Miti e simboli della rivoluzione nazionale
Una chiave importante per capire il significato del processo di costruzione del Regno d’Italia sta in una semplice definizione: Stato-nazione. Perché questa è la tipologia alla quale appartiene lo Stato che nasce ufficialmente il 17 marzo 1861. La ragione del suo sorgere sta in questo: lo Stato unitario viene considerato la necessaria espressione di un’unica comunità nazionale italiana, che si ritiene sia degna di essere rappresentata in forme istituzionali coerenti. Tali forme istituzionali non possono essere individuate negli Stati che ancora nella prima metà del XIX secolo si dividono la penisola, perché quelli sono Stati dinastico-territoriali; la loro legittimità deriva dall’esistenza di una dinastia regnante, e non sono l’espressione della volontà della nazione.
Dunque lo Stato unitario è uno Stato nuovo, sorretto da un’idea nuova. Ma quando nasce questa idea? Nasce quando il termine «nazione» entra a pieno titolo a far parte delle mappe concettuali del politico. E ciò avviene nel corso del XVIII secolo attraverso un processo inizialmente tortuoso, poi sempre più chiaro e accelerato. Prima di allora «nazione», una parola di origine latina, è usata in un senso molto generico. Serve a indicare un po’ approssimativamente comunità di persone che hanno qualche tratto in comune: il luogo di provenienza; la lingua; la confessione religiosa. E così, per esempio, all’università di Parigi i gruppi di studenti sono considerati come appartenenti alla nazione francese, piccarda, normanna e anglica (quest’ultima raccoglie gli studenti che vengono dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Scandinavia e dalla Polonia); oppure, in città mercantili e portuali, le diverse comunità di mercanti che vi operano sono talora identificate con quello stesso termine (a Livorno, per esempio, si trovano la nazione inglese, la greca, l’ebrea, l’armena, la portoghese, ecc.); e a queste nazioni possono essere riconosciuti privilegi particolari o specifiche franchigie. Ma al di là di ciò non si va. E comunque, in generale, in età moderna il termine non appartiene al linguaggio politico.
Né sembra sul punto di entrarvi nel corso del XVIII secolo, quando è piuttosto l’idea di una cosmopolis universale ad attrarre intelletti di prim’ordine, come Voltaire, Kant, Anacharsis Cloots e molti altri ancora. Ma proprio mentre l’idea cosmopolita, dialogando col giusnaturalismo, alimenta le teorie che decretano l’esistenza di diritti umani universali, proprio allora comincia a delinearsi una tendenza radicalmente opposta. In mutevole progressione le rivoluzioni inglesi, la ribellione delle 13 colonie britanniche del Nord America e poi la rivoluzione francese sono sollecitate e accompagnate – fra le altre cose – anche da una ridefinizione dei princìpi che disciplinano la sovranità. Non più una sovranità che viene principalmente o esclusivamente dall’alto della divinità e, posandosi sul monarca, dà ai suoi atti un valore legittimante che solo pochissime altre istituzioni possono mettere in discussione; ma una sovranità che sale dal basso, dal «tutti» che abita il territorio delle aree investite dalle rivoluzioni. Che nome dare a questo indeterminato «tutti»? Due soluzioni si impongono: popolo e nazione. Due termini di grande futuro. Ma dei due, nazione si insedia con maggior forza e in maniera più chiara, al centro vero e proprio del nuovo discorso sulla sovranità. A propiziare questa dislocazione semantica del termine provvedono molti testi e interventi, ma fra tutti ne va segnalato uno che per la sua trasparenza e chiarezza si impone su ogni altro: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, un importantissimo documento che l’Assemblea nazionale costituente francese, nata dalla secessione del terzo stato, rende pubblico il 26 agosto del 1789, e che al suo art. 3 recita: «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente». L’articolo testimonia un mutamento, da allora irreversibile (o quasi), del lessico politico: nazione diventa un lemma chiave di quel vocabolario. E non si colloca in uno spazio semantico laterale, ma al centro della «nuova politica», poiché indica, appunto, la comunità che, nel suo insieme, possiede la sovranità.
Da questa trasformazione scaturiscono due dinamiche, che hanno una portata europea. La prima ha una natura imitativa: dal 1789 in avanti chiunque accarezzi l’idea di «fare come in Francia», cioè di mettere in discussione i fondamenti del potere monarchico o oligarchico, lo fa parlando il linguaggio della nazione, e cioè appellandosi ai diritti conculcati di questa più larga comunità. È ciò che accade un po’ dovunque. Ed è ciò che accade anche in Italia, dove sin dal 1796 i simpatizzanti della rivoluzione francese cominciano a parlare della necessità di rifondare la carta geopolitica della penisola sulla base del nuovo principio nazionale.
La seconda dinamica – solo in apparenza in contrasto con l’altra – ha una natura reattiva: quando gli eserciti della Francia rivoluzionaria, e poi napoleonica, cominciano a dilagare per l’Europa e ad imporre l’autorità della Francia su Stati satelliti di nuova formazione, molti intellettuali, membri delle élites, giornalisti e gente comune delle aree occupate iniziano a criticare ciò che potremmo definire l’imperialismo rivoluzionario e poi napoleonico. Per definire il senso della loro ribellione, uomini come Ugo Foscolo, Vincenzo Cuoco, Johann G. Fichte, Theodor Körner, e altri ancora, cominciano a parlare dei diritti della loro nazione, negati dal cieco desiderio di dominio di una nazione straniera (la Francia) o del suo tiranno e dei suoi complici (Napoleone e i suoi sostenitori locali). In alcuni casi questa reazione non si affida solo alla pubblicazione di saggi, poesie o interventi polemici, ma si traduce in realtà operative, a volte assai drammatiche, di cui la ribellione scoppiata in Spagna nel 1808, la costituzione delle formazioni volontarie tedesche che aggrediscono la Grande Armée in ritirata nella Germania del 1813, le prime sette carbonare o antinapoleoniche nella penisola italiana sono altrettante manifestazioni.
Attraverso questa doppia dinamica imitativa/reattiva il discorso nazionale comincia a diffondersi e a mettere le sue prime radici. Il che comporta due ulteriori passaggi. Il primo ha a che fare con il complesso dell’architettura concettuale che struttura il nuovo lessico politico. Infatti, nel corso dell’evoluzione sopra brevemente ricordata, il termine nazione non solo entra nel vocabolario politico, ma attira a sé un altro termine preesistente, anch’esso in uso sin dal medioevo: «patria». In epoca medievale e moderna patria ha un doppio significato: da un lato indica il «luogo dove si nasce, o donde si trae l’origine», e può riferirsi al singolo paese natìo, o alla città natale, o a un più ampio ambito territoriale; dall’altro, patria ha anche il significato di sistema politico-istituzionale al quale i sudditi o i cittadini devono lealtà, e in questo consiste la sua precoce politicità. E così, in epoca medievale e moderna (e per la verità anche molto prima, come ci ricorda il secondo carme del III libro delle Odi di Orazio) «morire per la patria» è un comportamento altamente apprezzato, che significa mostrare, nella sua forma più estrema, tutta la propria lealtà alle istituzioni dello Stato di cui uno è suddito (se si tratta di una monarchia) o cittadino (se si tratta di una repubblica). Dopo la rivoluzione francese, per le analogie semantiche che li connotano e per le coerenze funzionali che sviluppano, i termini nazione e patria entrano in strettissimo collegamento reciproco, tanto che vi è chi designa il nazionalismo otto-novecentesco con il sostantivo composto «nazional-patriottismo». Nel rapporto tra nazione e patria è il primo termine ad avere il maggior rilievo, poiché designa il soggetto fondativo del politico; patria, dal suo canto, conserva i significati relazionali che aveva in origine, che adesso si riferiscono non solo alle istituzioni dello Stato di cui uno è membro, ma soprattutto alla nazione alla quale si appartiene.
L’altro passaggio attraversato dalla concezione nazional-patriottica tra fine Settecento e inizio Ottocento è anche più rilevante di quello appena descritto. Poiché, una volta che si sia stabilito che il «tutti» che possiede la sovranità è un’entità da individuare col termine «nazione», subito scatta una sequenza di necessari interrogativi: quante sono le nazioni? Chi ne fa parte? E perché?
Inizialmente, in particolare nel caso italiano, l’incertezza è notevole. C’è chi – tra 1796 e primissimi anni dell’Ottocento – parla di nazione piemontese, o cisalpina, o veneziana, o romana, o napoletana. Ma poi, quasi subito, essenzialmente tutti quelli che parlano il nuovo linguaggio politico vedono nella nazione italiana la comunità di riferimento su cui basare progetti di «rigenerazione» della penisola. Perché l’identità italiana prevale? Perché in Italia, come altrove nell’Europa di questi anni, i promotori del discorso nazional-patriottico sono degli intellettuali o dei leader politici con un’ottima formazione intellettuale. Per questo la loro identità socio-professionale primaria è legata al sentirsi parte di una koinè culturale che comunica attraverso il ricorso alla lingua italiana, nobilitata dal fatto che sin dal XIV secolo essa può fregiarsi di capolavori letterari di prim’ordine. E infatti, almeno in prima battuta, per i promotori del movimento risorgimentale (da Cuoco a Foscolo, da Alessandro Manzoni a Giuseppe Mazzini) sono la lingua e la letteratura italiana che testimoniano l’esistenza di una nazione italiana, e che ne fondano le ambizioni di riscatto politico.
