Misure economiche di deflazione del contenzioso
Il sistema di spese e costi processuali proprio del giudizio amministrativo ha conosciuto modifiche di rilievo negli ultimi anni, modifiche che si sono tradotte in un consistente incremento del costo di accesso alla giustizia. Ciò in particolare per quanto concerne il contenzioso sui contratti pubblici e sui provvedimenti delle Autorità indipendenti, ove maggiore è l’importo del contributo unificato e di più facile applicazione appaiono le sanzioni di cui all’art. 26 c.p.a. Il rischio, secondo quanto rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza più avvertite, è che tali previsioni si pongano in contrasto con le norme, costituzionali ed europee, che garantiscono l’effettività della tutela giurisdizionale.
Nell’ultimo periodo, il processo amministrativo ha conosciuto un serio aumento di spese e costi, sia per quanto concerne l’instaurazione del giudizio, sia più in generale in relazione agli oneri economici che le parti potrebbero dover sopportare in ragione dell’esito di quest’ultimo e/o delle modalità di esercizio della loro attività processuale.
L’aumento dei costi del processo non è certamente fenomeno nuovo al sistema; tuttavia, negli ultimi anni, esso sta assumendo proporzioni molto maggiori. Esso non concerne, infatti, soltanto il quantum del contributo iniziale, ma anche la proliferazione delle misure, oggetto di continue modifiche legislative (si pensi soltanto alle varie versioni dell’art. 26 c.p.a. che si sono avvicendate tra l’adozione del Codice e dei vari correttivi). La ratio che ispira l’azione riformatrice è purtroppo chiara: se in linea generale si cerca infatti di giustificare i nuovi costi quali strumenti di prevenzione dell’abuso del processo, emergono tuttavia anche profili diversi, che prescindono da tale, legittima, esigenza. Da un lato, si cerca “di fare cassa”, come si usa dire, in tempi ove la crescente pressione dei vincoli europei sul debito e sulla spesa pubblica si fa sempre più stringente, e vi è comunque la necessità di mantenere la spesa pubblica su livelli idonei a garantire un adeguato svolgimento delle funzioni, evitando di adottare tributi (ancora) più invasivi (e impopolari); dall’altro, si cercano deterrenti all’attivazione della macchina processuale, al fine di favorire, limitando l’introduzione di nuovi ricorsi, lo smaltimento di quelli pendenti.
La critica è facile: rendere eccessivamente onerosa la tutela processuale implica un sostanziale diniego di accesso alla tutela giurisdizionale, che, come tale, si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., nonché con l’art. 6 CEDU1. E la circostanza che il costo di azionamento del processo possa essere poi integralmente recuperato, da parte del ricorrente vincitore, anche a prescindere dalla condanna alle spese, dalle parti soccombenti, non costituisce, in ogni caso, garanzia del rispetto dei principi costituzionali ed europei.
La funzione deterrente delle spese processuali, infatti, può essere giustificata solo quando si tratta di evitare domande giudiziali manifestamente pretestuose; e, anche in questo caso, deve essere mantenuta nei limiti del ragionevole, inmodo da evitare che essa finisca per disincentivare ricorsi che, anche a causa dell’incertezza del quadro normativo e giurisprudenziale, abbiano un esito semplicemente molto dubbio.
1.1 Il contributo unificato
L’esempio più evidente del fenomeno è costituito dalla disciplina del contributo unificato, in particolar modo per le controversie concernenti i provvedimenti delle Autorità indipendenti e per quelle relative all’affidamento di lavori, servizi e forniture.
Giova ricordare che fino al 2002 era previsto, per la proposizione del ricorso, il pagamento, oltre che dei diritti di segreteria, di una marca da bollo (di un valore più volte modificato nel corso del tempo) per ogni quattro pagine di ricorso, da versare al momento dell’iscrizione della causa a ruolo2.
Il sistema è stato modificato dal d.P.R. 30.5.2002, n. 115, che aveva previsto, all’art. 13, co. 1, tanto per i processi civili che per quelli amministrativi, il pagamento di un contributo unificato in proporzione al valore della controversia, così stabilendo un diretto collegamento tra costo di accesso alla giustizia e interesse fatto valere.
La correlazione è però venuta meno con l’art. 21 del d.l. 4.7.2006, n. 223, che, introducendo il co. 6-bis al citato art. 13, ha svincolato, per il processo amministrativo, l’importo del contributo dal valore della controversia, legandolo, invece, alla tipologia di giudizio.
