Misure urgenti nel lavoro pubblico
Con il recente d.l. 24.6.2014, n. 90, convertito con modifiche dalla l. 11.8.2014, n.114, si sono apportate alcune innovazioni alla disciplina del lavoro pubblico di cui al d.lgs. 30.3.2001, n. 165, intervenendo sugli aspetti collegati alla distribuzione del personale nei diversi ambiti territoriali, in relazione soprattutto alle amministrazioni centrali dello Stato. Si tratta di misure indispensabili nella prospettiva di una prossima soppressione e/o razionalizzazione di numerosi enti “inutili”.
Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sembra rimanere uno snodo centrale al fine di incrementare l’efficienza del “sistema paese”, sebbene siano oramai passati più di venti anni dalla prima organica riforma di “privatizzazione” del rapporto, attuata con il d.lgs. 3.2.1993, n. 29, nel testo poi trasfuso nel vigente d.lgs. n. 165/2001.
I termini della questione, peraltro, restano sempre gli stessi: si tratta di utilizzare in maniera più produttiva i dipendenti pubblici, rompendo il monolitismo che ha sempre caratterizzato la gestione dei rapporti di lavoro.
A fronte della difficoltà di procedere alla riforma della dirigenza, più volte tentata ma mai veramente attuata (v. almeno la l. 15.7.2002, n. 145 e il d.lgs. 27.10.2009, n. 150), i più recenti interventi legislativi sembrano abbandonare l’idea di una ulteriore riforma su questo aspetto, per promuovere l’iniziativa individuale del singolo lavoratore, nella speranza che il venir meno delle antiche certezze in ordine alle garanzie di stabilità ed inamovibilità, possa innescare un ciclo virtuoso. Si tratta, in altri termini, di una sorta di ultimatum consegnato ai lavoratori destinati a perdere il proprio posto di lavoro per effetto delle plurime riforme istituzionali che si preannunziano: e basti qui il richiamo alle province, di fatto già soppresse in forza della l. 7.4.2014, n. 56, seppure non siano stati individuati i soggetti che verranno a gestire le competenze che facevano capo all’ente ora in via di definitiva eliminazione.
Sullo sfondo restano le perduranti difficoltà economiche, che impongono la razionalizzazione, quando non la soppressione, di una ampia pluralità di enti e comunque il contenimento della spesa pubblica, anche se nel provvedimento che si commenta non manca la promessa di un progressivo allentamento dei vincoli di spesa, che oramai da tanti anni mortificano il sistema del pubblico impiego.
A differenza di provvedimenti passati, che pretendevano di presentarsi come una riscrittura integrale dello statuto dei pubblici dipendenti, la riforma del lavoro pubblico attuata con il d.l. 24.6.2014, n. 901 convertito con modifiche nella l. 11.8.2014, n. 114 (intitolato «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari»), abbraccia, in un solo provvedimento, una pluralità di aspetti che trovano solo un debole coordinamento fra di essi.
Ed infatti il provvedimento si fonda non già su un disegno unitario, ma piuttosto sugli esiti di una consultazione telematica, varata dal Governo nella primavera scorsa, che ha raccolto poco meno di quarantamila risposte, in ordine ai 44 punti che venivano segnalati all’attenzione dei cittadini.
Sulla base delle risposte fornite, quindi, si è provveduto ad individuare le aree che apparivano di maggiore interesse, per il campione che ha risposto all’interpello, rinviando invece la modifica dei punti più complessi ad un futuro disegno di legge.
L’assenza di un disegno sistematico indirizza l’interprete ad una lettura delle disposizioni, orientata all’obiettivo della semplificazione di discipline che, al contrario, avevano dimostrato grande fatica a trovare concreta e pratica attuazione. Nello stesso spirito si deve segnalare come il Governo sembri cavalcare l’onda del consenso popolare,mettendo mano, da una parte, a situazioni (vere o presunte) di privilegio e, dall’altra, scommettendo sulla capacità di creare un clima nuovo nell’ambito del lavoro pubblico. Da qui un mix di norme imperative, dirette a piegare resistenze presentate come storiche, e di norme di promozione, rivolte ad incoraggiare i pubblici dipendenti ad effettuare scelte coraggiose (quanto alla mobilità volontaria) in un momento di grande crisi economica.