Tuttavia questa scelta contraddice un essenziale dato di realtà. E cioè il fatto che all’inizio dell’Ottocento l’italiano è una lingua usata solo da una percentuale ridottissima della popolazione della penisola. I linguisti che hanno studiato i dati relativi al periodo immediatamente post-unitario hanno concluso che gli italofoni – cioè coloro che ricorrono normalmente all’italiano per le esigenze della comunicazione quotidiana – sono tra il 2,5% (De Mauro 1963) e il 9,5% (Castellani 1982) del totale della popolazione della penisola. Si può supporre che, a quell’epoca, oltre al ristrettissimo gruppo di italofoni, ci sia una più larga percentuale di persone capaci di usare l’italiano parlato, grazie a una loro capacità di capire l’italiano scritto; tuttavia questa percentuale non può essere stata di molto superiore al numero degli alfabeti, che nel 1861 risulta pari al 22% del totale della popolazione; e tra questi, coloro che sono in grado di apprezzare Dante o Machiavelli sono certamente una percentuale piuttosto ridotta. Tutti gli altri fanno uso di dialetti lessicalmente e sintatticamente molto diversi l’uno dall’altro, o perfino di una lingua straniera, come per esempio il francese in aree geografiche e sociali del Piemonte.
Stando così le cose se ne dovrebbe dedurre che l’ipotesi di un nuovo assetto della penisola, derivato dal riconoscimento dell’esistenza di una nazione italiana, ha basi incredibilmente fragili. E ancor più fragili esse appaiono se solo si considera che le proposte di un rinnovamento nazionale della penisola incontrano la determinatissima resistenza degli establishment di tutti gli Stati preunitari (compreso, almeno fino al 1846, il Regno di Sardegna). Ovvio che sia così, posto che gli intellettuali nazional-patriottici o i leader dei primi nuclei operativi che cominciano a formulare strategie politiche concrete (evochiamone il più importante: Giuseppe Mazzini) vogliono rivoluzionare radicalmente non solo la carta ma, molto spesso, anche le istituzioni vigenti sull’intera penisola.
Alle sue origini, dunque, il movimento nazional-patriottico soffre di handicap pesantissimi. E probabilmente, nei primi decenni dell’Ottocento, nemmeno un solo osservatore neutrale avrebbe scommesso un centesimo sulla riuscita dei vari piani di rinnovamento formulati dall’uno o dall’altro gruppo di intellettuali o di politici di ispirazione nazional-patriottica. Del resto, come pensare diversamente? La proposta nazional-patriottica vuole parlare a masse che a stento capiscono l’italiano, cercando addirittura di muoverle all’azione politica contro i rigori delle polizie e dei tribunali degli Stati preunitari (in termini concreti significa incitarle ad azioni che possono costare la prigione, l’esilio e persino la morte). Un po’ troppo, sembrerebbe. Eppure ciò che è particolarmente affascinante dell’esperienza risorgimentale è che questa «missione impossibile» viene compiuta con sorprendente efficacia. Nell’arco di tempo che va dal 1815 al 1861 una gran parte dell’opinione colta, e anche una parte significativa delle classi popolari urbane, viene convinta della bontà dell’idea nazionale, tanto da spingere molti a unirsi alla Giovine Italia, a partecipare ai tentativi insurrezionali che si susseguono dal 1820 in avanti, a partecipare in forme diverse alle manifestazioni, agli scontri urbani e alle guerre che caratterizzano il quadriennio 1846-49, a continuare a militare in gruppi segreti negli anni Cinquanta, a trasferirsi in esilio nel Piemonte costituzionale dopo il 1849, a partire a migliaia come volontari per le guerre del 1859 o del 1860. Ancor più importante di questi dati numerici (peraltro già molto rilevanti), è la trasformazione del discorso politico che attraversa l’Italia del Risorgimento. Un numero crescente di persone – non solo i mazziniani più radicali, ma anche i nobili o gli intellettuali o i politici moderati, di varia provenienza e di varia inclinazione politico-culturale, come Bettino Ricasoli, Gino Capponi, Camillo Benso di Cavour, Niccolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, e moltissimi altri – si trovano, in alcuni casi anche loro malgrado, a parlare il linguaggio della nazione italiana e ad agire di conseguenza: questo è l’indicatore più evidente del successo del movimento nazional-patriottico. Che nel 1861 si dovesse formare uno Stato-nazione italiano non era certo una necessità della Storia; e che la classe dirigente di questo nuovo Stato dovesse concepirne le istituzioni come un’espressione dell’esistenza della nazione italiana era una novità assoluta che avrebbe sconcertato o irritato i padri o i nonni di Ricasoli, di Cavour, di Massimo D’Azeglio, di Marco Minghetti, e di infiniti altri. Eppure questo è ciò che accade nell’Italia della prima metà dell’Ottocento. Che cosa rende possibile un fenomeno di tali proporzioni?
Se tutto ciò avviene è perché i leader intellettuali e politici del nazionalismo italiano sanno presentare il discorso nazionale attraverso modalità comunicative che fanno appello non tanto alla ragione degli illuministi, alla solida cultura, all’indagine lucida e distaccata, quanto all’universo pre-razionale delle emozioni. E ci sono ottimi motivi perché sia così: come potrebbe essere altrimenti, se si vogliono coinvolgere nel discorso politico anche persone analfabete o semi-analfabete? E come potrebbe essere altrimenti, se si vuole diffondere un discorso politico altamente innovativo e – almeno nelle sue formulazioni iniziali – radicalmente eversivo degli assetti politici dominanti? La realizzazione di una proposta politica che sappia parlare al cuore del «popolo» passa attraverso la formazione di quella che è stata chiamata una «estetica della politica» (Mosse 1975). Con questo termine si indica una modalità della comunicazione politica che certo non è ignota in epoca moderna, ma che ora prende dimensioni prima sconosciute; una modalità sollecitata dalla constatazione secondo la quale strumenti che normalmente servono per divertirsi e rilassarsi (romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue, opere liriche) possono anche riempirsi di messaggi politici, senza per questo perdere niente del loro fascino. Per la formazione di questa nuova «estetica della politica» è essenziale lo stretto rapporto che gli intellettuali nazional-patriottici intrecciano con l’esperienza culturale europea comunemente nota col termine di romanticismo. Dei molti aspetti che connotano l’elaborazione romantica, uno merita di essere particolarmente sottolineato: gli intellettuali che vi si avvicinano mettono ben presto a fuoco l’idea di «un’arte per il popolo», termine che in questo caso non vuol dire altro che «un’arte per il più largo numero possibile di persone». Si tratta di un programma estetico che è certamente sollecitato anche dal nuovo statuto socio-professionale del letterato o dell’artista della Restaurazione. Non più sostenuto da un mecenate, non più assunto stabilmente da una famiglia nobile, in difficoltà nel trovare un impiego statale, costui deve essere capace di vendere le sue opere sul mercato se vuole procacciarsi di che vivere. Ma ciò che è importante osservare è che diversi intellettuali e artisti romantici danno a questo chiaro programma professionale una declinazione nettamente nazionalista. Perché lo fanno? Da un lato, perché capiscono che la nazione è un tema politico «caldo», reso estremamente popolare dalle vicende della rivoluzione francese, e soprattutto dalle reazioni suscitate dalle occupazioni napoleoniche; cosicché raccontare storie di ispirazione nazional-patriottica significa raccontare storie che trovano già un pubblico sensibile, e quindi un mercato a cui vendere i propri lavori. Dall’altro lato, almeno in alcuni casi, lo fanno anche per intima convinzione, che si traduce talora in una militanza che a qualcuno può anche costare molto (prigione, esilio, morte).
È ad opera di persone di questo tipo, che talora sono anche delle vere e proprie stelle dello star-system intellettuale dell’epoca – come Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni, Massimo d’Azeglio, Francesco Domenico Guerrazzi, Francesco Hayez, Giuseppe Verdi, e molti altri con loro –, che il discorso nazionale può avvalersi di un’estetica della politica che prende forma attraverso una vasta costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica. Sono questi gli strumenti comunicativi che fondano la narrazione e la mitografia risorgimentale. Il pubblico di riferimento è in primo luogo quello nobiliare e borghese: un pubblico di persone che sa leggere, e che ha tempo libero per farlo. Ma molto rapidamente le storie, i miti, le immagini, le figure simbolo della mitografia risorgimentale trovano la strada della diffusione anche tra le classi popolari urbane attraverso altri circuiti comunicativi. In primo luogo la propaganda capillare dei militanti delle organizzazioni mazziniane, dalla Giovine Italia in avanti, capaci di svolgere un’azione di proselitismo particolarmente efficace prima in città portuali o universitarie, come Genova, Livorno, Pisa o Pavia, e poi, man mano anche altrove (Della Peruta 1974). Inoltre, un grande impatto ha anche la messa in scena di melodrammi con intrecci di ispirazione nazional-patriottica, uno strumento comunicativo potente sia perché moltissime città, anche molto piccole, dispongono di teatri – tra 1816 e 1868 in tutta la penisola ne vengono costruiti ben 613 (Sorba 2001, p. 26) –, sia perché i biglietti per i posti meno costosi sono alla portata di molti e l’azione scenica può essere facilmente seguita anche da analfabeti. Determinante è anche l’azione diffusiva di predicatori itineranti come Ugo Bassi o Alessandro Gavazzi, e di una parte importante del clero che tra il 1846 e il 1848 dà un sostegno decisivo all’ampio radicamento degli ideali e dei valori nazional-patriottici (Francia 2007; Menozzi 2007). Infine, niente affatto trascurabile è l’effetto diffusivo esercitato da altri media, dalle stampe monocromatiche vendute per pochi soldi sui mercati, alle storie cantate o raccontate dai cantanti girovaghi o dai burattinai, che spesso adattano gli hit letterari o operistici alla loro cornici comunicative (circuiti, questi ultimi, che attendono ancora di essere studiati e ricostruiti in profondità).