La disposizione, invero, fissava un importo unico del contributo per tutti i giudizi dinnanzi al giudice amministrativo, ridotto della metà per quelli in tema di diritto di cittadinanza, residenza, soggiorno e ingresso nel territorio dello Stato, nonché per i ricorsi di esecuzione della sentenza o di ottemperanza al giudicato. La l. 27.12.2006, n. 296 (Legge Finanziaria 2007) ha aggiunto una nuova distinzione, stabilendo che per i ricorsi a rito accelerato di cui al vecchio art. 23 bis, l. TAR (corrispondente all’art. 119 c.p.a.) il contributo era in generale di 1000 euro, raddoppiati per le controversie in materia di lavori, servizi e forniture e per quelle concernenti i provvedimenti delle Autorità indipendenti (per giungere a 4000 euro con il d.l. 6.7.2011, n. 98). Ancora, il d.lgs. 20.3.2010, n. 53, di recepimento della c.d. direttiva ricorsi in materia di appalti pubblici (dir. 2007/66/CE)3, ha esteso l’onere anche alla proposizione dei motivi aggiunti e del ricorso incidentale.
L’attuale assetto del sistema, con la differenziazione del contributo unificato in materia di appalti e di provvedimenti delle Autorità indipendenti in scaglioni dipendenti dalla fascia di valore della controversia, si è venuto a configurare dalla l. 24.12.2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013), che ha rimodulato anche l’importo dovuto per le altre tipologie di controversie.
Ora il contributo è stabilito, in via ordinaria, in 650 euro. Per le controversie aventi ad oggetto l’accesso ai documenti amministrativi di cui all’art. 116 c.p.a. (salvo quelle inerenti ai documenti in materia ambientale, per le quali nessun contributo è dovuto) e per i ricorsi avverso il silenzio di cui all’art. 117 c.p.a., l’importo scende a 300 euro, così come per quelle, già segnalate, in materia di diritto di cittadinanza, residenza, soggiorno e ingresso nel territorio dello Stato, e per l’azione di ottemperanza. Mentre, per le controversie sottoposte al rito abbreviato di cui all’art. 119 c.p.a., esso sale a 1800 euro.
Fanno, ancora una volta, eccezione in pejus i ricorsi in materia di appalti e contro i provvedimenti delle Autorità indipendenti, per i quali, come anticipato, è stato introdotto un sistema a scaglioni, in base al quale per una controversia di valore pari o inferiore a 200.000 euro, il contributo è di 2000 euro; per un valore tra i 200.000 e 1.000.000 di euro, è di 4000 euro; e, se il valore supera 1.000.000 di euro, è di 6000 euro.
La stessa l. n. 228/2012 ha inoltre previsto che, per i giudizi di impugnazione (quindi, appello, revocazione e opposizione di terzo), l’importo è aumentato della metà4. Con l’effetto che il (mero) contributo per il doppio grado di giudizio varia da 3000 a 15.000 euro.
Da ultimo, si segnala che la medesima novella del 2013 ha esteso il contributo unificato, nel suo importo ordinario di 650 euro, anche al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica; ciò che, ponendosi nella scia della “sostanziale giurisdizionalizzazione” dell’istituto ad opera della l. 18.6.2009, n. 69 (peraltro non pacifica5), ha eliminato un vantaggio importante di cui il rimedio in esame godeva rispetto all’ordinario ricorso giurisdizionale6.
La problematica relativa al contributo unificato si inserisce, peraltro, in un quadro sistematico caratterizzato dalla presenza dimolteplici misure economiche volte ad aggravare l’accesso alla tutela davanti al giudice amministrativo, alcune delle quali di carattere prettamente sanzionatorio.
Tra queste, si devono considerare in primo luogo quelle collegate allo stesso contributo unificato.
Così, il co. 6 bis.1 dell’art. 13, d.P.R. n. 115/2002 prevede una maggiorazione della metà della somma dovuta a titolo di contributo laddove il difensore non indichi nel ricorso il proprio indirizzo pec, il proprio recapito fax, o il codice fiscale della parte (facendo così, di fatto, ricadere sul ricorrente una negligenza a lui non direttamente imputabile).