Sbaglia quindi chi cerca nel provvedimento di legge una rivisitazione delle precedenti riforme (oramai così numerose, che non si riesce nemmeno più a numerarle) o una riattivazione del sistema negoziale, poiché è l’urgenza di intervenire disboscando le aree di privilegio che guida lamano del legislatore, inducendolo ad attuare, in modo più rapido possibile, alcuni interventi di riforma.
Le misure adottate stanno a segnalare tutta la differenza che è ancor oggi dato registrare fra l’organizzazione delle imprese private e delle amministrazioni pubbliche, atteso che queste ultime, malgrado il “vantaggio” (almeno apparente) della incompleta applicazione delle norme in tema di tutela della professionalità individuale (art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 13 st. lav.), rimangono ancorate ad una gestione di tipo burocratico, mentre si registra una persistente incapacità di adottare moduli di tipo privatistico, fondati sulla circolarità della sequenza: responsabilità manageriale – produttività – costi del personale.
Il decreto in commento omette di pronunziarsi sul punto,ma deve apparire chiaro come l’assenza di discipline che riproducano le logiche di mercato (market-like mechanisms) resta la principale causa del ritardo della pubblica amministrazione, di modo che è solo affrontando il punto che si potrà mettere mano ad un procedimento di efficientamento che non risieda nella semplice eliminazione di sprechi e duplicazioni.
In questo senso, deve apparire chiaro come l’intervento che si commenta mira, ancora un volta, negli interventi sulla mobilità e sulle mansioni del personale (artt. 4 e 5), soprattutto alla ridefinizione della spesa, nel senso di provare ad incrementare l’efficienza della macchina burocratica nel suo complesso, sul piano di una più razionale distribuzione del personale, ammettendo quindi implicitamente come il miglioramento della prestazione individuale, perseguito dall’ultima riforma “di sistema”, sia possibile solo a fronte di un effettiva responsabilizzazione della dirigenza.
2.1 Gli interventi sul turn-over
Il provvedimento si occupa innanzi tutto di promuovere le assunzioni, mettendo mano al meccanismo di ricambio (non solo generazionale, a mente dell’art. 1 della legge stessa) degli occupati, così da consentire il riespandersi del numero dei pubblici dipendenti: non si deve dimenticare, infatti, che, a dispetto dell’opinione popolare, il numero dei dipendenti pubblici rimane nel complesso in Italia assai inferiore rispetto a quello di altri paesi continentali.
Si prevede così che tutte le amministrazioni dello Stato (incluse anche quelle ad ordinamento autonomo e le svariate agenzie e gli enti pubblici ricompresi nella contabilità nazionale ai fini del rispetto dei parametri europei) possano ora procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato, per sostituire il personale cessato, nel limite del 20% della spesa relativa al personale “uscito dal ruolo” nell’anno precedente (tale percentuale sale al 40% per l’anno 2015, per raggiungere poi gradualmente il 100% a decorrere dall’anno 2018, mentre resta salva la disciplina specifica che già oggi trova applicazione al personale del “comparto scuola”).
Una più favorevole disciplina, invece, si applica al personale degli enti di ricerca, sul presupposto che una presumibile maggiore produttività della attività di questi possa consentire deroghe più ampie ai limiti oramai ultradecennali imposti alle assunzioni pubbliche, mentre una ampia serie di disposizioni apposite regolano ai co. da 3-bis a 3-undecies dell’art. 3 le assunzioni nei corpi della polizia di stato, della polizia penitenziaria e dei vigili del fuoco.
La riforma, al co. 3, continua a prevedere ai fini dell’assunzione di nuovo personale la necessità di una preventiva autorizzazione governativa, sulla base di quanto già previsto dall’art. 35, co. 4, d.lgs. n. 165/2001 (nel testo novellato dalla legge finanziaria 2005), precisando tuttavia in dettaglio le caratteristiche della richiesta e le modalità di calcolo dei costi complessivi delle operazioni. Si stabilisce così che la richiesta deve non solo tenere conto della programmazione del fabbisogno, ma che essa deve essere «corredata da analitica dimostrazione delle cessazioni avvenute nell’anno precedente e delle conseguenti economie e dall’individuazione delle unità da assumere e dei correlati oneri». Si tratta, in verità, di una misura in certo modo velleitaria, poiché, se resta vero che ogni procedura di assunzione deve essere preceduta dall’esperimento di una mobilità (v. artt. 30, 33 e 34 d.lgs. n. 165/2001), non sempre è possibile determinare con precisione ex ante il costo di un lavoratore neo-assunto (e lo stesso deve dirsi anche per l’ipotesi che il concorso veda come vincitore un candidato già in servizio, attesa la necessità di riconoscergli la anzianità già maturata).
