MITOLOGIA
Le figurazioni mitologiche nel Medioevo appartengono a quella tradizione classicista che dall'età tardoantica fino alla fine del Trecento guardò al mondo antico in termini ora di continuità, ora di sopravvivenza, ora finalmente di rinascita (v. Antico; Classicismo; Rinascenza).La cultura pagano-mitologica nell'età tardoantica conservò in parte il patrimonio iconografico dell'arte classica attraverso le figurazioni di vittorie, putti, tritoni, Nereidi nelle decorazioni musive e scultoree (Dorigo, 1966). In particolare una fedele continuità con le figurazioni mitologiche dell'Antichità rivelano i mosaici della provincia romana nordafricana, dove non solo singole divinità, ma episodi mitologici precisi conservano un'integrità formale e/o iconografica rispetto al modello classico: per es. nei mosaici di Timgad, in Algeria, le rappresentazioni del Trionfo di Venere o del mito di Diana e Atteone sono perfettamente rispondenti ai modelli romani, mentre l'iconografia rivela una conoscenza o una consapevolezza delle fonti letterarie antiche; tali modelli trovano continuità sia nella pavimentazione musiva di Piazza Armerina (prov. Enna) sia, in area bizantina, nel Grande Palazzo di Costantinopoli, del sec. 5°-6° (Dunbabin, 1978).I diversi canali di penetrazione della tradizione mitologica nel Medioevo, a dispetto delle condanne degli apologisti e dei Padri della Chiesa, riguardano tanto la sfera della vita quotidiana quanto quella religiosa e morale. La sopravvivenza delle divinità mitologiche, fin dalla prima età cristiana, fu resa possibile grazie alla tradizione evemeristica, che, nel rivelare l'origine umana degli dei antichi, divenne un utile strumento per la lotta contro il politeismo: "Qui a vobis adorantur, cum prius homines fuerint, deinde mortem obierunt", sosteneva Clemente Alessandrino, citando la Sacra scriptio di Evemero, del sec. 3° a.C., nella sua Cohortatio ad gentes (IV, 75; PG, VIII, col. 152; Alphandéry, 1934). Tale tradizione sopravvisse durante il Medioevo tramite le cronache, da Eusebio di Cesarea a Paolo Orosio, le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, del sec. 7°, le enciclopedie del sec. 13°, lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, fino alle cronache universali del 14° e del 15° secolo.In queste opere particolare evidenza è data a quegli eroi, poi assunti a divinità, benefattori dell'umanità: da Prometeo ad Atlante, a Giasone fino a Dedalo - che come forgiatore di statue assume il ruolo di demiurgo -, a Orfeo e a Ercole, raffigurati da Andrea Pisano nelle formelle del campanile di S. Maria del Fiore a Firenze.In particolare Prometeo, legato al mito della creazione in Platone (Protagora, 320C-322D) e poi in Ovidio (Metamorfosi, I, vv. 78-88), diventa un simbolo visivo del concetto neoplatonico della natura umana, come esemplificano i sarcofagi romani del sec. 3° (per es. Roma, Mus. Capitolino), dove il concetto dualistico della creazione dell'uomo, vale a dire del suo corpo e della sua anima, avviene attraverso l'opera di scultore di Prometeo, mentre l'animazione della statua si compie con l'ausilio di Minerva. L'identificazione di Prometeo come artefice della creazione si diffuse nei primi secoli dell'età del cristianesimo, come è testimoniato dai Padri della Chiesa; Tertulliano scriveva: "Deus unicus qui universa condiderit, qui hominem de humo struxerit; hic enim est verus Prometheus" (Apologeticum, XVIII, 3). L'influenza dell'iconografia di Prometeo come artefice della creazione trova continuità nelle illustrazioni della Bibbia in età tardoantica e carolingia (Bibbia di Moûtier-Grandval, Londra, BL, Add. Ms 