MITO
È ben chiaro, se non addirittura ovvio, che disquisendo del 'mito di Federico II', si intende riferirsi a quello che gli epistemologi classificano come 'mito storico', nel senso che contiene un nucleo storico o pretende di spiegare un determinato evento effettivamente accaduto magari ancorandolo a una leggenda, a un vaticinio, a una profezia (Krappe, 1952). Non rare volte poi nella creazione del mito intervengono condizionamenti ideologici o ideali dalle molteplici matrici culturali e politiche, come nelle correnti irrazionalistiche contemporanee che celebrano la forza esaltante del mito a fronte di quelle che, invece, in nome di una concezione problematica e relativistica della ragione ne accentuano gli aspetti di negatività, non senza far riferimento allo stesso dibattito contemporaneo che parla della polarità di mito e scepsi che caratterizza tutta la storia umana, intendendo per mito la ragione dogmatica e per scepsi la ragione che "trascorre di prospettiva in prospettiva e accerta che non vi è un punto di vista assoluto ma solo punti di vista parziali e limitati" (Cantimori, 1953, p. 371); tale polarità è ineliminabile poiché la scepsi si alimenta essa stessa del mito che viene progressivamente dissolvendo ed eliminando. Si aggiunga poi come sia stato lo stesso Federico a costruirsi il proprio mito procedendo ad arditi accostamenti che, dopo la sua morte, diventeranno motivi ricorrenti nella pubblicistica filoimperiale. Basteranno alcune essenziali notazioni relative a questa autogenesi del mito dell'imperatore svevo, a cominciare dalla lettera dell'agosto 1239 indirizzata alla sua città natale, Iesi, "nobilem Marchie civitatem, insigne originis nostre principium" (Historia diplomatica, V, 1, p. 378).
In essa concorrono tre elementi che nelle loro interrelazioni finiscono con l'accreditare un'immagine di Federico che trascende lo stesso accadimento temporale della sua nascita. Innanzitutto l'identificazione con Cristo che conferisce a Iesi uno stigma biblico-messianico sulla scorta della pericope evangelica di Matteo 2, 6 ("E tu Betlemme, città della Marca, non sei la più piccola tra le città della nostra stirpe"). E poi, strettamente collegata, l'altra identificazione di ascendenza classica, che fa della città marchigiana la "terra Caesaris", la città della "prima parens", e di sua madre Costanza la "diva mater nostra". L'ultima identificazione è quella che l'imperatore effettua con la missione universale a lui affidata e derivantegli dall'essere "dux" e "Romani princeps Imperii" (ibid.). Si tratta di affermazioni pregne di ideologia e tese alla sopravvivenza stessa del sovrano svevo che si presenta in questa lettera, attribuita a Pier della Vigna, nella duplice veste di Cristo e di Cesare, di salvatore e moderatore del mondo, di giudice supremo e di signore dell'universo.
Del resto sarà questa la linea sulla quale Federico si attesterà nella dura e spregiudicata lotta con il Papato attraverso una enfatizzazione di motivi che, se chiaramente strumentali al particolare momento politico, costituirono un investimento programmatico e propagandistico nel contempo destinato a durare e a radicarsi profondamente nelle coscienze. Due momenti saranno in questo caso consapevolmente posti in opportuno rilievo: il suo convincimento di essere il riformatore della Chiesa e l'alta funzione che egli attribuiva alla dignità dell'Impero di cui si dichiarava l'ultimo e convinto erede. Töpfer (1992, p. 186) ha richiamato in proposito un libello che circolava nel 1240 redatto nell'ambiente della corte imperiale e verosimilmente attribuito a Pier della Vigna. In esso si ventila la minaccia che, qualora il papa non ritiri la scomunica, l'imperatore, "il nostro magnanimo leone, che oggi fa finta di dormire, con il tremendo suono del ruggito trascinerà a sé dai confini del mondo tutti i pingui tori e, piantando la giustizia, porterà la Chiesa sulla retta via, strappando e spezzando le corna dei superbi" (Historia diplomatica, V, 1, p. 312). E ciò che più conta in questo suo ruolo di riformatore della Chiesa è l'appello per il ritorno alla povertà evangelica nel ricordo di Pietro, che non possedeva se non la rete del pescatore, a fronte dell'opulenza del palazzo papale di Anagni definito "regia solis", a scapito di Roma abbandonata "come serva ai cani e tributaria dei Saraceni" (ibid.). Ancora più esplicita è, in merito, la lettera inviata ai sovrani dei Regni europei nel 1245, nella quale Federico II dichiarava il suo proposito "di indurre i chierici di ogni grado, ma in prima linea quelli di grado più elevato, a vivere finalmente nella stessa condizione in cui vivevano nella Chiesa antica nella quale conducevano una vita apostolica e imitavano l'umiltà del Signore" (Acta Imperii inedita, II, nr. 46).