La norma, raccogliendo probabilmente un’indicazione che proveniva dai singoli enti, precisa altresì che «a decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni», così da facilitare in tempi brevi un incremento del personale, pur a costo di esaurire in un breve lasso le risorse destinate al triennio di vigenza dei documenti di programmazione economica e finanziaria.
Nella consapevolezza della difficoltà di governare l’operazione nel suo complesso, pur a fronte della centralizzazione dettata dal co. 4 dell’art. 35 d.lgs. n. 165/2001, si prevede ora che i Dipartimenti della Funzione pubblica e della Ragioneria generale dello Stato effettuino un monitoraggio annuale sull’andamento delle assunzioni e dei livelli occupazionali, al fine di intervenire, in caso di sforamenti, mediante «misure correttive volte a neutralizzare l’incidenza del maturato economico del personale cessato nel calcolo delle economie da destinare alle assunzioni previste dal regime vigente». In altri termini, resta ferma la possibilità di restringere il numero delle assunzioni future, quando si dimostrino errate le previsioni di spesa, in forza delle quali si è provveduto alle assunzioni più recenti.
Il co. 5 dell’art. 3 e i commi successivi dispongono poi, nel rispetto dell’autonomia costituzionale, in ordine alle regioni e agli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno, dettando norme simili a quelle ora esaminate ed affidando (al co. 5-ter) al Dipartimento della Funzione pubblica un ruolo di controllo che, invero, appare rafforzato rispetto al passato, sebbene il co. 10 -bis dello stesso art. 3 finisca poi per gravare i revisori contabili degli enti locali dell’obbligo di certificare «il rispetto degli adempimenti e delle previsioni» di cui all’articolo stesso, al momento in cui viene predisposta la relazione di accompagnamento alla delibera di approvazione del bilancio annuale.
2.2 Le misure di incentivo alla mobilità
La diseguale distribuzione dei pubblici dipendenti nell’ambito del territorio nazionale ha da sempre caratterizzato l’azione riformatrice del legislatore italiano, alla ricerca di meccanismi che consentissero un riequilibrio fra i diversi ambiti territoriali e fra i vari settori dell’impiego statale. Le misure sperimentate sino ad ora hanno però segnato un sostanziale fallimento, di modo che il censimento dei carichi di lavoro (art. 6 d.lgs. n. 165/2001) rimane largamente ineffettivo,mentre la prospettiva di concorsi di assunzione accentrati rimane ancora lontana e le limitazioni alla mobilità successive alla prima assegnazione in servizio hanno tradizionalmente avuto vita breve (o brevissima), poiché spesso aggirate attraverso distacchi e comandi. Né, peraltro, il recente tentativo di rivitalizzare i meccanismi ora richiamati sembra aver trovato pratica attuazione (v. ora art. 35, co. 5 e 5-bis ,d.lgs. n. 165/2001).
A fronte di tanto, la soppressione di numerosi enti, recentemente disposta o in via di definizione (si pensi, oltre che alle province, all’accorpamento di alcune sedi della giustizia ordinaria e amministrativa), finisce per imporre una ridefinizione delle procedure di mobilità, così da promettere che si inneschi una sorta di “gran ballo” del personale, finito il quale, per quanti non abbiano trovato sistemazione stabile, sembra materializzarsi la soluzione del collocamento in disponibilità di cui all’art. 33 ss. d.lgs. n. 165/2001, con il pagamento di una indennità (pari all’80% dello stipendio e dell’i.i.s.) simile, già per importo e per durata dell’intervento assistenziale, alla cassa integrazione guadagni del settore privato.