10546, c. 5v). Prometeo ancora nelle vesti di creatore dell'uomo ricompare alla metà del sec. 14° nelle illustrazioni dell'Ovide moralisé, nei manoscritti di Lione (Bibl. Mun., 742, c. 1325r) e di Parigi (BN, fr. 871, c. 31r), dove la graduale fusione fra la rappresentazione biblica e quella mitologica corrisponde all'interpretazione morale che vede in Prometeo una 'figura' del vero Dio (Raggio, 1958).Orfeo, invece, che è considerato una figura storica dell'Antichità, inventore della poesia e musico, presiede all'armonia del cosmo; già nei secc. 4°-5° e poi in età carolingia Orfeo divenne una metafora di Cristo; rappresentato tra gli animali mentre suona la lira in un mosaico del sec. 6° proveniente da Gerusalemme (Istanbul, Arkeoloji Müz.), egli viene assimilato alla classica iconografia del Buon Pastore, sovrapponendosi inoltre, nel sarcofago della basilica di S. Gavino a Porto Torres (prov. Sassari), risalente al sec. 4°-5°, alla figura di Mitra della m. orientale.Legate a ritualità naturalistiche e alla ideologia del lavoro, che viene positivamente riscattata dal cristianesimo, sono inoltre quelle divinità mitologiche, come per es. lo stesso Ercole, le cui fatiche illustrano il medesimo processo catartico dell'uomo che si purifica attraverso il lavoro fisico, mentre in particolare l'episodio della raccolta dei pomi dal giardino delle Esperidi trova un'immediata assimilazione al frutto proibito del paradiso terrestre (Sissa, Detienne, 1989). Il riscatto del lavoro in chiave cristiana fu in seguito determinante per la nascita e la diffusione dell'iconografia legata ai mestieri e alle allegorie dei Mesi (v.), che trovarono già un'esemplificazione, a partire dall'età tardoantica, nei mosaici di Piazza Armerina e nelle decorazioni pavimentali di età bizantina nel Grande Palazzo di Costantinopoli, dove alle scene di genere si accostano figurazioni rurali o di caccia, personificazioni delle Stagioni e dei Mesi anche attraverso divinità mitologiche (Talbot Rice, 1957; Hellenkemper-Salies, 1987).Il tema del lavoro aveva avuto diffusione anche in quelle province romane dell'Europa settentrionale dove l'economia agricola era predominante, trovando dunque una naturale espressione nella produzione artistica musiva e a rilievo (mosaico con calendario rurale del sec. 3°, Saint-Germain-en-Laye, Mus. des Antiquités Nat.; Calcani, 1993). La continuità di questa tematica con le corrispondenti iconografie relative al calendario si rintraccia dall'età carolingia (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 387, c. 90v, sec. 9°) lungo tutto il Medioevo, per es. nelle illustrazioni del manoscritto del 1023 (Montecassino, Bibl., 132) - copia fedele di un originale del De originibus rerum di Rabano Mauro -, nella decorazione musiva della cripta di S. Savino a Piacenza e nel pavimento della cattedrale di Otranto (prov. Lecce), dove i Mesi sono accompagnati dai segni dello Zodiaco (v. Astri; Calendario; Zodiaco). Iconografie calendariali con la rappresentazione delle attività dei Mesi e i segni dello Zodiaco si trovano anche nelle decorazioni ad affresco: dal famoso calendario nell'oratorio di S. Pellegrino di Bominaco (prov. L'Aquila), del 1263, ai più tardi affreschi nel castello del Buonconsiglio a Trento. Il tema dell'iconografia dei Mesi costituisce infine uno dei soggetti più diffusi nelle decorazioni a rilievo delle cattedrali: da Modena a Verona, a Ferrara, a Parma, ma anche ad Amiens e a Saint-Denis. In alcuni casi le personificazioni dei Mesi sono rappresentate da divinità mitologiche come Giano, Eolo e Bacco, che stanno a rappresentare rispettivamente i mesi di