Oltre che sulla sua missione di riformatore della Chiesa, Federico faceva leva, nell'autopromozione del suo mito, sulla dignità dell'Impero di cui egli era indiscusso detentore. Ne aveva fatto un paradigma concettuale già nella lotta contro Milano e i comuni della Lega lombarda, quando aveva reiteratamente affermato che la loro aspirazione all'autonomia colpiva al cuore l'unità delle province e comprometteva all'interno e all'esterno, in particolar modo nei confronti del papa e dei principi tedeschi, l'onore imperiale. A questa alta consapevolezza politica Federico aggiungerà il riferimento spaziale a Roma "sede del nostro Romano Impero" quando invierà alla Città eterna il carroccio (o molto più verosimilmente alcune parti di esso) fortunosamente sottratto all'esercito della Lega. Nell'iscrizione che accompagnava il dono del carroccio, scelta con rammarico del papa dallo stesso Federico, lo Svevo instaurava uno strettissimo rapporto tra il "decus imperiale" e l'"honor Urbis": è questo honor, inteso nella sua pregnanza giuridica e politica, il fondamento dell'Impero ("quod extollere decus imperiale non possimus quin interim Urbis honorem quam causam imperii fuisse cognoscimus, extollamus"; Historia diplomatica, V, 1, p. 162). Dopo aver rilevato come la maestà imperiale non soggiaccia ad alcuna legge, se non a quella della ragione che è la madre del diritto, proprio in forza di questa, cioè della ragione, è dato a lui, quale erede del fulgore dei Cesari, d'illustrare ai romani i motivi profondi del tripudio per la vittoria conseguita. Una vittoria conquistata in nome di Roma, se è vero che i soldati nel clamore della battaglia gridavano: "Miles, Roma! miles imperator!". Una vittoria che, sulla scorta della tradizione, il senato e il popolo romano decretavano ai vincitori, mentre questi a loro volta portavano in trionfo i trofei catturati ai nemici (ibid.).
Un veicolo privilegiato destinato a far sì che la memoria dell'imperatore si trasfigurasse nella leggenda e nel mito fu senza dubbio la lettera con la quale il figlio di Federico, Manfredi, comunicava al fratello Corrado la morte del loro padre. In essa, al di là dei toni encomiastici e retorici, troviamo sinteticamente riassunti i motivi sia d'impronta biblico-messianica sia di ascendenza classica politico-religiosa che abbiamo visto prepotentemente emergere nei documenti sopra citati: "È tramontato il sole del mondo che brillava sui popoli; è scomparso il sole di giustizia; si è spento l'autore della pace" (ibid., VI, 2, p. 811). Un'altra lettera dello stesso tenore Manfredi indirizzava da Foggia al popolo di Palermo accreditando questa dimensione sacrale della personalità di Federico. Peraltro ad essa si collegava anche nell'impianto letterario il testo dell'epitaffio originario apposto sul sarcofago di porfido della tomba del sovrano nel duomo di Palermo, dove si adombrava in maniera accattivante una sopravvivenza di Federico qualora le sue grandi virtù avessero potuto resistere alla morte (ibid., p. 814).