Viene così, all’esito di un periodo transitorio apparentemente destinato a non finire mai, a prendere forma concreta il pericolo dell’esubero, al riparo dal quale ogni statale pensava di poter condurre la propria esistenza, sì da accettare salari assai più modesti rispetto a quelli corrisposti nel settore privato (con qualche sensibile eccezione, nell’area della dirigenza).
Ovviamente l’accettabilità sociale della misura è resa possibile sia dalla perdurante situazione di crisi economica, sia dal venir meno di storiche certezze anche nel settore privato (che conosce licenziamenti di massa, oramai anche nel settore del credito). Il mutare dei tempi, quindi, spinge l’amministrazione verso misure che negli ultimi venti anni si sono con ogni possibile mezzo rifiutate o aggirate di modo che il legislatore del 2014 è costretto a rivedere il sistema della mobilità, per garantirne la funzionalità, prima che questo entri per davvero in funzione.
L’art. 4 del decreto in commento, quindi, procede a riformulare i primi due commi dell’art. 30 d.lgs. n. 165/2001, che già disciplinavano la materia della mobilità volontaria, introducendo una disciplina di favore per quanto concerne le amministrazioni centrali dello Stato (e, quindi, in buona sostanza il personale che opera nella capitale).
La regola enunziata in apertura dell’art. 30, diviene perciò quella secondo cui: «le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all’art. 2, co. 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell’amministrazione di appartenenza». Viene così ad essere abbandonato il riferimento alla forma della “cessione del contratto” che, per quanto inusuale, aveva consentito alla norma di passare indenne attraverso il giudizio di costituzionalità che ne negava l’applicazione alle regioni, in forza delle speciali competenze normative a queste riconosciute in conseguenza della riforma del titolo V della Costituzione, operata dalla l. cost. 30.5.2003, n. 12. La nuova formulazione, in ogni caso, non sembra negare quella qualificazione che il precedente legislatore aveva ritenuto di esplicitare, di modo che non sembra che la modifica rimetta in discussione la natura di principio generale della mobilità, come resta d’altronde confermato dall’intervento ora attuato sull’art. 29 bis d.lgs. n. 165/2001, che si riferisce a tutti i comparti, così da includere anche quello delle autonomie locali, che raccoglie il personale degli enti territoriali dotati di autonomia costituzionale.
La norma prosegue poi ribadendo la necessità che la selezione per mobilità sia avviata per iniziativa del soggetto “ricevente”, attraverso una selezione pubblica, sebbene manchi più precisa indicazione circa i criteri cui si devono attenere le amministrazioni nella formazione dei bandi: si fa nel decreto a riguardo un riferimento alle competenze professionali dei lavoratori, cui si accompagna però una esplicita previsione, di segno inverso, che legittima i bandi a fissare “requisiti da possedere” ai fini del trasferimento.
Ovvia, dovendo apparire l’applicazione al settore pubblico dell’art. 8 st. lav. e della normativa antidiscriminatoria (v. art. 51, co. 2, d.lgs. n. 165/2001), pare evidente che la introduzione nel bando di “requisiti” ulteriori, e più stringenti rispetto a quelli di cui alle declaratorie della contrattazione collettiva, vada specificatamente motivata, tanto più che il co. 1-bis dello stesso art. 30, introdotto in sede di conversione parlamentare, specifica che «l’amministrazione di destinazione provvede alla riqualificazione dei dipendenti la cui domanda di trasferimento è stata accolta», con ciò implicitamente ammettendo che non è consentito in sede di bando precisare in maniera troppo stringente i requisiti per dar corso alla mobilità (senza dire che, attraverso una descrizione troppo “aderente” del profilo del vincitore “ideale”, si finisce facilmente per mandare deserta la previa selezione di mobilità3, con evidente violazione della disposizione di cui al co. 2-bis dello stesso art. 30, che impone alle amministrazioni, prima di procedere all’espletamento del concorso, di «attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1»).