Nelle campagne tutto ciò arriva con difficoltà o addirittura non arriva per niente. Le campagne sono più sorvegliate da campieri, fattori, soprastanti, niente affatto inclini a far circolare individui sospetti (come, per esempio, i militanti della Giovine Italia) tra cascine, poderi e latifondi. L’analfabetismo, la difficoltà degli spostamenti, l’assenza di luoghi deputati al divertimento o al tempo libero, fa sì che mai, o quasi mai, vi arrivino anche gli altri media più popolari (melodrammi, stampe, cantanti girovaghi, burattinai, predicatori itineranti). Questo per sottolineare che la diffusione del discorso nazionale ha una sua geografia piuttosto precisa, che è quasi esclusivamente urbana. Ma lì, nel contesto delle città, le cose vanno diversamente: lì si impone un’immagine della nazione che è piuttosto largamente condivisa da individui di diversa estrazione sociale e di vario orientamento politico. Se, com’è evidente, i democratici e i moderati sono estremamente distanti sia per quanto concerne le strategie operative da impiegare nella rivoluzione nazionale, sia per quanto concerne le istituzioni da adottare per il futuro Stato italiano, nondimeno sono animati tutti da un’idea di nazione che nei suoi tratti fondamentali è essenzialmente la stessa. Inoltre, occorre anche aggiungere che, lì dove arriva, il discorso nazionale riesce a scuotere cuori e coscienze, perché la mitografia che lo innerva riesce a proporre miti e simboli potenti, capaci di avere uno straordinario impatto emotivo.
Ma quali sono questi miti e questi simboli?
Fondamentale, nella costellazione mitologica nazional-patriottica, è la descrizione della nazione come una comunità di parentela e di discendenza, dotata di una sua genealogia e di una sua specifica storicità. In questa concezione il nesso biologico tra gli individui e tra le generazioni diventa un dato fondamentale: da qui il ricorso frequente a termini come «sangue» o «lignaggio», per connotare i nessi che legano le persone alla comunità. Da questa concezione deriva anche un suggestivo sistema linguistico fatto di «madrepatria», di «padri della patria», di «fratelli d’Italia», mentre la «famiglia» diventa costantemente un sinonimo della comunità nazionale nel suo complesso, o un termine che ne indica il nucleo fondativo minimale. Il dispositivo fondamentale che regola questa immagine è la proiezione della nazione dalla dimensione del «politico» alla dimensione del «naturale». Ciò significa che l’aspetto costitutivo fondamentale della comunità nazionale non è tanto la scelta di farne parte operata dal singolo individuo, quanto il suo fato biologico, il suo nascere all’interno dell’una o dell’altra comunità nazionale, e quindi il suo necessario appartenere a tale comunità di discendenza, al suo sangue, alla sua terra, al suo destino.
Mazzini, a questo riguardo, si esprime piuttosto inequivocabilmente. Le nazioni, sostiene nel suo Dei doveri dell’uomo, testo del 1860 che funge da summa essenziale del suo pensiero, sono un mezzo per creare una vera fratellanza di tutta l’umanità. E poi spiega:
Questo mezzo, Dio lo trovava per voi, quando vi dava una Patria, quando, come un saggio direttore di lavori attribuisce le parti diverse a seconda della capacità, ripartiva in gruppi, in nuclei distinti, l’Umanità sulla faccia del nostro globo e cacciava il germe delle Nazioni. […] Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d’Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’Umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compirsi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli affetti e dei mezzi di molti milioni di uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll’opera propria a tutta quanta l’Umanità. A voi uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita d’Europa. In altre terre segnate con limiti più incerti o interrotti, possono insorgere questioni che il voto pacifico di tutti scioglierà un giorno, ma che hanno costato e costeranno forse ancora lagrime e sangue: sulla vostra, no. Dio v’ha steso intorno linee di confini sublimi, innegabili: da un lato, i più alti monti d’Europa, l’Alpi; dall’altro, il Mare, l’immenso Mare. [...] Sino a quella frontiera si parla, s’intende la vostra lingua: oltre quella, non avete diritti. Vostre sono innegabilmente la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e le isole minori collocate fra quelle e la terraferma d’Italia. La forza brutale può ancora per poco contendervi quei confini; ma il consenso segreto dei popoli li riconosce d’antico, e il giorno in cui levati unanimi all’ultima prova, pianterete la nostra bandiera tricolore su quella frontiera, l’Europa intera acclamerà sorta e accettata nel consorzio delle Nazioni l’Italia. A quest’ultima prova dovete tendere con tutti gli sforzi (Mazzini 1935, pp. 60-62).
Il momento della originaria ascrizione, che ricorre costantemente nella predicazione mazziniana, è quello della nascita, evento anche politicamente rilevante perché, collocando un individuo all’interno della sua comunità nazionale, dà un senso storico e politico ben preciso ai suoi legami con le generazioni precedenti (quelle dei padri, delle madri, degli avi), con le generazioni coeve (i fratelli, le sorelle), con le generazioni future (i figli, le figlie). Ed è proprio intorno a questa concezione biopolitica della nazione che si snodano i tornanti essenziali del rituale di affiliazione alla Giovine Italia:
Ogni iniziato nella Giovine Italia pronunzierà davanti all’Iniziatore la formola di promessa seguente:
Nel nome di Dio e dell’Italia,
Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica,
Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto, e ai fratelli che Dio m’ha dati – per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi dove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli – per l’odio, innato in ogni uomo, al male, all’ingiustizia, all’usurpazione, all’arbitrio – pel rossore ch’io sento in faccia ai cittadini dell’altre nazioni, del non avere nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria – pel fremito dell’anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all’attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù – per la memoria dell’antica potenza – per la coscienza della presente abbiezione – per le lagrime delle madri italiane – pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio – per la miseria dei milioni:
Io N. N.
Credente nella missione commessa da Dio all’Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento;
Convinto che dove Dio ha voluto fosse Nazione, esistono le forze necessarie a crearla – che il Popolo è depositario di quelle forze, – che nel dirigerle pel Popolo e col Popolo sta il segreto della vittoria;
Convinto che la virtù sta nell’azione e nel sagrificio – che la potenza sta nell’unione e nella costanza della volontà;
Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d’uomini credenti nella stessa fede, e giuro:
Di consecrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana […] (Mazzini 1907, p. 46).
Altri ancora più direttamente si appellano al sangue, alle fattezze, al lignaggio, oltre che anche ad altri fattori, come la lingua, la religione, la cultura. In Marzo 1821 Manzoni enuncia i fattori costitutivi della nazione in una famosissima sequenza ternaria: «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor»: unità di armi, necessaria per la rinascita; ma poi: unità di lingua, di confessione religiosa, di ricordi storici, di sangue comune, di comune densità emotiva. E non basta: poco più avanti, nello stesso testo, tutti questi elementi sono collocati in un’unità spaziale ben precisa, il «suolo», la «terra», un dominio ereditario che l’Italia – forte della sua millenaria identità – torna a riprendersi («O stranieri, nel proprio retaggio / torna Italia, e il suo suolo riprende; / o stranieri, strappate le tende / da una terra che madre non v’è») (Manzoni 1992, p. 198). Berchet, nelle Fantasie, testo poetico del 1829 che contribuisce a collocare la Lega lombarda, Pontida e Legnano al centro della mitografia risorgimentale, impiega questi stessi elementi, quando, dopo aver descritto il giuramento di Pontida, ne spiega le premesse:
Perché ignoti che qui non han padri,
Qui staran come in proprio retaggio?
Una terra, un costume, un linguaggio
Dio lor anco non diede a fruir?
La sua parte a ciascun fu divisa.
È tal dono che basta per lui.
Maladetto chi usurpa l’altrui,
Chi ’l suo dono si lascia rapir! (Berchet 1992, p. 339)
Sono, dunque, il volere di un superiore agente divino, e poi il sangue che lega la successione delle generazioni ad una terra, una comune tradizione, un comune linguaggio, gli elementi costitutivi della comunità nazionale. Tutti aspetti, questi, che in forma più netta e stilizzata ricompaiono anche nella scena della Battaglia di Legnano – opera del 1849 con musica di Giuseppe Verdi e libretto di Salvatore Cammarano – in cui i protagonisti, Rolando e Arrigo, cavalieri della Lega, vanno a parlare con i comaschi, allora alleati del Barbarossa, per cercare di convincerli ad abbandonare il «Teutono» e ad unirsi alle altre città lombarde. Rolando, rivolgendosi ai capi comaschi, dice allora:
Rolando: Taccia
Il reo livore antico
Di Milano e di Como: un sol nemico,
Sola una patria abbiamo,
Il Teutono e l’Italia; in sua difesa
Leviam tutti la spada.
podestà [di como] e coro [dei comaschi]: Ed obliasti
Qual patto ne costringe
A Federico?
rolando: Vergognoso patto,
Cui sacra mano infranse …
Ah! Rammentarlo,
O Comaschi, potete
Senza arrossirne? … Ed Itali voi siete?
Ben vi scorgo nel sembiante
L’alto, ausonico lignaggio,
Odo il numero sonante
Dell’Italico linguaggio,
Ma nell’opre, nei pensieri
Siete barbari stranieri! (Verdi 1996, p. 290)
In questo caso il patto sottoscritto tra i comaschi e Federico Barbarossa è considerato niente meno che «iniquo», perché viola l’ordine naturale delle cose, ovvero l’appartenenza dei cittadini di Como alla comune schiatta italica.