Su questo retroterra non fu difficile accentuare i caratteri mitici di Federico. Concorsero certamente ad alimentare questa trasposizione metastorica della vicenda esistenziale dell'imperatore svevo gli eventi politici che successero alla sua morte e quei nodi di ghibellinismo e di guelfismo a lungo irrisolti non solo nella storia del Regno ma nella stessa storia d'Italia e, non ultime, le attese escatologiche e le ansie religiose che sarebbero emerse con inquietudine nel corso della seconda metà del Duecento e dei primi decenni del secolo successivo.
A cominciare fu Pietro da Eboli (v.; 1994, p. 205), che nella nascita di Federico, sulla scorta dell'Ecloga IV di Virgilio, riproponeva il mitico ritorno del passato in una rinnovata età dell'oro. Nel suo carme si intrecciano le concessioni primitivistiche di questo mito che avevano avuto in Ovidio il suo cantore esemplare e quelle escatologiche che avevano trovato in Virgilio una sistemazione paradigmatica. La triplice ripetizione del Te nascente viene utilizzata per enfatizzare messianicamente la eccezionalità prodigiosa della nascita di Federico proiettata sullo scenario politico dell'unio Regni ad Imperium.
Per rimanere nell'ambito dell'evento costituito dalla nascita dello Svevo non si può non far cenno alla profezia attribuita alla Sibilla Tiburtina: "concepit et peperit imperatrix natum. / Tenet nunc Apuliam, habet Principatum. / Est futurus cesar sic est vaticinatum. / Habet imperium, regum monarchatum" (Goffredo da Viterbo, 1870, p. 49). Si tratta ovviamente di un richiamo del passato che assume la forma di una profezia ex eventu, ma che viene consapevolmente evocata per ancorarla a un tempo antico e, quindi, conferirle valore e autorevolezza. Sarà questa letteratura sibillina con il suo linguaggio criptico a erodere sempre più il dato storico e a consegnare Federico nella sfera del mito.
Si prendano gli oracoli legati alla morte dello Svevo sempre basati sull'auctoritas di un personaggio non cristiano, quello appunto della Sibilla: di quella Tiburtina il cui testo pregno di contenuti messianici, in quanto l'attributo Sol iustitiae è chiaramente cristologico, viene ripreso da Karl Hampe: "tamen quasi sole recedente ab axe celi ad mare occiduum, ipse reliquit solem genitum" (1917, p. 18); di quella Eritrea accolta da Salimbene de Adam: "Nota quod ista deceptio de Friderico faciliter presumebantur posse fieri, pro eo quod in Sibilla legitur: 'Vivit' et 'Non vivit'. Nam et ego ipse usque ad multos dies vix potui credere quod mortuus esset" (1966, p. 251). Ma in Salimbene si intrecciano sentimenti contrastanti: accanto alla costernazione per la notizia della morte dell'imperatore ("Horrui cum audirem […]"), si materializza la sua professione di fede nel gioachimismo e, dunque, la sua fede in un recupero escatologico della stessa figura dell'imperatore Federico ("Eram enim Ioachita et credebam et expectabam et sperabam quod adhuc Fridericus maiora mala esset facturus quam illa que fecerat, quamvis multa fecisset"; ibid.).
Sarà il gioachimismo a riconoscere una duplice funzione all'imperatore siculo-tedesco, quella di alleato nella riforma della Chiesa e quella, opposta, di Anticristo incarnato. Della prima si farà interprete un domenicano, Arnoldo, il quale pubblicò al tempo di Innocenzo IV un'epistola dal titolo marcatamente allusivo De correctione Ecclesiae in cui, come ha rilevato Töpfer, "Federico viene considerato come un amico e un ausilio delle forze riformatrici che mirano a un nuovo e perfetto status della Chiesa" (1992, p. 188); dell'altra darà ancora una volta sicura testimonianza un testo profetico formulato ex eventu ricalcato sulle attese apocalittiche legate all'approssimarsi dell'età dello Spirito, da alcuni fissata al 1260: "[…] quare scribitur in Apocalypsi quod anno Domini MCCLXI post partum Virginis alme solvetur Sathanas; et tunc vero solutum fuit Sathanas in Federico Imperatore, qui violavit et conculcavit sacra et fuerunt tempore suo plage et pestilentie" (Boutaric, 1962, nr. XLV, p. 236).