gennaio, marzo e settembre (Webster, 1938; Rasetti, 1941; Bresciani, 1968). Accanto alle personificazioni dei Mesi vanno considerate anche le Stagioni, già presenti negli esempi tardoantichi, per es. nei mosaici di Piazza Armerina, caratterizzate per lo più dai tipici attributi naturalistici, le spighe per l'estate o i pampini e le viti per l'autunno, ma a volte rappresentate da divinità mitologiche: Venere per la primavera, Cerere per l'estate, Bacco per l'autunno. Queste figurazioni ebbero continuità per tutto il Medioevo, come dimostrano fra gli altri gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena.Divinità del mondo pagano come personificazioni degli elementi naturali e cosmogonici rappresentano la più diretta sopravvivenza della m. classica nell'età carolingia: un noto avorio riusato nella legatura del Libro delle Pericopi di Enrico II (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4452), dove è rappresentata la Crocifissione, ripropone fedelmente le divinità naturalistiche dell'Antichità; Eridano sta a rappresentare l'oceano, accanto al quale è collocata la personificazione della madre Terra, mentre le divinità cosmogoniche del Sole e della Luna sono rappresentate in alto sui tradizionali carri. Le divinità mitologico-naturalistiche, conservando il loro carattere classico nella forma, si fondono in questo avorio, uno fra i più illustri esempi di una produzione iconografica ben radicata, con il significato loro proprio, che viene a potenziare il valore simbolico dell'evento cristologico fondato sull'idea risurrezionale. "L'arte carolingia non cerca mai di infondere in una determinata immagine classica un significato diverso da quello che le appartiene fin dall'inizio" (Panofsky, 1960, trad. it. p. 62). Anche gli elementi naturali vengono personificati da figurazioni mitologiche: nella cattedrale di Ferrara, Eolo sta a rappresentare i venti, mentre Vulcano alla fucina è per lo più connesso all'elemento del fuoco.Uno dei luoghi più significativi per la sopravvivenza dell'Antico nell'età bizantina fu Costantinopoli: nell'ambito dell'Università di Barda, fondata nella seconda metà del sec. 9°, l'imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959) promosse un'opera di revisione enciclopedica. Una straordinaria sopravvivenza della tradizione mitologica classica è documentata dalle miniature del codice che contiene il commento alle Omelie di Gregorio Nazianzeno, attribuito allo pseudo-Nonno, un autore siriaco del sec. 6° (Roma, BAV, Vat. gr. 1947; Weitzmann, 1951), dove la perdita dello stile classico non va a scapito della fedeltà alla tradizione iconografica della m. antica. La rappresentazione della morte di Atteone (c. 143v) è infatti derivata puntualmente dalla pittura vascolare del sec. 6° a.C., che illustra la lezione del mito tramandata da Stesicoro, attraverso Pausania, secondo la quale Diana, per vendicare Giove in seguito all'innamoramento di Atteone per Semele, partecipa, armata di arco e freccia, alla caccia in cui Atteone viene sbranato dai cani (Weitzmann, 1951, fig. 10).La tradizione astrologica studiata da Saxl (Panofsky, Saxl, 1932-1933; Saxl, 1985), all'inizio attraverso l'iconografia delle sculture del Basso Impero, si fa portatrice nel Medioevo della sopravvivenza delle divinità mitologiche: "Tribuenda est sideribus divinitas", scriveva Cicerone nel De natura deorum (II, 15). Alla fine dell'era pagana l'identificazione di dei e astri poteva dirsi compiuta, dopo un lungo processo di mitologizzazione abbastanza complesso (Panofsky, Saxl, 1932-1933; Seznec, 1940; Saxl, 1985). Pianeti, costellazioni, segni zodiacali