Anche in un importantissimo saggio politico di impronta esplicitamente antimazziniana riecheggiano questi fondamentali elementi definitori. In Del primato morale e civile degli Italiani Gioberti sostiene che la nazione italiana, oppressa dai barbari, «contiene in sé medesima, sovratutto per via della religione, tutte le condizioni richieste al suo nazionale e politico risorgimento» (Gioberti 1938, p. 70): e il presupposto logico e storico che dà fondamento a questa aspirazione è che, in definitiva, «v’ha […] un’Italia e una stirpe italiana, congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre», che – dopo secoli di decadenza – ha il diritto di rinascere e di avere una sua propria espressione statale. Certo, il «popolo italiano» – afferma Gioberti in una trasparente polemica con Mazzini – non può essere soggetto d’azione politica perché non è ancora altro che «un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa» (ivi, p. 71). È per questo che l’ordine del risorgimento nazionale deve essere «monarchico ed aristocratico, cioè risedente nei principi e avvalorato dal concorso degl’ingegni più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle nazioni» (ivi, p. 117). Anzi – riprendendo il principio già formulato anni prima da Vincenzo Cuoco secondo cui le costituzioni devono essere coerenti col genio delle nazioni –, aggiunge che un assetto politico fondato sui prìncipi, su aristocrazie civili e consultive, e sul coordinamento politico-spirituale del papa, è la condizione propria «del reggimento nazionale d’Italia», perché esso meglio esprime le due componenti fondamentali del genio italico:
Il genio proprio degli Italiani nelle cose civili risulta da due componenti, l’uno dei quali è naturale, antico, pelasgico, dorico, etrusco, latino, romano, e s’attiene alla stirpe e alle abitudini primitive di essa; l’altro è sovrannaturale, moderno cristiano, cattolico, guelfo, e proviene dalle credenze e istituzioni radicate, mediante un uso di ben quindici secoli, e tornate in seconda natura agli abitanti della penisola. […] Amendue questi concetti, nazionali all’Italia e toscoromani di origine, mirano a compenetrare tutte le parti del vivere civile […] (ivi, p. 138).
Passi come questi sono interessanti, perché danno la misura del tasso di artificiosa inventività immaginifica che presiede alla costruzione dell’idea di nazione italiana. Ma l’enfatizzazione emozionale e la manipolazione analitica contenute in testi come questi non devono far perdere di vista la forza comunicativa che possiedono. Declinando la nazione come fatto naturale, strutturato sulla base di legami simili a quelli familiari e parentali, questi autori, e i molti altri speaker che li imitano e li seguono, ai più diversi livelli, compiono due operazioni di grande efficacia: semplificano la concezione nazional-patriottica rendendola di facile comprensione per chiunque; e la strutturano anche come un linguaggio delle differenze, idealmente riassumibile in questo modo: «noi siamo noi, perché abbiamo tratti naturali e culturali che ci differenziano irrevocabilmente da loro, gli altri, gli stranieri»; in un costrutto di questo genere, gli stranieri sono solo «diversi». Ma in contesti di crisi politico-militare rapidamente da «diversi» possono anche trasformarsi in «nemici».
La capacità di far leggere un universo sociale consueto con categorie completamente nuove è una buona misura della forza performativa di un sistema concettuale. Ma la performatività di un sistema di pensiero è testimoniata soprattutto dalla maggiore o minore efficacia con la quale esso è in grado di condizionare non solo i valori astratti, ma anche i concreti comportamenti degli individui che lo accolgono. E un esempio piuttosto impressionante della diretta performatività del discorso nazionale, così come si forma nella prima metà dell’Ottocento, è offerto dalla sequenza di eventi che accadono a Venezia nei primi mesi dopo l’insurrezione e la capitolazione delle autorità austriache (22 marzo 1848), ricostruiti di recente in un’accurata e importante ricerca d’archivio (Brunello 2008).
Negli anni e nei mesi precedenti al marzo 1848, a Venezia, parte del Lombardo-Veneto e quindi dell’Impero austriaco, si possono incontrare molti stranieri, diversi dei quali vengono da altre regioni dell’Impero. La convivenza non è mai stata un particolare problema. Molti stranieri vivono a Venezia o perché sono parte della guarnigione militare di stanza in città; o perché sono funzionari o impiegati della burocrazia imperiale; o perché, semplicemente, vi svolgono un qualche tipo di attività lavorativa. Ma nel momento in cui, anche a Venezia, scoppia la rivoluzione nazionale, il discorso delle differenze, imposto dall’ideologia nazional-patriottica, entra subito in azione. Intanto impone una scelta di campo a soldati e ufficiali, che, normalmente, si dividono per gruppi nazionali. Inoltre, sin dal 23 marzo 1848, nonostante le disposizioni distensive dei membri del governo (Daniele Manin, Pietro Paleocapa, Niccolò Tommaseo), membri della guardia civica e gente comune aggrediscono verbalmente persone identificate come «straniere», e – nel caso della guardia civica – arrestano o impediscono l’uscita dalla città a stranieri considerati, in quanto tali, automaticamente nemici. Intanto gli episodi di intolleranza si susseguono. All’Agenzia dei sali e nitri impiegati e facchini protestano contro la direzione «con urli e minacce» perché sembra che un impiegato «tedesco» possa ottenere una promozione. Analoga situazione alla Manifattura tabacchi, dove si vuole il licenziamento di un impiegato triestino, perché «non nazionale» (ma in realtà perché è un tipo scrupoloso, che controlla con rigore i lavoranti) (Brunello 2008, pp. 33-34).
Per risolvere le tensioni, gli impiegati e i funzionari stranieri sono indotti a dimettersi, oppure sono licenziati e in qualche caso sono anche invitati ad andarsene rapidamente da Venezia. A proposito di sei guardie carcerarie, austriache di nascita, che nel maggio 1848 chiedono di avere il passaporto per il rimpatrio, la delegazione provinciale consiglia un pronto imbarco perché, «da persone così invise alla popolazione ed ai detenuti, come sono le sei guardie petenti, [non ci si può] attendere alcun utile servigio, e anzi [si deve temere] che la loro nazionalità possa dare occasione a qualche disordine nello stabilimento» (ivi, p. 39). Altri sono costretti ad andarsene perché, dopo essere stati licenziati, non trovano più lavoro: è il caso di Bortolo Ksekovich, un cameriere «dell’Alta Austria», il quale, dopo che i suoi datori di lavoro se ne sono andati, «inutilmente erasi prestato per avere un servizio in questa città, venendo da ognuno respinto attesa la di Lui nascita» (ivi, p. 38). La stessa cosa capita a tre cocchieri, impiegati da nobili in terraferma (Giuseppe Langhans, al servizio di Elisabetta Galvani d’Onigo; e Matteo Gross e Antonio Ischik, al servizio di Accurti a Spinea): il Comitato di pubblica vigilanza, nell’approvare il rilascio dei passaporti, scrive che sono «ottimi giovani ma che non sono tollerati in campagna per la loro nazionalità» (ivi, p. 39). Alla metà di maggio la prefettura dell’ordine pubblico sconsiglia a un certo Leonardo Becker di trasferirsi dal Vicentino a Venezia, perché «‘il popolo verrebbe tosto sinistramente impressionato’ dal cognome di ‘difficile pronuncia’: e in quel periodo in città gli ‘eccessi popolari sopra persone supposte tedesche’ sono ‘frequenti’» (ivi, p. 39). Il fatto è che, in generale, sta montando un’ostilità aggressiva e indiscriminata nei confronti di coloro che sono, o sono considerati, «tedeschi»: sin dai primi di aprile, del resto, il capo della guardia civica, l’avvocato Bartolomeo Benvenuti, rifiuta la pubblicazione di un appello di Tommaseo «ai tedeschi», sostenendo che «a ragione od a torto i Tedeschi sono odiati in Italia. Quest’è un fatto incontrastabile. Chi dice bene di essi si oppone quindi ad un sentimento che può dirsi nazionale, e ciò parrebbe grave imprudenza» (ivi, p. 33).
L’ostilità colpisce non solo «tedeschi», ma anche persone di nazionalità italiana che abbiano sposato persone austriache (e quindi «tedesche») o identificate come «tedesche». Il suonatore girovago Giuseppe Costa, di 38 anni, originario di Asiago, è a Venezia da vent’anni. «Suona clarinetto, violino e mandolino. [Il 13 maggio 1848] sta ascoltando in piazza San Marco i racconti di alcuni soldati dello Stato pontificio, che dicono che gli italiani hanno vinto una battaglia dalle parti di Cornuda. Costa mostra piacere, come gli altri. Ma qualcuno dei presenti gli rinfaccia: ‘Cosa parlate voi che avete la moglie tedesca?’. La moglie, Maria Kuweina (in altre carte Kuhweiner), anche lei suonatrice girovaga, vive nelle province venete da sedici anni, ma è originaria della Carinzia». Costa reagisce, ma sta per essere aggredito dalla folla; a quel punto scappa e si rinchiude in casa. «Alcuni, che lo ritengono una spia del cessato governo austriaco, lo inseguono e cominciano a picchiare alla porta. Popolani: tra di loro un barcaiolo, un gondoliere e uno che lavora da un calzolaio». Vicino a casa del Costa c’è un commissariato di polizia. La gente va a chiamare i gendarmi, e Costa viene arrestato, «‘sia per garantirlo nella sua personale sicurezza, e sia perché non abbia coi suoi imprudenti discorsi a turbare l’ordine pubblico’. Costa dichiara al commissario di non poter più suonare per strada con la moglie ‘senza che vi sia alcuno, o più di uno, e vari individui appresso, i quali non li molestino e gl’insultino con invettive ed imprecazioni’, prendendo a pretesto la circostanza (circostanza ‘d’altronde innocente’ precisa Costa), che Maria non è ‘nazionale’: lui stesso viene preso per ‘tedesco’. I due suonatori, marito e moglie, chiedono e ottengono il passaporto sia per gli Stati sardi che per lo Stato pontificio» (ivi, pp. 39-40).