Ciò che conta è che ormai il mito aveva completamente assorbito il personaggio storico, di cui si dubitava che fosse mai morto e a cui si attribuiva un imminente ritorno. Non a caso una prima comparsa di un falso Federico si registrava in Sicilia nel 1261-1262 e contemporaneamente si accreditava sempre più l'opinione che egli non fosse morto e avesse scelto la sua dimora sull'Etna. Ce ne offre una riprova la Cronaca universale di Jans Enikel, del penultimo decennio del XIII sec., dove si narra come si discutesse, specialmente in Italia, se Federico fosse "ancora vivo nel mondo" (Deutsche Chroniken, 1839, p. 574). Del resto il tema del ritorno di un sovrano morto da molto tempo, intersecantesi con quello dell''ultimo imperatore', era ampiamente ricorrente sia negli oracoli sibillini, e in particolare nella Sibilla Tiburtina (Sackur, 1898, p. 40), sia nello Pseudo-Metodio (Kmosko, 1931, p. 280), sia in testi variamente tràditi (Töpfer, 1992, p. 28), e entrambi si inserivano in una ben individuata temperie culturale e sociale segnata dalle attese di rinnovamento affidate al ritorno demiurgico dello Svevo. Questo mito durerà a lungo, sino ai primi del Trecento quando lo stesso Dolcino, anch'egli imbevuto di rigurgiti escatologici, preconizzerà in Federico III o nel III Federico colui che avrebbe provveduto a eliminare il papa da Roma e a insediare il papa angelico.
Comunque, della sopravvivenza di Federico e della sua dimora nelle viscere dell'Etna rimane una testimonianza emblematica, l'episodio narrato dal cronista Tommaso di Eccleston: un frate siciliano dell'Ordine di s. Francesco, raccoltosi in preghiera sulla riva del mare, aveva scorto a un tratto una schiera imponente di cinquemila cavalieri con pesanti armature che, presa la via del mare, vi si era immersa. Il mare, allora, aveva ribollito come se le armature dei cavalieri fossero state di metallo rovente; uno di essi aveva detto al frate stupefatto: "Questi è Federico Imperatore che va all'Etna con i suoi cavalieri". Il frate aveva ricevuto tale visione nell'istante stesso in cui Federico moriva (Tommaso di Eccleston, 1863, p. 568).
Una specie di "ascensio", questa di Federico, simile a quelle diffuse nel mondo medievale di Alessandro Magno, di Teodorico re dei Goti, di Federico I. Una "ascensio ad montem Gebellum" accreditata dagli oracoli sibillini e dai vaticini legati a un'escatologia che assumeva proporzioni sempre più imponenti in quanto nella scomparsa di Federico, l'Anticristo, si riviveva tragicamente la fine dell'Impero romano: il Mongibello, con le sue apocalissi e con i suoi scenari di fuoco, diveniva il soggiorno ideale per l'imperatore ghibellino.
Anche quando, sopite le polemiche che opposero guelfi e ghibellini, il giudizio storico che era stato condizionato dagli eventi immediati e coevi si andò stemperando in dissolvenze di più ampio respiro e di più pacato distacco, Federico continuò a costituire un signum contradictionis sia nell'ambito storiografico, dove risultarono prevalere categorie interpretative fortemente ideologizzate in un intreccio continuo fatto di revisioni, di reinterpretazioni e di proposte non rare volte provocatorie, sia nella esaltazione della dimensione mitica originatasi attraverso specifiche influenze romantiche in alcuni circoli culturali tanto tedeschi quanto italiani.
Qui si farà riferimento al cenacolo di Heidelberg del poeta Stefan George, impegnato nella esaltazione delle grandi ed eroiche personalità del presente e del passato, e all'influsso di Friedrich Nietzsche, che proprio in Federico II aveva indicato l'eroe antimoderno e anticristiano, ma non va trascurata la perdurante e ideale presenza di Joseph Grimm, che proprio agli eroi rapiti sui monti aveva dedicato pagine di singolare suggestione (Grimm, 1876, pp. 794 ss.).