A tale misura si aggiunge il sistema di pagamento delle spese del processo a carico del soccombente di cui all’art. 26 c.p.a. La disposizione, già nel suo testo originario, prevedeva talune ipotesi di condanna di tipo sanzionatorio, diverse dalla mera condanna alle spese; queste sono poi state ulteriormente incrementate dai successivi decreti correttivi al Codice, nonché, da ultimo, dal d.l. 24.6.2014, n. 90 (conv. nella l. 11.8.2014, n. 114).
Il Codice impone al giudice amministrativo di deliberare sempre in modo espresso sulle spese, in qualunque decisione e in riferimento a qualunque fase di giudizio (ad es. la condanna alle spese della fase cautelare, salvo diversa espressa statuizione del giudice di merito, non è travolta dall’eventuale opposto esito della decisione di merito), vietandone addirittura in alcuni casi la compensazione (es. in caso di soccombenza nell’opposizione ai decreti dichiarativi di estinzione e improcedibilità); poteri che la giurisprudenza, soprattutto del Consiglio di Stato, utilizza in modo sempre più incisivo, commisurando le spese al valore della causa7. Inoltre, il richiamo espresso all’art. 92 c.p.c.8, che nella sua ultima versione limita la possibilità di compensazione delle spese tra le parti alle sole ipotesi in cui vi sia soccombenza reciproca o concorrano altre gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere esplicitamente indicate nella motivazione, spinge il giudice amministrativo ad abbandonare la prassi – pur tante volte deprecata – di procedere alla compensazione a prescindere dalla sussistenza di gravi ed effettive ragioni9.
L’art. 26, co. 2, c.p.a. prevedeva poi, nella sua originaria formulazione, una misura sanzionatoria applicabile, anche d’ufficio, in via equitativa, a carico del soccombente, laddove la decisione fosse stata «fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati». La giurisprudenza10 aveva avuto modo di chiarire che la condanna non riguardava né le spese di lite (quantificate secondo la logica propria delle disposizioni sancite dagli artt. 91 e 92 c.p.c., richiamati dall’art. 26 c.p.a.), né la responsabilità da lite temeraria (tipizzata dai co. 1 e 2 dell’art. 96 c.p.c., anch’esso richiamato dall’art. 26 c.p.a.).
Quanto poi alla natura del pagamento, esso era stato configurato come un indennizzo per il «danno lecito da processo»11, ovvero per il nocumento che la parte vittoriosa ha subito per l’esistenza e durata del processo, precisando che esso non era in realtà configurabile quale sanzione pubblica, atteso che il gettito non era devoluto all’erario. Nel silenzio della legge sui parametri cui agganciare la determinazione equitativa prevista dall’art. 26, co. 2, c.p.a., inoltre, la stessa giurisprudenza aveva osservato che potevano considerarsi ammissibili una molteplicità di criteri – alcuni dei quali ispirati alla logica dei danni punitivi di matrice anglosassone – e che la liquidazione della somma era in generale «affidata all’equità».
La disposizione ha evidentemente suscitato fortissime perplessità, soprattutto per il riferimento alla giurisprudenza consolidata, che rischiava di costituire un ingiusto deterrente per la proposizione di motivi volti a stimolare mutamenti giurisprudenziali, mutamenti per mezzo dei quali – non si può far ameno di notare – è stata realizzata la costruzione pretoria del nostro processo amministrativo. Essa è stata dunque eliminata dal d.lgs. 15.11.2011, n. 195 (cd. Primo correttivo al Codice), che ha sostituito il co. 2 dell’art. 26 c.p.a., inserendo una differente misura sanzionatoria diretta alla parte soccombente che ha agito o resistito temerariamente in giudizio, disposta, anche d’ufficio, dal giudice, nella misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo.
Il Primo correttivo, dunque, ha eliminato la sanzione originaria e ne ha introdotta una nuova. Attraverso di essa, si aggiunge alla responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. (come detto, oggetto di espresso richiamo da parte dell’art. 26, co. 1, c.p.a.) un’ulteriore sanzione per la lite temeraria (questa volta a favore del bilancio dello Stato ai sensi dell’art. 15 disp. att. c.p.a.)12, legando, anche in questo caso, l’importo dovuto a titolo sanzionatorio al contributo unificato, con una modalità di quantificazione che lo rende, peraltro, piuttosto elevato.