A seguire, «in via sperimentale» il co. 1 ripropone, ma in una forma notevolmente edulcorata rispetto alla versione iniziale che aveva avuto una certo eco sulla stampa, la previsione che consente di fare a meno del nulla-osta della amministrazione di appartenenza (o “cedente”) per il caso in cui il “trasferimento” avvenga «tra le sedi centrali di differenti ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici nazionali» e nell’ipotesi in cui l’ente di destinazione «abbia una percentuale di posti vacanti superiore all’amministrazione di appartenenza», essendo l’amministrazione di provenienza obbligata a disporre il trasferimento «entro 2 mesi dalla richiesta dell’amministrazione di destinazione, fatti salvi i termini per il preavviso».
Come è ovvio, il calcolo della percentuale dei posti vacanti è, per il singolo, operazione complessa, per non dire impossibile, da attuare, tanto che si prevede l’istituzione di «un portale finalizzato all’incontro tra la domanda e l’offerta di mobilità» presso il Dipartimento della FP al fine di «agevolare le procedure di mobilità».
Si deve peraltro segnalare come la richiesta che il lavoratore dia preavviso alla amministrazione di appartenenza, nel richiamare implicitamente il disposto dell’art. 2118 c.c., poco si conformi alla ricostruzione dell’istituto in termini di cessione del negozio, che prima si era richiamata e che veniva anzi esplicitata nel co. 1 dell’art. 30 nella formulazione precedente all’intervento del legislatore del 2014.
Mentre la misura di cui al co. 1 si muove nell’area delle assunzioni, presentandosi quale equivalente funzionale del concorso (cui viene anzi preferita dal legislatore, a ragione dell’evidente risparmio economico che essa comporta, amente del già richiamato co. 2-bis dell’art. 30), la previsione di cui al novellato co. 2 si colloca come strumento alternativo al licenziamento del lavoratore pubblico, di modo che essa costituisce un momento propedeutico rispetto all’avviamento della procedura di eccedenza del personale di cui all’art. 33 d.lgs. n. 165/2001, riferendosi peraltro a tutti i dipendenti pubblici (di modo che non trovano alcuna applicazione qui le limitazioni di cui al co. 1).
Il co. 2, prevede, infatti, che i pubblici dipendenti possono essere «trasferiti all’interno della stessa amministrazione o, previo accordo tra le amministrazioni interessate, in altra amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello stesso comune ovvero a distanza non superiore a cinquanta chilometri dalla sede cui sono adibiti», senza che trovi applicazione in tal caso «il terzo periodo del primo comma dell’art. 2103 c.c.».
Al di là dell’ovvio rilievo che l’art. 2103 per questo aspetto non ha mai trovato applicazione perché la fattispecie è stata sempre ritenuta integralmente disciplinata dalle disposizioni speciali del t.u., l’intenzione del legislatore è chiarissima nell’ampliare i poteri datoriali4 così da richiedere, con disposizione non derogabile dalla contrattazione collettiva, solo il rispetto della distanza massima fra sede di provenienza e di arrivo, quale presupposto legittimante del provvedimento datoriale (e tanto senza che rilevi il fatto che il lavoratore sia destinato a svolgere la sua attività alle dipendenze di una diversa amministrazione: a patto, in questo caso, che si stipuli tuttavia un accordo fra le due amministrazioni interessate).
E peraltro è anche evidente come l’operazione finirà per essere governata centralmente, come traspare dalle eccezioni, previste su base soggettiva (lavoratori con figli di età inferiore a tre anni ovvero dediti all’assistenza a familiari non autosufficienti), dalla disposizione di cui al comma che segue (che demanda ad un atto ministeriale la fissazione di «criteri per realizzare i processi di cui al presente comma, anche con passaggi diretti di personale tra amministrazioni senza preventivo accordo»), nonché dalla istituzione presso il Ministero dell’Economia di uno speciale fondo per governare le procedure.
Un ultimo comma prevede poi la, già ricordata, semplificazione delle procedure di cui all’art. 29 bis d.lgs. n. 165/2001, per realizzare la mobilità intercompartimentale.