Tra gli stranieri ce ne sono anche diversi che non vorrebbero andarsene e che per questo chiedono la «‘cittadinanza’ o la ‘nazionalità’ italiana o veneta, sulla base dei requisiti che la legislazione austriaca richiedeva per l’ottenimento della cittadinanza, come i lunghi anni di residenza in Italia, l’aver esercitato una professione, la buona condotta. Gli autori delle istanze, tutti capifamiglia, aggiungono inoltre requisiti non previsti dalla legislazione austriaca, come ad esempio il matrimonio con una donna veneziana, i figli nati e cresciuti a Venezia, l’attaccamento alla città o all’Italia, la madre italiana. Ma il governo risponde che non c’è una normativa al riguardo […], e le istanze rimangono senza esito. Qualcun altro chiede di poter assumere il cognome materno, italiano: ma anche in questo caso il governo risponde di attendere ‘finché non siano fissate sicure norme’» (ivi, p. 37).
Ciò che a Venezia nel 1848 ancora non c’è, ovvero una legge sulla nazionalità e sulla cittadinanza, ci sarà invece, ovviamente, per il neonato Regno d’Italia. Ed è importante osservare come le norme adottate dal nuovo Stato-nazione traducano in forza di legge gli elementi mitografici che già nel 1848 veneziano hanno dispiegato tutta la loro forza performativa. La disciplina relativa alla nazionalità del Regno d’Italia viene fissata dagli articoli 5-10 del Codice civile approvato nel 1865. Tali norme prevedono, come regola fondamentale, che sia considerato cittadino chi è figlio di padre cittadino, indipendentemente dal luogo di nascita. Lo straniero nato all’estero può ottenere la cittadinanza italiana solo in seguito a naturalizzazione per legge o per decreto reale. Nelle situazioni intermedie – come per esempio nel caso del figlio di uno straniero nato sul territorio italiano – il codice prevede un meccanismo di attribuzione della cittadinanza che si fonda sul possesso di uno stabile domicilio sul territorio del Regno da parte del padre o del figlio, che può comunque essere corretto in un senso o in un altro dalla volontà del figlio. Quindi, nelle norme del Codice, se lo ius sanguinis è il criterio normativo fondamentale, lo ius soli non è disconosciuto: solo che interviene nella forma di un principio sussidiario, derivato dal primo. Quanto alla pura e semplice scelta, essa – come si è detto – è sottoposta al meccanismo della naturalizzazione, declinata, secondo la legislazione italiana, in due modalità, una «grande naturalità», che attribuisce allo straniero pieni diritti civili e politici, e una «piccola naturalità», che attribuisce diritti politici parziali (non il diritto di voto, in particolare). L’attribuzione della «grande naturalità», che viene concessa per legge con una norma approvata dal Parlamento, «sarà un fenomeno rarissimo: dall’Unità alla fine del secolo sono stati contati non più di undici provvedimenti (di cui sette nel solo 1888), riferiti a tredici destinatari» (Bersani 2007, p. 622). «La particolare chiusura verso l’esterno in tema di piene naturalizzazioni è probabilmente da porre in relazione a un concetto di cittadinanza, e di nazionalità, fortemente ancorato al vincolo dell’appartenenza familiare: per l’art. 4 del Codice civile del 1865 […] ‘è cittadino il figlio di padre cittadino’» (ivi, p. 625).
E dunque, il discorso nazionale sa dare un posto fondamentale all’esperienza della nascita, tanto da fondare intorno ad essa una concezione della nazionalità che dalla dimensione mitografica riesce a passare immediatamente sia al senso comune sia alla forza delle norme giuridiche. Tuttavia il discorso nazionale non si ferma lì, poiché è in grado di includere nel suo spazio mitografico anche le esperienze del dolore, della sofferenza e della morte. Al di là della cifra comune che appartiene a tutto il nazionalismo europeo, la connotazione mortuaria e dolorista del discorso nazional-patriottico italiano ha una semplice spiegazione nell’essere – specie alle origini – espressione di un movimento illegale di opposizione: la sofferenza, e non di rado la morte, sono esperienze necessariamente da prevedere per chi voglia militare in una forma o nell’altra all’interno di questo movimento; e in effetti è la sofferenza che accomuna in forme diverse i percorsi di Giuseppe Mazzini e Federico Confalonieri, Silvio Pellico e Amatore Sciesa, Alessandro Poerio e Enrico Napoleone Tazzoli, Tito Speri e Luigi Settembrini, e molti altri ancora. Genialmente, l’incorporazione della sofferenza nell’orizzonte valoriale del discorso risorgimentale avviene attraverso un calco diretto dalla tradizione cristiana. I termini chiave, in questo caso, sono «sacrificio» e «martirio», parole che riprendono in toto il significato originario che già hanno all’interno del lessico cristiano, proiettandolo tuttavia dalla dimensione puramente religiosa nel campo della semantica politica: in questa nuova declinazione, martire è colui che dà testimonianza della sua fede politica al resto della comunità che ancora attende di risvegliarsi, di capire il mistero dell’appartenenza nazionale e di partecipare con i militanti alle azioni necessarie perché sia restituita libertà e indipendenza alla nazione italiana da secoli caduta.
Perché l’azione degli eroi che si sacrificano per la patria abbia un senso, è necessario che tale azione sia ricordata, commemorata e costantemente portata a esempio. È necessario, quindi che si costruiscano riti della memoria, monumenti commemorativi, testi che traccino una mappa delle morti degne di essere ricordate. Proprio con questa esplicita finalità Atto Vannucci pubblica nel 1849 il primo volume di un libro intitolato I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, strutturato come una lunga galleria di episodi di eroismo patriottico significativamente inclusi nell’arco di tempo che va dal periodo giacobino fino alla rivoluzione nazionale. Nell’Introduzione, riassumendo il senso del suo lavoro, Vannucci stringe un nesso diretto tra i martiri della patria e i martiri cristiani:
I frutti della libertà che ora da noi s’incominciano a cogliere, furono seminati e coltivati con lunghi dolori dai nostri padri e dai nostri fratelli. Non vi è carcere che non sia stato santificato dalla presenza e dai patimenti degli uomini più generosi: non vi è paese straniero che non fosse pieno di esilii, che non vedesse le italiane sciagure: in Italia non vi è palmo di terra che non fosse bagnato dal sangue dei Martiri della Libertà. E la sciagura e il martirio furono perpetui tra noi e i padri li lasciarono ai figliuoli, i quali arditamente accettarono l’eredità e la tramandarono alla generazioni novelle. Gli uomini italiani in ogni tempo protestarono, morendo, contro la tirannide che opprimeva la patria: morirono fermamente credendo che il loro sangue fosse fecondo di libera vita ai futuri. Né gli uomini soli affrontarono le barbare ire dei despoti: anche il sesso che chiamano debole entrò nella lotta: anche le donne salirono impavide sui patiboli dei tiranni, e caddero santi olocausti della causa del vero.
Come in molte altre cose, anche nel martirio l’Italia va innanzi ad ogni altra nazione. In niun altro luogo la libertà non contò tante e sì nobili vittime. In Italia infinito è il numero di quelli che scelsero la sventura vivendo, e che animosamente morirono per servire alla patria.
I martiri della religione cristiana dicevano ai loro carnefici: Voi volete distruggerci, e non avete forza né modo di venire a capo del vostro disegno. Noi coltiviamo i vostri campi, noi sediamo nei vostri tribunali e nei vostri consigli, noi combattiamo nei vostri eserciti, noi popoliamo le vostre città e le vostre campagne, noi siamo legioni: lo stesso potevano dire, e hanno detto in Italia i martiri della libertà: essi erano in tutte le classi, in tutte le condizioni sociali: erano fra i magistrati, fra i sacerdoti: erano nei palazzi e nelle capanne, e dappertutto combattevano strenuamente per lo stesso principio, e confermavano l’ardente fede col sangue (Vannucci 1849, pp. 5-6).
Aurelio Saffi, che nel 1850 recensisce entusiasticamente il libro di Vannucci su «L’Italia del Popolo», nell’Introduzione alla sua Storia di Roma dal Giugno 1846 al 9 Febbraio 1849, scritta tra il 1849 e il 1852, afferma:
La sola fede superstite in Italia, o per dir meglio la fede novellamente surta sulle rovine delle vecchie superstizioni, è la fede nella vita e nei destini della Nazione; nel progresso sociale della Umanità; in Cristo vivente nel popolo e nelle aspirazioni patrie: fede confessata e suggellata col sangue da migliaia di martiri. Quando alcuni monaci entrarono nella cappella delle carceri di Cosenza, dove i fratelli Bandiera e i loro compagni aspettavano sereni l’ora del supplizio, Attilio, il maggiore de’ fratelli, indirizzò loro queste parole: “Noi abbiamo praticata la legge del Vangelo e cercato di propagarla a prezzo del nostro sangue fra i redenti di Cristo; abbiam fede di essere raccomandati a Dio meglio dalle nostre opere che dalle vostre parole, e vi esortiamo a serbarle per predicare agli oppressi la religione della libertà e della eguaglianza”. E Anacarsi Nardi, altro de’ martiri, al frate che gli mostrava il Crocefisso addimandandogli se ne avesse conoscenza, rispose: “Lo conosco, lo confesso, lo adoro; ma respingo voi che siete strumento della tirannide, e guastate il suo santo Vangelo”. È questa la fede che ha fornito alla storia patria tanti magnanimi esempî, tanti sacrificî, tante morti fortissime. In chi moriva e in chi rimaneva a piangere, a fremere, a sperare, erano accanto a quella fede immortali l’odio e il disprezzo contro le cagioni della nostra impotenza e della nostra sventura (Saffi 1893, pp. 2-3).