Se però la misura da ultimo descritta, facendo riferimento alla temerarietà della lite, trova giustificazione nella finalità di repressione dell’utilizzo improprio Della macchina processuale, più perplesso risulta l’inciso di cui al co. 1 del medesimo art. 26 c.p.a. introdotto dal d.lgs. 14.9.2012, n. 160 (c.d. Secondo correttivo al Codice), per cui sulla condanna alle spese influisce ora anche il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità degli atti processuali delle parti di cui all’art. 3, co. 2, c.p.a.13.
Quest’ultima misura – che, si badi, prescinde dalla soccombenza e viene irrogata senza alcuna garanzia di contraddittorio – ha una portata molto ampia e generica e rischia di colpire, accanto a ripetizioni e prolissità effettivamente inutili, anche ragionevoli ed opportune ricostruzioni del quadro normativo e giurisprudenziale,
particolarmente necessarie in un sistema estremamente complesso e spesso contraddittorio.
È evidente che la condanna della parte (anche vittoriosa) alle spese del giudizio senza alcun criterio indicativo e in ragione della estensione degli atti difensivi (e/o della stessa scarsa chiarezza di questi) rischia – soprattutto quando, come purtroppo sempre più frequentemente accade, tale scarsa sinteticità o chiarezza siano a loro volta inevitabile conseguenza di quelle degli atti contestati o connessi o degli scritti delle altre parti – di costituire una inaccettabile lesione del diritto di difesa e del principio fondamentale del giusto processo, che non può essere confuso con quello del processo «rapido e semplice»14.
2.1 Lemodifiche introdotte dal d.l. n. 90/2014
Il sistema sanzionatorio che circonda le spese processuali di cui all’art. 26 c.p.a., peraltro, è stato da ultimo ulteriormente aggravato, come già si è anticipato, dalle previsioni inserite dal d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014.
In primo luogo, per il caso di lite temeraria – contemplata, come si è visto, dal co. 2 dell’art. 26 c.p.a. – la somma oggetto della sanzione è stata elevata proprio per quelle controversie che più delle altre già soffrivano dell’eccessivo importo dovuto a titolo di contributo unificato, a dire quelle concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture: in queste materie, infatti, l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al quintuplo del contributo dovuto.
Inoltre, al co. 1 dello stesso art. 26, è stata aggiunta una previsione che va a rafforzare il contrasto alla temeraria proposizione del ricorso: in presenza di motivi manifestamente infondati, infatti, il ricorrente non solo rischia di incorrere nella sanzione prevista per la temerarietà della lite dall’art. 26, co. 2, c.p.a., ma può altresì essere condannato dal giudice, anche d’ufficio, al pagamento – in questa seconda ipotesi, in favore della controparte (ciò che rende necessario un coordinamento con la disposizione di cui all’art. 96 c.p.c., espressamente richiamato dall’art. 26, co. 1, c.p.a.) – di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate.
Anche per la parte in cui il d.l. n. 90/2014 è andato ad incidere su norme diverse da quelle inerenti alle spese processuali, peraltro, si ravvisano statuizioni idonee a causare una lievitazione dei costi di giustizia per la parte che vuole ottenere tutela.
In particolare, ciò può riscontrarsi (ancora) in materia di contratti pubblici, ove, come più volte ripetuto, maggiormente pressante risulta l’esigenza del legislatore di limitare il contenzioso. A tal riguardo, il decreto appena richiamato aveva inserito, nel disposto dell’art. 120 c.p.a., il co. 8 bis, a detta del quale il giudice, nel disporre una misura cautelare, doveva necessariamente subordinarne l’efficacia alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione, salvo che ricorressero gravi ed eccezionali ragioni, da indicarsi specificamente.
La dottrina più avvertita aveva fin da subito rilevato la contrarietà di tale disposizione al generale principio di accessibilità ai rimedi giurisdizionali, nonché, nello specifico, alla ratio sottesa alla normativa comunitaria concernente il contenzioso sui contratti pubblici, la quale, soprattutto a seguito della dir. 2007/66/CE (ora recepita negli artt. 120 ss. c.p.a.), si preoccupa di assicurare che la situazione pregiudizievole di cui è lamentata l’illegittimità non si venga a consolidare in modo irreversibile (si pensi soltanto al c.d. standstill processuale)15. E la giurisprudenza amministrativa, condividendo tali perplessità, già poche settimane dopo l’entrata in vigore del decreto aveva correttamente disapplicato il co. 8 bis dell’art. 120, per contrarietà alle norme comunitarie che impongono l’accessibilità e l’efficacia delle procedure di ricorso giurisdizionale in materia di contratti pubblici16.