2.3 Le misure per il ricollocamento di lavoratori in esubero
Un terzo tipo di mobilità5 è quello ora riformato dall’art. 5 del decreto in commento (che riscrive l’art. 34 d.lgs. n. 165/2001), quando, fallita ogni operazione di ricollocazione su base volontaria o imperativa, si è oramai proceduto alla risoluzione del rapporto di lavoro e dunque si tratta di avviare a nuova attività i lavoratori “in esubero” attraverso l’intervento o del Dipartimento della FP o delle agenzie regionali di promozione dell’occupazione di cui al d.lgs. 23.12.1997, n. 469. Una prima disposizione prevede che gli elenchi dei lavoratori in esubero siano pubblicati «sul sito istituzionale delle amministrazioni competenti»: il riferimento, probabilmente, va non già ai soggetti chiamati a svolgere funzioni di intermediazione, ma agli originari datori di lavoro pubblici che, in questo modo, assicurerebbero l’effettivo rispetto della norma. Va da sé che pare difficile che a tal fine sia necessaria l’esatta individuazione, con nome e cognome dei lavoratori, bastando invece un riferimento ad altri elementi identificativi della persona (per es. le iniziali e un codice).
Si prevedono poi due misure dirette a incentivare il ricollocamento, stabilendo la possibilità di accettare (nell’ultimo mese di permanenza in disponibilità) impieghi in mansioni diverse (e di meno elevata qualificazione) ovvero assunzioni a tempo determinato, seppure di durata superiore ad un anno, senza perdere il diritto a godere della indennità, per la durata di 24 mesi prevista dall’ultimo comma dell’art. 33, e al collocamento privilegiato, di cui agli artt. 34 e 34 bis d.lgs. n. 165/2001.
Quanto alla prima ipotesi, appare chiara la natura volontaria della assegnazione, in ragione, innanzitutto, della necessità di una apposita istanza (art. 5, co. 1, lett. b); in secondo luogo non si deve dimenticare come la disposizione contenga una chiara violazione delle norme in tema di tutela della professionalità, che hanno fondamento costituzionale nella disposizione di cui al secondo comma dell’art. 36, come ci ricorda C. cost., 31.3.1995, n. 101, di modo che è solo l’alternativa della perdita del trattamento assistenziale che può giustificare la deroga.
Medesima soluzione dovrebbe valere per l’ipotesi di cui alla lett. c) in caso di assunzione a tempo determinato presso nuova amministrazione, a ragione – questa volta – del fatto che il lavoratore collocato in mobilità ha già risolto il rapporto di lavoro che lo legava alla p.a. (art. 34, co. 4, terzo periodo, d.lgs. n. 165/2001), di modo che manca la figura stessa di un soggetto che, al pari del datore di lavoro, possa unilateralmente decidere in ordine al rapporto contrattuale (non più in essere). Ovviamente, in caso di rifiuto, il lavoratore si espone al rischio, in entrambe le ipotesi, di giungere al termine del periodo di mobilità e di perdere di conseguenza il diritto allo speciale trattamento economico previsto per tale ipotesi dall’art. 33, co. 8, d.lgs. n. 165/2001.
Entrambe le norme introducono una nuova fase, preventiva nelle procedure di assunzione per concorso pubblico, imponendo al soggetto che intenda incrementare il proprio personale di verificare, prima di procedere ad attingere ad una graduatoria esistente o alla predisposizione di un nuovo bando, l’impossibilità «di ricollocare il personale in disponibilità iscritto nell’apposito elenco». Le successive disposizioni, tuttavia, lasciano intravedere la possibilità di percorrere strade, a dire il vero, meno lineari, in conseguenza di un’assegnazione (da parte del Dipartimento della FP) del lavoratore «nell’ambito dei posti vacanti in organico, in posizione di comando presso amministrazioni che ne facciano richiesta» o presso quelle individuate ai sensi dell’art. 34 bis, co. 5-bis o anche presso soggetti privati, a mente delle disposizioni (dettate con tutt’altro spirito) di cui all’art. 23 bis dello stesso d.lgs. n. 165/2001.
Si tratta, a tutta evidenza, di disposizioni intese a legittimare eventuali soluzioni che dovessero presentarsi nell’ambito delle procedure di ricollocamento,
atteso che, per espressa previsione normativa, in tali casi il termine di durata massima del trattamento di mobilità di cui all’art. 33, co. 8, «resta sospeso» e l’onere retributivo è a carico del soggetto che «utilizza il dipendente». Solo si può osservare come la norma registri una inversione della tendenza che, in passato, si manifestò in caso di crisi di imprese con un profondo radicamento del territorio, quando la p.a. mise in campo (attraverso norme speciali) l’assunzione diretta di una parte del personale in esubero.