incominciarono fin dal sec. 4° a.C. a essere associati a divinità della m. classica o nel nome o in rapporto alle storie mitiche. Prima con Eudosso di Cnido e quindi con Arato ed Eratostene - il cui poema Katasterismói era diventato mitologico piuttosto che astronomico -, tale processo di mitologizzazione si può considerare concluso. L'innesto in questa tradizione della sphaera barbarica, sistematizzata da Teucro nel sec. 1° a.C., ampliò in seguito il catalogo astrale.Il processo di mitologizzazione degli dei astrali, che trova nelle Fabulae di Igino, poeta dell'età augustea, una fonte decisiva per la trasmissione di questo repertorio mitologico-astrologico (Igino, Astronomica, Wolfenbüttel, Herzog August Bibl., Aug. 4° 18.16, c. 19r, sec. 12°), venne favorito anche dalla maggiore intellegibilità che le costellazioni e i corpi celesti in genere venivano ad assumere attraverso le ben conosciute figurazioni mitologiche. Nel sec. 12°, Guglielmo di Conches, che sostenne la legittimità della m., affermava nella Philosophia mundi: "Fabulose loquitur Nemrod, Hyginus, Aratus, taurum illum esse translatum et in signum mutatum dicentes [...] Quod genus tractandi, maxime est necessarium. Eo enim scimus de unoquoque signo, in qua parti coeli sit situm" (Seznec, 1940, p. 50).Nonostante la consueta condanna da parte degli apologisti, le divinità astrologiche non solo permangono a scandire i giorni della settimana o a presiedere ai mesi dell'anno, come testimonia la ripresa del Cronografo del 354 in manoscritti carolingi e in copie successive - per es. la copia di un manoscritto carolingio commissionata dall'antiquario Nicolas-Claude Fabri de Peiresc nel 1620 (Roma, BAV, Barb. lat. 2154; Strzygowski, 1888; Stern, 1953) -, ma esse vengono in ogni caso a identificarsi con quelle forze demoniache che sono da combattere da parte dei cristiani, anche se viene loro riconosciuta un'azione condizionante nei riguardi del genere umano. In questa atmosfera si giustifica quella dottrina delle immagini, trasmessa all'Occidente da opere come il Picatrix - un manuale di magia composto originariamente in arabo, con il titolo di Ghāyat al-ḥākim, intorno al sec. 11°, e tradotto in spagnolo nel 1256 alla corte di Alfonso X il Saggio -, che insegnano a utilizzare le potenze celesti inserendo le loro immagini nei talismani e negli amuleti. "Picatrix dà così la descrizione di una cinquantina di immagini di stelle fisse, di pianeti, di segni dello zodiaco, di cui garantisce l'efficacia" (Seznec, 1940, trad. it. p. 47). La moda di pietre intagliate e cammei con figurazioni mitologiche risale già al sec. 7°, ma il loro uso talismanico, di provenienza per lo più orientale, iniziò a radicarsi in Occidente verso il sec. 13°, quando i trattati attribuirono alle immagini incise sulle gemme un particolare potere, spesso in funzione antidemoniaca. Se le divinità astrali continuarono a sopravvivere attraverso un tiepido tentativo di assimilazione alla religione cristiana durante l'età carolingia, l'eredità della cultura astrologica trovò dunque nell'arte e nella cultura bizantina un momento di felice consolidamento (Boll, Bezold, Gundel, 1918, trad. it. p. 45; Seznec, 1940, trad. it. p. 217).Una continuità con l'iconografia classica anche in termini formali rivelano le figurazioni mitologiche-astrologiche che illustrano alcuni codici dei manoscritti di Arato, gli Aratea, (Leida, Bibl. der Rijksuniv., Voss.lat. 79, c. 16v; Panofsky, 1960, fig. 12) e del citato De originibus rerum di Rabano Mauro (p. 386; Panofsky, 1960, fig. 19), oppure che sono incise su avori, come Ercole al Mus. Naz. del Bargello di Firenze (Panofsky, Saxl, 1932-1933, figg. 2-3). Gli Aratea (v.), i cui prototipi risalgono agli ultimi secoli dell'Impero, mentre le copie carolinge sono dei secc. 9°-10°, con successive redazioni nei secc. 11°-12°, dimostrano una fedeltà al modello classico che rivela uno specifico interesse artistico e archeologico, ma una scarsa precisione dei caratteri scientifici: per es. alcuni codici inglesi eseguiti intorno al Mille mostrano poca attenzione per il contenuto astronomico delle immagini (Londra, BL, Harley 2506; Saxl, 1985, fig. 130). L'interesse per l'aspetto formale più che contenutistico di queste figurazioni ha portato inoltre successivamente a una trasformazione delle caratteristiche classiche a vantaggio di un gusto contemporaneo legato agli stilemi romanici o gotici (Opusculum de ratione spere, Oxford, Bodl. Lib., Digby 83, c. 45r, sec. 12°).Alla progressiva perdita della fedeltà scientifica astronomica di queste immagini, sempre più assimilabili a esemplari del mondo contemporaneo, sopperì l'apporto della tradizione orientale di cultura araba fra il sec. 12° e il 13°, molto attenta alla conoscenza scientifica degli astri, grazie alla traduzione di Aristotele e all'Almagesto di Tolomeo. "La riscoperta della scienza greca nel Basso Medioevo si configurò in definitiva con la riscoperta non solo del vero Aristotele e del vero Tolomeo, ma anche di quella ricca letteratura ellenistica nata dalla fusione del pensiero semireligioso e semiscientifico europeo con quello orientale" (Saxl, 1985, p. 167).La trasmissione dei testi arabi in Europa attraverso la Sicilia e la Spagna, per il tramite di copie occidentali, diede luogo a una produzione di immagini che, mutuate su quelle orientali, avevano mantenuto lo schema iconografico astronomico, perdendo l'integrità della tradizione mitologica antica (Seznec, 1940, trad. it. p. 181). L'orientalizzazione della sphaera graecanica diede luogo dunque a una serie di immagini curiose, come quelle di Ercole con la scimitarra o di Perseo con la testa di demone barbuto, al posto della tradizionale testa di Medusa, che sono però definite astronomicamente sulla base dell'Almagesto di Tolomeo (al-Ṣūfī, Ṣuwar al-kawākib al-thabīta o Libro delle stelle fisse, Parigi, Ars., 1036, c. 10r, sec. 13°; Parigi, BN, arab. 5036, c. 68r). La trasmissione di ulteriori costellazioni della sphaera barbarica in Occidente avvenne sempre attraverso copie occidentali: è il caso del testo di Abū Ma῾shar, Kitāb al-madkhal al-kabīr (Introductorium maius), le cui immagini risalgono a codici occidentali dei secc. 12° e 13° (Parigi, BN, lat. 7330, c. 48r; Londra, BL, Sloane 3983, c. 13v; Saxl, 1985, pp. 150-151). I caratteri stilistici delle illustrazioni di questi codici rivelano un'inequivocabile derivazione dalla tradizione figurativa dell'Italia meridionale, come testimonia l'analogia fra l'immagine di Marte nel manoscritto di Parigi e quella di un guerriero nel Registrum Sancti Angeli ad Formam (Saxl, 1985, fig. 150).Una sostanziale trasformazione dell'iconografia di alcune divinità mitologico-planetarie si riscontra in esempi dei secc. 12°-14° che rivelano un'elaborazione dell'antica tradizione babilonese attraverso testi come il Picatrix. Derivate da questa tradizione sono sicuramente le immagini del Liber introductorius di Michele Scoto, astrologo alla corte di Federico II (1228-1235), che rivelano nel cambiamento dell'iconografia delle divinità più tradizionali dell'Olimpo classico una conoscenza della sphaera barbarica. Per es. Mercurio in una miniatura del manoscritto di Londra (BL, Add. Ms 16578, c. 52v) appare seduto in cattedra, sulla quale si trova una