Recependo i dubbi descritti, il legislatore, in sede di conversione, ha opportunamente modificato la disposizione appena richiamata, pur mantenendo una più ampia facoltà del giudice amministrativo di ricorrere alla cauzione in materia di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture: l’art. 120, co. 8 bis, stabilisce ora che il giudice può subordinare l’efficacia della misura cautelare alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione, «anche qualora», a differenza della disciplina ordinaria, «dalla decisione non derivino effetti irreversibili», specificando inoltre che il suo importo deve essere commisurato al valore dell’appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento di esso.
Il quadro appena descritto, e segnatamente l’aumento del contributo unificato nelle controversie in materia di appalti pubblici e sugli atti delle Authorities, ha destato forti critiche, anche da parte della dottrina, che non hamancato di denunciarne il grave contrasto con il principio di effettività della tutela17.
Le disposizioni del 2013 sul contributo sono state poi specificamente censurate dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti dinnanzi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per violazione degli artt. 6 e 13 della Convenzione, nonché dall’ordinanza del TRGA Trento 29.1.2014, n. 23, che ha rimesso all’esame della Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale della loro compatibilità con il principio di accessibilità alle procedure di ricorso stabilito dalla normativa europea in materia di contratti pubblici.
Si lamenta, in via generale, l’elevato importo del contributo, non solo in confronto agli altri Paesi dell’Unione18, ma anche in relazione alla disciplina vigente nel nostro ordinamento per le controversie civilistiche. Il problema si aggrava qualora vi sia la necessità di impugnare atti sopravvenuti con motivi aggiunti, con ulteriore lievitazione della somma dovuta; impugnazione che, peraltro, non dipende dal ricorrente, ma dal concreto svolgersi della vicenda procedimentale, per cui, di fatto, anche per l’incertezza sui limiti dell’invalidità caducante (e non meramente viziante), chi ha proposto ricorso contro il primo atto di una procedura si trova obbligato ad impugnare gli atti ad esso conseguenziali (versando, quindi, ulteriori contributi) per evitare di sentirsi dichiarare “acquiescente”, con conseguente improcedibilità del ricorso originario. Si è peraltro già denunciata19 l’irragionevolezza del sistema alla luce della considerazione che l’importo dovuto a titolo di contributo può colpire pesantemente anche le finanze pubbliche, giacché, come accennato, a prescindere dal caso dei ricorsi proposti dalle amministrazioni (o società) pubbliche, la restituzione da parte del soccombente è sempre dovuta a prescindere dalla pronuncia sulle spese processuali, e solo in parte tale spesa potrà considerarsi compensata dal fatto che il contributo va comunque a vantaggio del fondo per la giustizia, che certamente non compensa le spese delle Amministrazioni diverse dallo Stato.
Non convince, inoltre, il sistema a scaglioni introdotto dal 2013, ancorché esso ancori l’importo dovuto al valore della controversia: per gli appalti, il valore viene infatti determinato sull’importo a base d’asta e non già sull’utile che l’impresa può conseguire20, come noto presuntivamente stimato nel 10% del primo; ciò che può comportare persino l’antieconomicità del ricorso per i casi in cui il valore della controversia si situi nel minimo di una delle prime due fasce contributive e sia necessario proporre motivi aggiunti ed eventualmente appello (senza considerare le ulteriori spese del processo, a cominciare da quelle della difesa legale).
Alle considerazioni fin qui svolte potrebbe certamente opporsi che il contributo unificato viene comunque interamente rimborsato in caso di vittoria giudiziale, e ciò, come specificato dalla relativa normativa21 e confermato dal Consiglio di Stato22, a prescindere dalla compensazione o meno delle spese di lite. L’obiezione non è però dirimente, atteso che, da un lato, la restituzione si risolve nel meccanismo del c.d. solve et repete, che la Corte costituzionale ha già ritenuto costituzionalmente illegittimo per l’ostacolo creato al diritto di agire in giudizio23; dall’altro, il recupero delle somme già versate è sottoposto all’iter amministrativo per il pagamento dei crediti pecuniari, in taluni casi particolarmente lento e gravoso. Si ribadisce, poi, che in un quadro normativo estremamente complesso e contorto e in un contesto giurisprudenziale soggetto a continui aggiustamenti e revirements l’esito del giudizio è comunque raramente certo, a maggior ragione se, non avendo ancora ottenuto un pieno accesso agli atti del procedimento, il ricorrente si trova costretto ad agire “al buio”24. Cosicché, per quanto fondate possano essere le loro ragioni, le parti (ricorrenti in via principale e incidentale, resistenti e controinteressati) si trovano comunque esposte ad un alto rischio di dover versare le somme dovute a titolo di contributo o di essere condannate alle spese, a prescindere dall’essere state omeno prudenti.