Non sono che due esempi di una costante lettura martirologica e cristologica delle azioni dei militanti, dispersa in ogni angolo della costellazione comunicativa nazional-patriottica. Indubbiamente al centro di questa buona novella politica campeggia l’eroe per antonomasia del Risorgimento, Garibaldi. Una litografia risalente al 1850, che rappresenta l’eroe in sembianze di Cristo benedicente, illustra bene il senso della rilettura cristologica della figura dell’eroe: Giuseppe Garibaldi, che ha combattutto eroicamente, ma senza successo, per la difesa della Repubblica romana del 1849, e nel corso della successiva fuga ha tragicamente perduto la moglie Anita, è ritratto come un Cristo patriottico, bello e triste perché sofferente (la mano benedicente porta, con grande evidenza, il segno delle stimmate). In questo caso – esemplare del funzionamento del discorso nazionalistico – l’operazione è particolarmente potente perché vuole stabilire un nesso diretto tra l’epopea del nazionalismo risorgimentale e la cristologia, una soluzione mitografica che negli anni seguenti non abbandona più Garibaldi. Giovanni Visconti Venosta così ricorda il suo arrivo in Valtellina nel 1859, al quale lui stesso ha assistito:
Il fascino che Garibaldi fin d’allora esercitava sulle moltitudini era meraviglioso, alle volte pareva quasi inconcepibile, e meritava di essere osservato e studiato. Garibaldi, quando attraversava un paese, sebbene allora non portasse la camicia rossa, non si sarebbe detto che fosse un generale, ma il capo d’una religione nuova, seguito da turbe fanatiche. Né meno degli uomini erano entusiaste le donne, che portavano perfino i loro bambini a Garibaldi perché li benedicesse, o perfino li battezzasse! (Visconti Venosta 1959, p. 368).
Giuseppe Cesare Abba ha questo ricordo di Garibaldi a Palermo il 31 maggio 1860: «Il Generale ha fatto un giro per la città, dove ha potuto passare a cavallo. La gente si inginocchiava, gli toccavano le staffe, gli baciavano le mani. Vidi alzare i bimbi verso di lui come a un santo. Egli è contento» (Abba 1979, p. 70). Ippolito Nievo racconta all’amico Attilio Magri un episodio avvenuto nel corso dell’impresa dei Mille, a Cascina Vita:
Qui il generale era rimasto “commosso alla scena fattagli da un frate il quale, essendosigli prostrato dinnanzi cogli occhi rivolti al cielo, ringraziava Iddio di avergli concesso di vedere il Salvatore della patria, il nuovo Gesù dei popoli sofferenti; chiedendo poi al Generale che gli concedesse di seguirlo in sostituzione di Ugo Bassi già martire, per confortare colla parola quelli che cadevano senza la soddisfazione di assistere al completo trionfo della risorta nazione” (Bertolotti 1998, p. 174).
Tutte queste immagini evocano una dimensione sacrale che effettivamente appartiene al discorso risorgimentale, così come all’immaginario garibaldino. Garibaldi, indubbiamente, ha un’aura di santità intorno a sé. Ma – come quella di altri «santi nazionali» – la sua santità ha caratteri peculiari, che ne fanno qualcosa di diverso dalla tradizionale santità cristiana. Nel culto cristiano il santo è un individuo che si è distinto per una vita eccezionale, di sacrificio, dedizione e martirio; la sua sofferenza ha un valore testimoniale, e può culminare in una morte violenta, sofferta per difendere la propria fede o la propria purezza; ma la sua santità può anche esser provata da un «martirio incruento», cioè da una vita di sofferenza sacrificale, consacrata alla venerazione e all’imitazione di Cristo. La memoria delle sofferenze e della morte danno un senso al culto dei santi che ha un carattere eminentemente funerario: oggetto di devozione sono tanto le tombe dei santi, quanto le loro reliquie. Il senso di queste pratiche cultuali sta nella possibilità di restare in contatto col santo, al quale è attribuito il fondamentale compito di mettere in relazione terra e cielo, devoti e divinità.
Di questo universo di segni, un «santo nazionale» come Garibaldi conserva soprattutto un aspetto importante: la possibilità di intrattenere un rapporto privilegiato con la morte e con la sofferenza. La sua familiarità con la morte è consacrata da una vita contrassegnata da un’incessante disponibilità al sacrificio. «La sua carne sofferente, l’intenso travaglio mentale, le energie spese senza risparmio per la causa nazionale, le ferite e il dolore per la perdita di Anita (l’amore romantico), e gli altri dolori privati, sono dati come equivalenti al martirio» (Mengozzi 2008, p. 37). È questo martirio di tutti i giorni, per così dire, che, insieme alla sua moralità, alla sua bellezza, alle sue qualità di condottiero, eleva Garibaldi al di sopra dei suoi contemporanei (Riall 2007). E allora, il suo tocco diventa una benedizione che secondo alcuni può indirizzare verso una vita integra e gloriosa. Essere toccato da qualche reliquia che lo riguarda, o possederne una, è essere più vicino a lui, alle sue nobili qualità, che possono riverberarsi positivamente sul possessore. Morire al suo fianco dà diritto ad essere ricordati e onorati.
Tutti questi aspetti avvicinano un «santo nazionale» come Garibaldi al mondo dei santi cristiani. Ma ciò nonostante la «santità nazionale» si differenzia profondamente dalla santità cristiana per un aspetto cruciale: un «santo nazionale» non funge da mediatore tra un presente e un aldilà nel quale si entra in contatto con la divinità, giacché la dimensione metafisica è del tutto assente dal discorso politico nazionalista. Cosa sono, allora, i «santi nazionali» per i loro «devoti»? Sono soprattutto degli specchi in cui i devoti possono riflettere la propria immagine, modelli a cui possono uniformare il proprio comportamento. La relazione comunicativa che figure come quella di Garibaldi attiva con i suoi seguaci non è rivolta a un’alterità metafisica (devoti→santo→divinità), ma si riflette immediatamente sulla stessa comunità (devoti→«santo nazionale»→devoti). Ed è a questa stessa logica che risponde la celebrazione visiva di figure come quella di Garibaldi e di altri «santi nazionali», attraverso la disseminazione postunitaria di statue che li ricordano – dopo la loro morte – in ogni piazza d’Italia.
La rappresentazione visiva, scultorea, pittorica o fotografica ha la funzione di evocare una presenza lontana. All’origine dell’esperienza artistica – com’è noto – c’è il bisogno di conservare la presenza della persona morta. E proprio questo è il senso delle rappresentazioni grafiche o scultoree degli eroi patriottici, che si diffondono dovunque nelle città italiane del tardo Ottocento. Anche in questo caso il paradigma della santità nazional-patriottica si discosta dai culti cristiani. Nella tradizione cristiana, infatti, solo eccezionalmente il corpo del santo (statua o reliquia) esce dai luoghi deputati alla sua conservazione, per muoversi all’interno della comunità di riferimento: le rappresentazioni del santo escono dagli ambienti che gli sono riservati solo in momenti particolari, nel corso di speciali liturgie periodicamente ripetute, processioni, speciali festività. Qualcosa di diverso avviene con i «santi nazionali», come Garibaldi, o come altri importanti «padri della patria», primo fra tutti Vittorio Emanuele. La loro figure corporee, rappresentate attraverso sculture quanto più realistiche possibile, sono collocate nelle piazze cittadine, come una presenza permanente all’interno dello spazio dei vivi, in luoghi non esclusivamente riservati al culto della santità o ai riti funebri. Detto in altri termini: le statue di Garibaldi come quelle degli altri «padri della patria» che dagli anni Ottanta dell’Ottocento popolano le città italiane, sono rappresentazioni funebri che escono dai cimiteri per entrare a far parte in modo permanente della comunità dei vivi. Devono farlo, perché l’ideologia nazional-patriottica vuole che i cittadini di una comunità nazionale abbiano costantemente davanti ai loro occhi l’esempio sublime dei grandi della patria, così da poterli adeguatamente imitare. In tal modo, anche dopo la morte del «santo nazionale» si conserva il circuito semiotico che sembra essergli tipico (devoti→«santo nazionale»→devoti).
I toni esplicitamente religiosi di queste rivisitazioni della cristologia, dei martirologi e dell’esperienza della santità contribuiscono a dare un’aura di religiosità all’intero discorso nazionale, il cui lessico si arricchisce ben presto di una pluralità di altri termini che rinviano sistematicamente alla tradizione cristiana: è così che le guerre nazionali si trasformano in «guerre sante» o «crociate»; l’azione di propaganda diventa «apostolato»; la rinascita della nazione diventa «resurrezione» (questo il senso etimologico originario del termine «Risorgimento»); e le convinzioni politiche diventano espressione della propria «fede». Tuttavia, la rivisitazione di forme cultuali della tradizione cristiana che è connaturata al discorso nazionale e alla costruzione del martirologio risorgimentale non equivale a una pura e semplice copia. È, piuttosto, un’operazione di calco e trasposizione: i leader e i militanti risorgimentali si impossessano di frammenti discorsivi, rituali e liturgici di quella tradizione; ma il nuovo culto dei «santi della nazione» viene fondato su riti e su sistemi di valore che hanno una logica propria, distinta da quella della santità cristiana.
Il discorso nazionale, dunque, non si ritrae davanti ad argomenti impegnativi come la nascita, la discendenza, la sofferenza e la morte; anzi ne fa elementi essenziali della sua tessitura mitografica. Che non rifugge nemmeno dal compito di stabilire compiti differenziati per gli uomini e le donne della nazione, né dall’esigenza di stabilire le norme di una corretta riproduzione sessuale della comunità.