2.4 La riduzione dei permessi sindacali
Nell’ambito delle misure dirette ad incrementare la produttività del lavoro pubblico, riprendendo un aspetto che era rimasto a lungo al riparo dei plurimi interventi di riscrittura del d.lgs. n. 165/2001 dopo le iniziali razionalizzazioni dei primi anni 90, si prevede ora, all’art. 7 del decreto in commento, la riduzione della metà dei «contingenti complessivi dei distacchi, aspettative e permessi sindacali, già attribuiti dalle rispettive disposizioni regolamentari e contrattuali vigenti», anche in relazione al personale delle pubbliche amministrazioni “non contrattualizzato” (che, quindi, si colloca al di fuori del campo di applicazione del d.lgs. n. 165/2001: art. 3). Si tratta, come precisa la recente circ. 20.8.2014 del Dipartimento della FP, di una misura che riguarda ogni associazione sindacale (sebbene disposizioni speciali siano state introdotte in sede parlamentare per le forze di polizia e i vigili del fuoco), che tuttavia non necessariamente si concretizzerà in una generale revisione della materia. Due disposizioni, infatti, riducono notevolmente la portata dell’operazione: l’arrotondamento «delle eventuali frazioni all’unità superiore», per un verso, e la salvaguardia dei casi di sigle sindacali che si avvantaggino «di un solo distacco», per un altro, finiranno per determinare una riduzione in una misura ben inferiore a quella indicata dal legislatore.
Nello stesso senso la possibilità di definire, al tavolo negoziale e «con invarianza di spesa», forme di «utilizzo compensativo tra distacchi e permessi sindacali » potrà giovare, forse, alle stesse organizzazioni sindacali, dando luogo alla revisione di situazioni che non di rado si sono impropriamente consolidate, ad iniziativa prevalente dei singoli.
2.5 Ulteriori disposizioni
Alcune disposizioni del decreto in commento mirano poi ad aprire spazi occupazionali ai più giovani, limitando la possibilità di trattenere in servizio i lavoratori che abbiano superato (anche abbondantemente) la soglia generale prevista per la pensione (art. 1, in relazione al quale v. in questa area del volume, 3.1.1 Le pensioni fra manovre reiterate ed effetti imprevisti), nonché definendo in maniera più stringente il divieto di conferire a lavoratori già in quiescenza incarichi di qualunque tipo, salvo che per l’ipotesi di attribuzioni a titolo gratuito (art. 6).
Infine, l’art. 11, colmando una lacuna oramai evidente e modificando l’art. 110 t.u.e.l., detta una disciplina speciale per l’assunzione “fiduciaria” di dirigenti negli enti locali e nelle Asl (nonché negli enti di ricerca), individuando una percentuale massima ed imponendo l’adozione di procedure selettive al fine di «accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico».
La disposizione appariva oramai necessaria a fronte del fatto che financo per le assunzioni di personale delle società che gestiscono servizi pubblici locali, pur a dispetto della natura privatistica del rapporto di lavoro posto in essere, già si prevede, quando dette società siano a totale partecipazione pubblica, che il reclutamento e il conferimento degli incarichi avvenga, sulla base di appositi provvedimenti adottati dalle società stesse, «nel rispetto dei principi di cui al co. 3 dell’articolo 35 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165». E forse può aggiungersi che la mano del legislatore del 2014, sembra qui guidata non solo dall’intenzione di ampliare il novero delle possibilità di occupazione nel settore pubblico, ma piuttosto dalla volontà di conformarsi alle esigenze di cui alla disciplina “anticorruzione” (l. 6.11.2012, n. 190), al fine di garantire l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Il decreto legge viene incontro alla esigenza, oramai quasi costante, di rassicurare i mercati finanziari e le istituzioni europee circa la effettiva capacità delle istituzioni italiane di attuare in tempi rapidi interventi di razionalizzazione della spesa pubblica e di sostenere politiche di sviluppo.
Manca quindi anche solo una velleità di tipo sistematico, anche se, a differenza di quasi tutte le riforme dello scorso decennio, l’intervento appare dettato da un legislatore che mostra un occhio meno attento alle richieste degli apparati politico-burocratici.
