminate di cui all’art. 8, sostanziandosi una simile operazione ermeneutica in una inammissibile disapplicazione mascherata. A sostegno della soluzione “costituzionale” del problema milita anche un altro argomento: la risposta interpretativa fornita dalla giurisprudenza, per quanto autorevole, non presenta un adeguato livello di garanzia per i consociati. Pur provenendo dal massimo organo nomofilattico nella più autorevole delle sue composizioni, le S.U. Paternò, e pur tenendo conto della nuova regola fissata dalla riforma Orlando nell’art. 618, co. 1 bis, c.p.p. per discostarsi da una analoga decisione, essa è sempre passibile di essere confutata, non avendo il medesimo grado di efficacia erga omnes, stabilità e vincolatività di una declaratoria di illegittimità costituzionale. La speranza, anche in tale circostanza, è che la Consulta accolga la questione, da un lato, riappropriandosi del potere “usurpatole” dal giudice comune di risoluzione delle antinomie insanabili interpretativamente tra diritto penale interno e diritto convenzionale e, dall’altro, risolvendo in maniera realmente definitiva e garantista la questione dell’indeterminatezza parziale della fattispecie di cui all’art. 75. Solo così, del resto, sarebbe possibile travolgere il giudicato formatosi in casi analoghi ed orientare i consociati con sicurezza per il futuro, mettendoli al riparo da futuri revirements a cui, invece, un’abrogazione giurisprudenziale sempre li esporrebbe.
1 Maiello, V., La prevenzione ante delictum: lineamenti generali, in Maiello, V., a cura di, La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione e armi, Torino, 2015, 309 ss.
2 Su tale cambio funzionale v. i contributi contenuti in Delle pene senza delitto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 399 ss. e Palazzo, F., Per un ripensamento radicale della prevenzione ante delictum, in www.discrimen.it, 16.9.2018, 5.
3 C. eur. dir. uomo, 23.2.2017, De Tommaso c. Italia, in Dir. pen. cont., 3.3.2017, con nota di F. Viganò, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 3.
4 App. Napoli, 14.3.2017, in Dir. pen. cont., 31.3.2017, con nota di F. Viganò, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 3.
5 La prima categoria fu dichiarata illegittima per contrasto con il principio di determinatezza da C. cost., 22.12.1980, n. 177; le altre furono soppresse per ragioni analoghe dal legislatore con la l. 3.8.1988, n. 327.
6 Cass. pen., 24.3.2015, n. 31209; Cass. pen., 23.3.2012, n. 16348.
7 Contra v. Palazzo, F., Per un ripensamento, cit., 12 ss.
8 Così Palazzo, F., op. cit., 17.
9 Così Cass. pen., 19.4.2018, n. 43826, in Dir. pen. cont., 22.10.2018.
10 Cass. pen. n. 43826/2018.
11 Basile, F., Tassatività delle norme ricognitive della pericolosità nelle misure di prevenzione: Strasburgo chiama, Roma risponde, in Dir. pen. cont., 20.7.2018, 8.
12 Cass. pen., 11.2.2014, n. 23641; Cass. pen., 1.2.2018, n. 24707. Per un’analitica ricostruzione della evoluzione giurisprudenziale v. Basile, F., Tassatività, cit., 7.
13 Cass. pen. n. 31209/2015.
14 Cass. pen. n. 43826/2018.
15 Cass. pen. n. 349/2017; Basile, F., op. cit., 12.
16 Siracusano, F., I destinatari della prevenzione personale per “fatti di mafia”, in www.archiviopenale.it.
17 Cass., S.U., 30.11.2017, n. 111, con nota di L. Della Ragione, “Appartenenza mafiosa” e “attualità della pericolosità sociale” nell’applicazione delle misure di prevenzione per fatti di mafia, in Studium iuris, 2018, 1 ss.
18 Cass., S.U., 27.4.2017, n. 40076, in Giur. it., 2018, 452, con nota di F. Basile ed in Dir. pen. cont., 13.9.2017, con nota di F. Viganò, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 9.
19 In tal senso, Cass., 30.11.2017, n. 54080.
20 Cass. pen., 11.10.2017, n. 49194, in Dir. pen. cont., 17.10.2017, con nota di F. Viganò. Sul punto v. Maiello, V., La violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” tra abolitio giurisprudenziale e giustizia costituzionale: la vicenda Paternò, in Dir. pen. proc., 2018, 777 ss.
21 Cass. pen., 9.4.2018, n. 31322, in Dir. pen. cont., 19.7.2018, con nota di G. Amarelli, in Dir. pen. cont., 2018, fasc. 78.
22 Palazzo, F., op. cit., 14.
23 C. cost., 1.8.2008, n. 327.
24 Palazzo, F., op. cit., 15; Basile, F., op. cit., 10.
25 Della Ragione, L., op. cit., 11.