Per quel che riguarda la mappatura dei compiti di uomini e donne, il discorso risorgimentale è del tutto coerente con l’impianto complessivo che appartiene all’universo della rispettabilità ottocentesca: gli uomini calcano la scena pubblica, occupandosi di politica, ove necessario armi alla mano; le donne, caste e onorate, stanno a casa a occuparsi dell’economia domestica e dell’educazione dei figli. Valido per tutto il nazionalismo ottocentesco, questo tipo di retorica assume caratteri particolarmente acuti nel caso italiano, dove gli intellettuali e i leader nazionalisti devono combattere il duplice stereotipo che i viaggiatori e le viaggiatrici di altri paesi europei hanno proiettato sulla società italiana sin dall’epoca moderna, descrivendola come composta di uomini che non si sanno battere e di donne di scarsa virtù e di facili costumi.
Ma, al di là di questo aspetto, pure importante, colpisce la costante presenza nelle narrazioni nazional-patriottiche, di intrecci che descrivono scene di aggressione sessuale tentata o consumata da parte di stranieri o di traditori della patria a danno di caste e pure eroine della nazione. A guardare con attenzione, narrazioni di questo genere non possono sorprendere più di tanto. Sin dal cuore dell’età moderna le storie di Lucrezia e di Virginia si impongono come modelli narrativi che descrivono l’estremo limite dell’abiezione a cui si spingono i tiranni i quali, non paghi di aver sottratto la libertà alla comunità su cui dominano, le vogliono sottrarre anche l’onore. Il tema, nel corso del XVIII secolo, è stato rilanciato con un grandissimo successo da due romanzi di Samuel Richardson, Pamela e Clarissa, in cui la polemica politica di stampo repubblicano si colora di evidenti risonanze sociali: obiettivo della critica qui non sono tanto i tiranni, ma i nobili libertini, degenerati e immorali, alle prese con giovani popolane o borghesi che essi tentano in tutti i modi di aggredire e disonorare. Nel corso del XIX secolo queste narrazioni vengono – per così dire – «nazionalizzate»: i tiranni o i nobili libertini si trasformano negli stranieri o (variante specificamente italiana) nei traditori, che cercano di insozzare tutta una galleria di caste «figlie e nipoti» di Lucrezia, Virginia, Pamela e Clarissa. E sarà solo il caso di ricordare brevemente che il romanzo dei romanzi dell’Italia dell’Ottocento, I promessi sposi, gira intorno a una macchina narrativa che ha al suo centro proprio la fantasia e il progetto di stupro di Don Rodrigo ai danni di Lucia. Ciò che nel romanzo manzoniano non appare in primo piano, e cioè la morale nazional-patriottica, appare con grande evidenza in altre narrazioni. Si prenda per esempio un romanzo di Massimo d’Azeglio, Niccolò de’ Lapi, pubblicato nel 1841. La storia è ambientata nel 1530, nella Firenze repubblicana assediata dagli imperiali e dai soldati del papa mediceo Clemente VII. Laudomia – bella e castissima figlia di Niccolò de’ Lapi, uno degli eroici difensori della libertà fiorentina – è promessa sposa di Lamberto, un giovane e valoroso combattente repubblicano. La sorella di Laudomia, Lisa, è stata sedotta da Troilo degli Ardinghelli, un traditore filo-mediceo, che ha finto di sposarla, l’ha messa incinta e ha anche finto di ripudiare la propria fede medicea, per farsi accogliere nel palazzo di Niccolò de’ Lapi e poter spiare dall’interno le mosse dei repubblicani. Troilo, che col passare del tempo si è stancato di Lisa, oltre a svolgere la sua funzione di spia, mette gli occhi su Laudomia, che diventa una parte della sua ricompensa per il lavoro di informatore degli imperiali. Dopo la sconfitta di Firenze, mentre Niccolò e i suoi sono a Gavinana, in fuga verso Genova, Troilo allestisce una trappola e li fa catturare tutti. Niccolò e Lisa sono rimandati a Firenze come prigionieri. Troilo, invece, si porta con sé Laudomia in un castello vicino, e solo il provvidenziale intervento di Lamberto, lo sposo di Laudomia, può salvare la donna dalla violenza che Troilo si stava preparando ad usarle: «Il traditore, al punto ch’erano entrati, si trovava a mezzo la stanza, discosto da Laudomia, la quale stava sul davanzale del [pozzo] aperto, in atto di volervisi buttare, ed assai appariva che lo sciagurato, perduta ogni speranza di venir a capo del suo disegno in altro modo che colla violenza, avea ridotto quell’infelice a quest’ultima disperata difesa» (d’Azeglio 1966, p. 642). Il gioco narrativo qui si incentra sull’abiezione delle divisioni intestine, un tema che ha un’evidente importanza per i patrioti italiani risorgimentali, mentre in altri casi la narrazione ha uno sviluppo più lineare, e l’abietto aggressore dell’onore delle fanciulle italiche è – prevedibilmente – lo straniero di turno, brutale e spietato.
L’intreccio sesso-violenza che connota storie come queste stimola sicuramente interesse e attenzione nel pubblico dei lettori. Ma nel complesso ancora più impressionanti sono le storie in cui si raccontano gli effetti non tanto di bestiali aggressioni, quanto di matrimoni misti, realizzati o temuti. E così, per esempio, Giovanni Berchet ambienta una poesia del 1824, Il rimorso, in un giardino pubblico di una qualche città del Lombardo-Veneto, dove donne e uomini chiacchierano amabilmente e dove numerosi bambini giocano. In un angolo, isolata, c’è una donna. Nessuno le rivolge la parola. Con lei c’è un bambino biondo. Nessuno gioca con lui. Quella è una donna che si è sposata con un soldato austriaco. Quello è il figlio avuto dal soldato. Per questo il resto della comunità li emargina:
Se un ignaro domanda al vicino
Chi sia mai quella mesta pensosa
Che su i ricci del biondo bambino
La bellissima faccia riposa;
Cento voci risposta gli fanno,
Cento scherni gl’insegnano il ver:
“È la donna d’un nostro tiranno,
È la sposa dell’uomo stranier”.
Ne’ teatri, lunghesso le vie,
Fin nel tempio del Dio che perdona,
Infra un popol ricinto di spie,
Fra una gente crucciata e prigiona,
Serpe l’ira d’un moto sommesso
Che il terrore comprimer non può:
“Maledetta chi d’italo amplesso
Il tedesco soldato beò!” (Berchet 1992, pp. 270-271).
Presentato il contesto, la prospettiva narrativa cambia, e si ascolta la donna che parla tra sé. È inquieta. Vorrebbe che il marito fosse presto di ritorno. Ma al tempo stesso, è divorata da un rimorso che non le dà pace:
Trista me! Qual vendetta di Dio
Mi cerchiò di caligine il senno,
Quando por la mia patria in obblio
Le straniere lusinghe mi fenno?
Io, la vergin ne’ gaudj cercata,
Festeggiata – fra l’Itale un dì,
Or chi sono? L’apostata esosa
Che vogliosa – al suo popol mentì.
Ho disdetto i comuni dolori;
Ho negato i fratelli, gli oppressi;
Ho sorriso ai superbi oppressori;
A seder mi son posta con essi.
Vile! un manto d’infamia hai tessuto:
L’hai voluto, – sul dosso ti sta;
Né per gemere, o vil, che farai,
Nessun mai – dal tuo dosso il torrà (ivi, p. 272-273).
La donna sente di meritare il castigo che si sta abbattendo su di lei, sente di meritare il disprezzo degli altri, e non vede possibilità alcuna per scampare dallo stato di emarginazione al quale la sua colpa – peggiore perfino del tradimento – la condanna.
Anche più chiaramente emerge il senso di queste narrazioni in Matilde, inclusa nella stessa raccolta poetica di Berchet. All’inizio ci viene presentata questa ragazza italiana profondamente immersa nel sonno. Matilde sogna, ma il sogno ben presto si trasforma in un incubo che la sveglia di soprassalto, sconvolta e sudata: si vede destinata dal padre a sposare un soldato austriaco e lei non vuole per nessun motivo; è disperata, perché quella è una sorte che lei ritiene terrificante, e così, nel momento culminante della narrazione, Matilde immagina di rivolgersi al padre per dirgli:
Rammenta chi è desso,
L’Italia, gli affanni;
Non mescer l’oppresso
Col sangue oppressor.
Fra i servi e i tiranni
Sia l’ira il sol patto.
A pascersi d’odio
Que’ perfidi han tratto
Fin l’alme più vergini
Create all’amor (ivi, p. 278).
Qua il punto chiave è dato dall’invocazione della disperata ragazza, che prega il padre di «Non mescer l’oppresso / Col sangue oppressor»: tutto lo spessore biopolitico della concezione risorgimentale della nazione appare qui in assoluta evidenza. Se la nazione è una comunità naturale cementata dal sangue, è necessario che la riproduzione di quella comunità segua linee genealogiche corrette, non turbate da degradanti commistioni etniche che mettano in discussione la purezza della discendenza nazionale, producendo inquietanti ceppi meticci.