Sembra trattarsi comunque solo di un assaggio di possibili futuri interventi, presumibilmente ispirati a logiche di ancora maggior rigore, mentre rimane ancora lontano l’approdo della definizione di un sistema ordinato nel quale le varie forme di reclutamento del personale trovino precisa e regolata coesistenza.
Allo stato, infatti, un ente pubblico (in disparte dai casi di trasferimento di un’attività o di ricorso alle forme di lavoro flessibili per assunzioni a termine: artt. 31 e 36 d.lgs. n. 165/2001) può provvedere alla saturazione della propria pianta organica attraverso una pluralità di strumenti: assunzione diretta mediante concorso pubblico (in caso di rapporto di lavoro a tempo indeterminato: art. 35), da bandire appositamente o mediante scorrimento su graduatoria; passaggio diretto da altra amministrazione a richiesta del lavoratore stesso (con mobilità infra e inter-compartimentale: artt. 29 bis e 30 d.lgs. n. 165/2001); assunzione per mobilità collettiva (artt. 33, 34 e 34 bis d.lgs. n. 165/2001).
Manca, tuttavia, una normativa chiara che individui le fasi procedurali cui l’ente deve dar luogo, sulla scorta di una preferenza legislativa che viene espressa in maniera non sempre chiara (anche tenendo conto della possibilità di una mobilità puramente interna all’amministrazione del personale, ora rafforzata mediante la modifica dell’ultimo comma dell’art. 34 d.lgs. n. 165/2001 attuata dall’art. 5 del decreto in commento). Una siffatta assenza, tuttavia, non deve stupire, una volta che si siano tenuti presenti i presupposti da cui l’intervento governativo ha preso le mosse.
E così, a conclusione, si può osservare come nel recente passato già si è avuta precisa consapevolezza di quanto possano contare gli annunci di future misure in ordine all’adeguamento alla regola dei comportamenti individuali; anche in questo caso il legislatore scommette sul fatto che con il provvedimento che si commenta si realizzerà una modifica delle condotte individuali, così da giungere a risultati stabilmente acquisiti (come una distribuzione più equilibrata del personale, che non può che comportare un incremento medio della produttività); è certo, anche a non voler essere scettici, come un siffatto risultato potrà manifestarsi, però, solo se le istituzioni e i vertici politico-burocratici sapranno trasmettere l’idea che la linea tracciata verrà seguita con coerenza e determinazione attraverso provvedimenti applicativi puntuali e tempestivi: in caso contrario, il rischio di un ennesimo “buco nell’acqua” è alto.
1 Il testo è pubblicato inG.U. 24.6.2014, n. 144mentre un testo coordinato con le modifiche introdotte in sede parlamentare si legge in G.U. s.g. 18.8.2014, n.190, s.o. n. 70.
2 A riguardo v. soprattutto Serra, D., La mobilità volontaria nel p.i. dopo la riforma Brunetta, in Riv. crit. dir. lav., 2001, 1, 29 ss.
3 La necessità che l’ente che si avvale della procedura di mobilità proceda alla preventiva individuazione dei criteri di scelta, per cui l’utilizzo dell’istituto deve avvenire «secondo criteri oggettivi finalizzati ad assicurare la trasparenza delle scelte operate» è rilevata, ad es., da Trib. Ragusa, 14.10.2011 in Redazione Giuffrè.
4 Per i necessari approfondimenti rinvio al mio I poteri datoriali rivisitati, in Napoli, M.-Garilli, A., La terza riforma del lavoro pubblico tra aziendalismo e autoritarismo, Padova, 2013, 59 ss. nonché al volume monografico di commento all’art. 2086 c.c., Direzione e gerarchia nell’impresa (e nel lavoro pubblico privatizzato), Milano, 2012.
5 A riguardo, per un’analisi della materia, da ultimo, v. Riccobono, A., La nuova disciplina della mobilità volontaria, in Napoli, M.-Garilli, A., cit., 139 ss. nonché Ranieri, M., Accesso al lavoro pubblico ed esperimento preventivo delle procedure di mobilità, in Lav. pubbl. amm., 2013, 5, 757 ss.