Né vale obiettare che il pagamento del contributo non costituisce condizione di ammissibilità o procedibilità del ricorso. Non si deve infatti dimenticare che il mancato versamento, totale o parziale, del contributo, oltre a consentirne la riscossione tramite iscrizione a ruolo con addebito degli interessi al saggio legale25, è punito con una sanzione amministrativa pari ad una somma che va dal cento al duecento percento dell’importo dovuto26. Non è un caso che lo stesso TRGA Trento, che come detto si è rivelato particolarmente attento alle esigenze derivanti dall’applicazione del contributo unificato, in una pronuncia successiva a quella già richiamata ha sospeso l’invito al pagamento del contributo unificato da parte del Segretario Generale del Tribunale, in ragione el fatto che le conseguenze del mancato pagamento
si sostanziano nell’addebito di interessi e di sanzioni “a cascata”27.
Se a queste considerazioni si aggiungono le perplessità derivanti dalle nuove norme sulle spese processuali, esaminate nei paragrafi precedenti, la sensazione di un “accanimento legislativo” nei confronti degli utenti del servizio giustizia non pare affatto peregrina.
Risulta quindi confermata l’impressione che le nuove misure di “deflazione” del contenzioso non abbiano il reale obiettivo, o, comunque, il reale effetto, di prevenire e reprimere l’uso improprio del processo e, attraverso di esso, un “ingiusto” rallentamento del sistema giustizia, ma finiscano per realizzare un gravissimo diniego di tutela, contraddittoriamente incidente proprio nei settori delle commesse pubbliche e della tutela della concorrenza (maggiormente colpiti dall’aumento del contributo unificato e più facilmente soggetti alle sanzioni per atti non sintetici), che, attraverso l’introduzione della legittimazione ad agire dell’AGCM28 e l’istituzione dell’ANAC29, il legislatore sembrerebbe invece voler più fortemente tutelare, correttamente preoccupandosi di non lasciare impunite e incontrastate le violazioni alle regole pro-concorrenziali imposte dall’UE e di combattere i fenomeni di corruzione che alterano la legittima conduzione delle gare pubbliche.
Fermo l’auspicio di un sollecito riscontro positivo da parte delle Corti europee che sono state investite della questione, si confida quindi che, stante l’assoluta ingiustizia delle nuove misure deflattive, anche la Corte costituzionale sia nuovamente chiamata a pronunciarsi sul tema e, a fronte di un’ordinanza di rimessione più adeguatamente motivata, non riscontri i limiti ravvisati nell’ord. 6.5.2010, n. 164 (che dichiarò l’inammissibilità delle questioni di l.c. sollevate, in relazione agli artt. 3, 81 e 97 Cost., sui primi (meno pesanti) aumenti del contributo disposti dalla Legge finanziaria 2007, rilevando che le scelte legislative in materia di spese processuali sono sindacabili solo nei limiti della manifesta irragionevolezza).
1 Su questi temi, v. da ultimo le Relazioni al 60° Convegno di Studi amministrativi svoltosi a Varenna dal 18 al 20.9.2014 su Diritto ed economia, e ivi Sandulli,M.A., Il tempo del processo come bene della vita, in www.giustizia-amministrativa.it.
2 Così il d.P.R. 6.10.1972, n. 642.
3 Cfr. ora l’art. 13, co. 6 bis.1, d.P.R. 30.5.2002, n. 115.
4 Art. 13, co. 1 bis, d.P.R. n. 115/2002.
5 Si rimanda a Carbone, A., Corte costituzionale e ricorso straordinario come rimedio giustiziale alternativo alla giurisdizione, in Giustamm.it, 2014.