Narrazioni impostate su storie di questo genere invitano la comunità nazionale a considerare che l’oppressione straniera, la divisione, la subordinazione a tiranni equivalgono alla perdita non solo della libertà, ma dell’onore, del rispetto di sé, del senso più profondo del meccanismo di riproduzione biopolitica, dell’integrità psicofisica delle donne della nazione e della capacità di protezione che gli uomini della nazione dovrebbero saper mettere in campo. I termini complessivi della questione sono esplicitati ancora da Massimo d’Azeglio, che nel suo Niccolò de’ Lapi fa pronunciare a uno degli eroi positivi della sua storia, Lamberto, un discorso pieno di esagitato pathos patriottico. Il compito di Lamberto non è facile: nell’esercito imperiale che assedia Firenze ci sono mercenari tedeschi, spagnoli, italiani e lui cerca di convincere questi ultimi ad unirsi ai fiorentini e combattere insieme per la libertà della città e dell’Italia:
Ma ditemi, perdio! […] ditemi! andiamo noi nei paesi loro a vivere a discrezione, a rubarli, a vituperar le loro donne, a scannarli, a sollevarli con mille trappole, e metterli in discordia gli uni contro gli altri, come s’aizzano i mastini pel gusto di vederli sbranarsi? […] Ma per Cristo, la terra dove siam nati, dove son sepolti i nostri padri, è roba rubata? è roba del comune? […] siamo bastardi? siamo bestie? … Lo volete sapere? senza avvertirlo, ve l’ho detto io quello che siamo! Siamo bestie, e peggio che bestie! ché anco i bruti, se si voglia disturbarli nella loro tana, si difendono e adoprano l’ugna e ’l dente, e non badano se ’l nemico sia maggior di loro … e non potranno gli uomini far almeno altrettanto? … E non mi vengano a dire che son più valenti di noi! Gli uomini son tutti compagni, e solo i cattivi ordini, le male usanze li corrompono e li rendon diversi … e in prova, quante volte s’è avuto a far con loro a buona guerra, corpo a corpo, chi n’ha toccate? loro o noi? ed ecco là … – disse accennando a Fanfulla, che avea scorto nella folla. […] – Fanfulla, che era de’ tredici di Barletta, lo dica egli … come andò la cosa? Chi vinse …? […] Non son più valenti dunque, ma più astuti … o per dir meglio, essi son tristi ed astuti, ché sanno seminar la discordia tra noi e consumarci colle nostre armi medesime (d’Azeglio 1966, pp. 590-591).
Sette anni più tardi, nel novembre del 1848, in tutt’altro contesto comunicativo, Mazzini impiega accenti simili nel suo drammatico appello Ai giovani, a testimonianza della pervasività e della circolarità delle figure mitografiche che strutturano il discorso nazional-patriottico risorgimentale:
Perché, è forza dirlo, noi viviamo disonorati: disonorati, o giovani, in faccia a noi stessi, in faccia all’Austria, in faccia all’Europa. Nessun popolo in Europa, della Polonia in fuori, soffre gli oltraggi che noi soffriamo: nessun popolo sopporta che una gente straniera, inferiore di numero, d’intelletto, di civiltà, rubi, saccheggi, arda, manometta ferocemente a capriccio un terreno non suo, trascini altrove, colla coscrizione, a farsi complici di delitti e stromenti di tirannide, giovani non suoi; contamini di violenze, di battiture donne non sue, uccida per sospetto o disonori col bastone cittadini di patria non sua. E nessun popolo – io lo dirò comeché suoni ingratissimo a me che scrivo e a quanti mi leggono – nessun popolo ha più di noi millantato odio al barbaro, valore italiano, potenza di desiderio, e furore d’indipendenza. […].Voi potete sagrificare per alcuni anni la libertà, la vittoria d’una idea; ma non per un giorno l’onore. Un popolo non deve, non può rassegnarsi ad esser creduto dagli stranieri millantatore e codardo (Mazzini 1923, pp. 292-293, 295).
Ecco: descrivere in questo modo la comunità nazionale e l’azione politica che è necessario fare per essa, significa presentare il tutto con tratti di plausibilità molto forti, poiché su una proposta politica enormemente innovativa si proiettano valori e simboli molto ben radicati nella mentalità diffusa all’inizio del XIX secolo. Chiunque, infatti, capisce subito di cosa si parla se si dice che la nazione è una «famiglia» e che perciò i suoi membri sono «fratelli», legati dal «sangue» e dal «cor»; proiettare nello spazio della nazione il valore dell’onore (gli uomini combattono e difendono la rispettabilità delle proprie donne) è ricorrere a una passione che all’epoca è profondamente radicata, una passione per la quale non si esita a combattere dei duelli; associare l’ideologia nazionale a specifici simboli della tradizione cristiana significa presentare la nazione con i caratteri di un linguaggio che tutti conoscono e quasi tutti apprezzano.
Né sono temi che si perdono, a Risorgimento compiuto. Nel 1886 in un romanzo di grande successo, Cuore, destinato alla formazione delle giovani generazioni, Edmondo De Amicis riassume costantemente i termini della questione utilizzando espressioni e figure che di nuovo ripercorrono la mitografia e la simbologia del discorso risorgimentale. Ecco, per esempio, come il padre di Enrico Bottini – il piccolo protagonista del romanzo – spiega al figlio che cosa sia l’amor di patria:
Poiché il racconto del Tamburino t’ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d’esame: – Perché amate l’Italia? Perché amo l’Italia? Non ti si son presentate subito cento risposte? Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano. Oh tu non puoi ancora sentirlo intero quest’affetto! Lo sentirai quando sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del bastimento, vedrai all’orizzonte le grandi montagne azzurre del tuo paese; lo sentirai allora nell’onda impetuosa di tenerezza che t’empirà gli occhi di lagrime e ti strapperà un grido dal cuore. Lo sentirai in qualche grande città lontana, nell’impulso dell’anima che ti spingerà tra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto, dal quale avrai inteso, passandogli accanto, una parola della tua lingua. Lo sentirai nello sdegno doloroso e superbo che ti getterà il sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca d’uno straniero. Lo sentirai più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d’un popolo nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere armi d’ogni parte, i giovani accorrere a legioni, i padri baciare i figli, dicendo: – Coraggio! – e le madri dire addio ai giovinetti, dicendo: – Vincete! – Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di vedere rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato di valorosi che leveranno in alto le teste bendate e i moncherini, in mezzo a una folla pazza che li coprirà di fiori, di benedizioni e di baci. Tu comprenderai allora l’amor di patria, sentirai la patria allora, Enrico. Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l’anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t’accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t’accoglierei con un singhiozzo d’angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore.
tuo padre
(De Amicis 1993, pp. 75-76)
La famiglia; il sangue; il suolo; la cultura; le emozioni; la guerra; il sacrificio: ancora gli elementi che contribuiscono a formare l’idea di nazione del Risorgimento continuano a vivere nella pagina torbida e palpitante di De Amicis, in termini che quasi sembrano tratti di peso da qualche testo preunitario. C’è qui la testimonianza di una continuità dei miti e dei simboli del Risorgimento, che appartengono anche al discorso pubblico dell’Italia unita. È un continuità che mostra di nuovo quanto sia stata potente la macchina comunicativa costruita dagli intellettuali e dai leader risorgimentali per immaginare e narrare la nazione, e per convincere molte centinaia di migliaia di uomini e donne che per essa valeva la pena di sacrificarsi, soffrire, e persino morire.
G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, in Scrittori garibaldini, 1° vol., a cura di G. Trombatore, Einaudi, Torino 1979, pp. 41-180.
A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.
Ch.A. Bayly, E.F. Biagini (eds.), Giuseppe Mazzini and the Globalisation of Democratic Nationalism (1830-1920), Oxford University Press, Oxford 2008.
G. Berchet, Lettera semiseria. Poesie, a cura di A. Cadioli, Rizzoli, Milano 1992.
C. Bersani, Cittadinanze ed esclusioni, in Storia d’Italia. Annali, 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Einaudi, Torino 2007, pp. 607-634.
M. Bertolotti, Le complicazioni della vita. Storie del Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1998.
G. Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1983.
P. Brunello, Austriaci a Venezia, in Fratelli di chi. Libertà, uguaglianza e guerra nel Quarantotto asburgico, a cura di S. Petrungaro, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2008, pp. 17-40.
A. Castellani, Quanti erano gli italofoni nel 1861?, «Studi Linguistici Italiani», 1982, 1.
F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Bari 1961.
M. d’Azeglio, Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni, in Tutte le opere letterarie di M. d’Azeglio. Romanzi, a cura di A.M. Ghisalberti, Mursia, Milano 1966.
E. De Amicis, Cuore, Feltrinelli, Milano 1993.
F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il «partito d’azione». 1830-1845, Feltrinelli, Milano 1974.
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1963.
E. Francia, «Il nuovo Cesare è la patria». Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano, in Storia d’Italia. Annali, 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Einaudi, Torino 2007, pp. 423-450.
V. Gioberti, Del Primato morale e civile degli Italiani, 1° vol., a cura di U. Redanò, Bocca, Milano 1938.
P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes. 1789-1815 [1910], Slatkine Reprints, Genève 1977A.
E. Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1991.
A. Manzoni, Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi e P. Azzolini, Marsilio, Venezia 1992.
G. Mazzini, Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia, in Id., Scritti editi ed inediti, 2° vol., Galeati, Imola 1907.
G. Mazzini, Ai giovani. Ricordi, in Id., Scritti editi ed inediti, 38° vol., Galeati, Imola 1923.
G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, in Id., Scritti editi ed inediti, 69° vol., Galeati, Imola 1935.
D. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2008.
D. Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, in Storia d’Italia. Annali, 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Einaudi, Torino 2007, pp. 451-478.
G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), il Mulino, Bologna 1975.
A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Guida, Napoli 1992.
L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007.
A. Saffi, Storia di Roma dal Giugno 1846 al 9 Febbraio 1849, in Id., Ricordi e scritti, 2° vol., 1846-1848, Barbèra, Firenze 1893.
C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, il Mulino, Bologna 2001.
R. Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Roma-Bari 2000.
A. Vannucci, I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, 1° vol., Poligrafia Italia, Livorno 1849.
G. Verdi, Tutti i libretti d’opera, 1° vol., Newton Compton, Roma 1996.
G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute (1847-1860), a cura di E. Di Nolfo, Rizzoli, Milano 1959.