mito
Si potrebbe dubitare che M. percepisse una reale differenza tra le figure del m. classico (le «favole degli antichi») e i personaggi della più remota storia greca e romana. L’autore dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio è, infatti, esplicito nel negare attendibilità ai racconti degli antichi, quando essi si spingano molto indietro nel tempo, «come interviene alla istoria di Diodoro Siculo che, benché e’ renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è riputato, come io credo che sia, cosa mendace» (Discorsi II v 11). Inoltre una certa unitarietà nel suo trattamento del m. è ravvisabile, senza perciò commettere anacronismi o forzature, e risiede, da un lato, nel tenace tentativo di riportare tali racconti al loro nocciolo storico, dall’altro, nel loro uso a fini di critica della condotta politica e militare dei ‘moderni’.
In Discorsi II xii, celebre esempio di disputatio in utramque partem, viene data voce a due opposte argomentazioni: «S’egli è meglio, temendo di essere assaltato, inferire o aspettare la guerra». È noto come M. risolva il dilemma, introducendo una «distinzione»:
quel principe che ha i suoi popoli armati ed ordinati alla guerra, aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare. Ma quello che ha i suoi sudditi disarmati e il paese inusitato alla guerra, se le discosti sempre da casa il più che può. E così l’uno e l’altro, ciascuno nel suo grado si difenderà meglio (Discorsi II xii 31-33).
Tra i partigiani della tesi secondo cui sarebbe più utile allontanare il nemico da casa, vengono «allegati», oltre agli esempi della storia antica (gli Ateniesi) e i «giudicii moderni» (Alfonso re di Napoli), anche le «favole poetiche»:
Chi parla al contrario [...] allega le favole poetiche dove si mostra che Anteo re di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo aspettò dentro a’ confini del suo regno; ma, come ei se ne discostò per astuzia di Ercole, perdé lo stato e la vita. Onde è dato luogo alla favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava le forze da sua madre che era la Terra; e che Ercole, avvedutosi di questo, lo levò in alto e discostollo dalla terra (Discorsi II xii 7-11).
L’interpretazione razionale del mito di Ercole, per esemplificare un comportamento politico, non manca di precedenti. Ercole era, infatti, un personaggio legato alla storia di Firenze, di cui era considerato tra i mitici fondatori, e campeggiava, con il giglio e il leone, nello stemma cittadino (cfr. S. Carrai, Morgante e il mito di Ercole, in Id., Le muse dei Pulci. Studi su Luca e Luigi Pulci, 1985, pp. 95-112). Il carattere allegorico delle fatiche di Ercole era già un topos nella Firenze del 14° e 15° sec., essendo stato già trattato nelle Genealogiae deorum gentilium da Giovanni Boccaccio – che faceva risalire l’interpretazione allegorica al mitografo Teodonzio, autore probabilmente inventato da Boccaccio stesso –, da Coluccio Salutati nel De laboribus Herculis, da Matteo Palmieri nella Vita civile e da Cristoforo Landino nelle Disputationes Camaldulenses, per finire con una lettera di Marsilio Ficino a Giovanni Nesi del 1477 (cfr. F. Bausi, Politica e cultura nel “Commento al Trionfo della Fama” di Jacopo Bracciolini, «Interpres», 1989, 9, pp. 64-149, in partic. pp. 106-13). In particolare, proprio dalle Genealogiae boccacciane sembra dipendere il giudizio di M., che probabilmente conobbe il testo attraverso il commento di Landino (→) a Inferno xxxi 118-20:
Anteo fu figluolo della terra, forte et ismisurato; combatté con Hercole, et ogni volta che Hercole lo gittava a terra, la terra rinnuovava le forze al suo figluolo Anteo. Ma finalmente Hercole lo sospese da terra et arrecosselo in sul pecto et tanto lo strinse che lo fece crepare. [...] Theodontio scrive che Hercole con l’exercito più volte gli tolse el regno; ma chome Hercole s’era partito lui d’e luoghi vicini ripiglava le forze et racquistava el regno, ma finalmente fingendo Hercole di fuggire lo conduxe molto di lontano, et poi a un tracto rivoltosi lo vinse et uccise (cit. in Discorsi, a cura di F. Bausi, 2001, p. 377 nota 31, con le avvertenze prudenziali di M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1998, p. 84).
Risulta invece del tutto inedita l’interpretazione machiavelliana del legame filiale con la terra nel senso politico della necessità da parte di Anteo (per M., re di Libia e non gigante) di non abbandonare la propria terra.
Un’analoga elaborazione del m. si ha nel caso celeberrimo del centauro Chirone:
Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile (Principe xviii 4-6).
Il movimento è analogo al caso precedente: «onde è dato luogo alla favola...», «il che non vuole dire altro...». Si riporta un episodio mitico e se ne svolge un’interpretazione razionale.
Un uso parzialmente diverso di personaggi mitologici si ha a proposito della figura di Circe nell’Asino, poema satirico incompiuto, che, a dispetto del titolo, è debitore di Plutarco più che di Apuleio. In esso, infatti, è contenuta la tesi, di ascendenza plutarchea, della superiorità razionale degli animali sugli uomini (cfr. C. Franco, Il mito di Circe, in M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, 2010, pp. 292 e seg.). In questo caso, il patrimonio mitico è utilizzato da M. per una satira politica ad ampio raggio (dietro ogni animale del seguito di Circe si nasconde un personaggio in vista della Firenze medicea o dell’Italia contemporanea, di difficile o impossibile identificazione per i lettori non vicinissimi all’ambiente dell’autore) e per una critica profonda e radicale della condizione umana: «Non dà l’un porco a l’altro porco doglia, / l’un cervo a l’altro: solamente l’uomo / l’altr’uom ammazza, crocifigge e spoglia» (Asino viii, vv. 142-44, a cura di A. Corsaro, in Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, 2012, p. 193). Unico eroe positivo in questo mondo incattivito, il protagonista-narratore prende per sé alcuni tratti dell’Ulisse dantesco (P. Sabbatino, Nei luoghi di Circe. L’Asino di Machiavelli e il Cantus Circaeus di Bruno, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, 1998, pp. 553-96).
È invece difficile supporre che M. implicasse il m. di Sisifo, per descrivere la propria condizione di isolamento dalla vita politica, quando parlò del «desiderio [...] che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso» (M. a Francesco Vettori, 10 dic. 1513, Lettere, p. 297). L’espressione era proverbiale e, in ogni caso, facilmente rintracciabile in fonti prossime a M., come Terenzio e Plutarco (cfr. F. Bausi, Il sasso di Machiavelli, in Confini dell’umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. De Nichilo, G. Distaso, A. Iurilli, 1° vol., 2003, pp. 115-16), e anche Virgilio (Aen. VI 616) e Ovidio (Met. 4, 460).
Bibliografia: F. Gaeta, L’avventura di Ercole, «Rinascimento», 1954, pp. 227-60; G.M. Anselmi, P. Fazion, Machiavelli, l’asino e le bestie, Bologna 1984; E. Raimondi, Politica e commedia. Il centauro disarmato, Bologna 19982; B. Kuhn, Mythos und Metapher. Metamorphosen des Kirke-Mythos in der Literatur der italienischen Renaissance, München 2003, pp. 354-419.