6 Cfr. Quinto, P., L’onerosità del ricorso straordinario: il prezzo per la giurisdizionalizzazione, in Foro amm. - TAR, 2011, 2636 ss.
7 Cfr. Cons. St., sez. VI, 2.2.2012, n. 586.
8 Cfr. art. 26, co. 1, c.p.a.
9 Cfr. Cons. St., sez. III, 5.9.2012, n. 4707; Cons. giust. amm. Reg. sic. 19.4.2012, n. 401.
10 Cons. St., sez. V, 31.5.2011, n. 3752; 23.5.2011, n. 3083.
11 Cons. St. n. 3752/2011.
12 Secondo Cons. St., sez. V, 11.6.2013, n. 3210, l’art. 26, co. 2, c.p.a. costituisce previsione normativa di chiusura dell’ordinamento processuale amministrativo che consente di approntare, in via generale e residuale, un’adeguata reazione alla violazione del principio internazionale e costituzionale del giusto processo, affermato dall’art. 2 c.p.a.
13 Il principio che muove il nuovo inciso dell’art. 26, co. 1, c.p.a., era stato in qualche modo anticipato da Cons. giust. amm. Reg. sic. 19.4.2012, n. 395 che aveva liquidato le spese di giudizio a carico della parte appellante soccombente tenendo conto dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello. Sulla sinteticità degli atti processuali e sulla modifica nel senso riportato nel testo dell’art. 26 c.p.a., si veda Ferrari,G., Sinteticità degli atti e giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del diritto, 2013.
14 Così Sandulli,M.A., Le nuove misure di deflazione: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in Federalismi. it, 2012.
15 Cfr. Sandulli, M.A., Osservazioni a primissima lettura sull’impatto del d.l. 24 giugno 2014 n. 90 impattanti sul sistema di giustizia amministrativa, in www.federalismi.it, 2014; Lipari, M., L’efficienza della P.A. e le nuove forme per il processo amministrativo, in Giustamm.it, 2014.
16 TAR Lombardia,Milano, sez.VI, ord. 30.7.2014, n. 1070.
17 Oltre agli scritti già citati, cfr. Marone, F., La irragionevole misura del contributo unificato nei ricorsi in materia di appalti pubblici, in Giustamm.it, 2012; Fusco, R., Prove di compatibilità della disciplina impositiva sul contributo unificato in materia di contratti pubblici con i principi europei, ivi, 2014; Mirabile, A., Un nuovo capitolo nella “guerra” al contributo unificato in materia di appalti, ivi, 2014. Sul tema già Volpe, F., Nuove riflessioni sul regime del contributo unificato nel processo amministrativo, in Lexitalia.it, 2006.
18 Cfr. Mirabile, A.,Un nuovo capitolo, cit., § 2, e ivi le perplessità riscontratesi anche in altri Stati europei.
19 Sandulli, M.A., Le misure di deflazione, cit.
20 Art. 14, co. 3 ter, d.P.R. n. 115/2002, introdotto dalla l. n. 228/2012.
21 Cfr. il co. 6 bis.1 dell’art. 13, d.P.R. n. 115/2002, introdotto dal d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. in l. 14.9.2011, n. 148.
22 Cfr. Cons. St., sez. V, 2.5.2013, n. 2388 secondo cui la restituzione del contributo unificato è oggetto di un’obbligazione ex lege sottratta alla potestà del giudice, sia quanto alla possibilità di disporne la compensazione, sia quanto alla determinazione del suo ammontare. Analogamente, Cons. St., sez. III, 2.8.2011, n. 4596.
23 C. cost. nn. 21 e 79/1961.
24 Sul punto, ancora, da ultimo, Sandulli, M.A., Il tempo del processo, cit. e ivi riferimenti ai più recenti progressi della giurisprudenza sulla nozione di piena conoscenza.
25 Artt. 16, co. 1, e 248, d.P.R. n. 115/2002.
26 Cfr. art. 16, d.P.R. n. 115/2002, che richiama l’art. 71 del T. U. sull’imposta di registro (d.P.R. 26.4.1986, n. 131).
27 TRGA Trento, ord. 25.6.2014, n. 58.
28 Art. 21 bis, l. n. 287/1990, su cui v. Cossu, L., Potere delle Autorità di impugnare gli atti delle P.A., in Libro dell’anno del diritto, 2013.
29 Su cui v. la voce di S. SticchiDamiani, in questo volume.