All'interno di questo cenacolo maturò l'opera di Ernst Hartwig Kantorowicz, che al mondo dei miti e delle leggende fioriti nei secc. XII e XIII intorno allo Svevo prestò insistita attenzione per delineare i tratti salienti e caratterizzanti del suo Federico II, imperatore, incorrendo nelle forti ostilità degli storici di sperimentata metodologia positivista che alla tipologia delle fonti utilizzate da Kantorowicz non riconoscevano sicura attendibilità, come ad esempio Albert Brackmann, ma anche nelle riserve di studiosi legati in qualche maniera allo stesso Kantorowicz, come Karl Hampe e Friedrich Baethgen, che postulavano come canone metodologico la distinzione tra il piano dei fatti e degli eventi e la sfera della fantasia e delle rappresentazioni.
Se dal mondo tedesco ci spostiamo nell'Italia meridionale si constata come il discorso sul mito di Federico II si sviluppi prevalentemente sul manufatto più significativo della produzione castellare dell'imperatore svevo, Castel del Monte, l'emblematico e conturbante edificio eretto su una delle colline più elevate del crinale murgiano a ridosso di Andria.
Le chiavi di lettura della possente costruzione voluta dall'imperatore svevo si sono oltremodo moltiplicate: da quelle storiche, iconografiche, archeologiche e architettoniche a quelle filologiche, ideologiche, paradigmatiche e semiologiche, sino a stemperarne la memoria nel mito. Sono così emerse, di volta in volta, interpretazioni settoriali, visioni monotematiche, approcci parziali confluiti in una produzione esoterico-templare che molto spesso ha ignorato le più elementari norme dell'ermeneutica storica attribuendo a Federico strani connubi con ambienti e teorie più postulate che dimostrate: e ciò vale sia per chi ha voluto considerare Castel del Monte come "un castello disegnato dal sole e costruito in divina proporzione" (Tavolaro, 1981, pp. 75-98), sia per chi ha accostato la perfezione geometrica di Castel del Monte a quella della piramide di Cheope e della cattedrale di Chartres, ipotizzando altresì un allineamento del maniero federiciano con la stessa cattedrale e con il Tempio di Salomone a Gerusalemme (Vlora-Mongelli-Resta, 1988; Vlora-Mongelli, 1995).
Ma ci sono altri due ambiti nei quali la proiezione del mito federiciano troverà terreno fertile e condivisa accettazione: la letteratura e il folklore. Nella prima, pur nella trasposizione fantastica dell'ordito narrativo, si rifletteranno le stesse passioni, i medesimi entusiasmi, le identiche condanne che abbiamo visto pervadere di volta in volta la propaganda politica all'indomani della morte dell'imperatore e che continueranno a strumentalizzare o usare la sua figura in un intreccio mai riduttivo, anzi di continuo amplificato, della sua personalità e dei progetti che avevano scandito la sua vicenda esistenziale all'interno dell'Europa e del Mediterraneo del XIII secolo. Nel folklore rivivrà in tutte le più variegate sfaccettature e con il ricorso alle più tradizionali ed espressive forme di comunicazione l'immaginario federiciano: il carattere esotico della sua corte, i padiglioni delle sue case di piacere, le tumultuose avventure amorose, le sfarzose incoronazioni, i pittoreschi tornei, le battute di caccia con il falcone, i riti tenebrosi delle scomuniche, l'omaggio dei popoli con lo stesso vigore scenografico e le stesse sequenze drammaturgiche che si riscontrano nel ben noto affresco del Palazzo abbaziale di S. Zeno a Verona.
È pur vero che con questo caleidoscopico armamentario il mito ha finito con l'ingessare la storia, ma compito di colui che indaga su Federico non è quello di rompere la corteccia del mito quanto, invece, di valutarne esemplarmente e criticamente le sue proporzioni per assumerlo nello stesso discorso storico al fine di comprendere e valutare il riflesso della memoria dell'imperatore svevo.
fonti e bibliografia
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