sfera armillare, mentre sfoglia un libro posto su un leggio accanto a lui: l'immagine, allontanandosi del tutto dall'iconografia occidentale del dio, corrisponde a quella babilonese di Nabū, dio delle lettere. Anche Giove, rappresentato come un giurista nel codice viennese di Michele Scoto (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2378, c. 12v), si avvicina a Marduk, la divinità che nell'olimpo babilonese stabilisce i destini degli uomini (Seznec, 1940, figg. 61-62). Perso il carattere esotico originario, queste divinità mitologiche, nei manoscritti di Michele Scoto, assumono le vesti e i costumi dell'Europa contemporanea. Si venne così a costituire una tradizione iconografica delle divinità mitologico-astrologiche discostantesi dal modello classico, che si affermò nel Tardo Medioevo informando alcune figurazioni dei più famosi interventi artistici fra il Duecento e il Trecento, dagli affreschi del Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella a Firenze alle decorazioni nella chiesa degli Eremitani a Padova. Qui in particolare Mercurio è rappresentato come Nabū, mentre Giove-Marduk è raffigurato, nelle formelle del campanile di S. Maria del Fiore a Firenze, nelle vesti di un monaco con un calice e una croce in mano. Infatti Giove-Marduk, secondo il Picatrix, è il patrono dei cristiani: "umile e modesto porta l'abito dei monaci e dei cristiani, poiché egli è il loro patrono; fa tutto quello che fanno i cristiani, e adotta il loro abbigliamento: un mantello giallo, una cintura e una croce" (Seznec, 1940, trad. it. p. 186). Divinità di origine orientale si riconoscono anche negli affreschi del salone del palazzo della Ragione a Padova. Qui in particolare la struttura decorativa, articolata in fasce sovrapposte, rappresenta un sistema cosmologico a più livelli dove sono raffigurate le immagini dei Mesi, dei Pianeti e dei segni dello Zodiaco, ai quali corrispondono in alto le costellazioni della sphaera barbarica (i decani e i paranatellonta, derivati dall'Astrolabium planum attribuito a Pietro d'Abano), mentre associati ai Pianeti sono raffigurati i rispettivi figli. L'origine di questi ultimi dalle immagini dei mestieri nelle enciclopedie illustrate della Tarda Antichità è stata ipotizzata da Saxl (1985), che ha arricchito la ricerca di Hauber (1916) e ha tracciato un percorso di queste immagini che si snoda dall'antica Roma, alla Spagna (con Isidoro di Siviglia), a Montecassino (attraverso i codici di Rabano Mauro), al campanile di Firenze e poi in Oriente per ritornare, attraverso la Spagna (Oxford, Bodl. Lib., Or. 133, del 1382-1410) in Europa: in Germania (Berlino, Staatsbibl., Germ. 642, c. 70r) e finalmente in Francia e in Italia, dove i figli dei Pianeti trovano diffusione nei preziosi libri d'ore (Très Riches Heures del duca di Berry, Chantilly, Mus. Condé, 1284) e nelle decorazioni ad affresco, come quella realizzata, alla fine del Trecento, nella torre dell'Aquila del castello del Buonconsiglio a Trento (Warburg, 1932; Saxl, 1985).L'astrologia restava dunque 'il fine di ogni sapere' e con essa, come con la storia naturale, bisognava confrontarsi per acquisire la scienza divina. La cultura scolastica, nella sua tendenza a un sistema globale del sapere, a una scientia universalis, si uniformò in seguito al sistema astrologico, non solo accogliendo i rapporti numerici fra Mundus, Annus et Homo (Parigi, BN, lat. 11229, c. 45r; Seznec, 1940; Saxl, 1985), ma anche facendo corrispondere le virtù e le arti liberali ai pianeti. Già i pitagorici avevano posto le Muse in rapporto con i pianeti; successivamente, a partire dal sec. 9°, venne stabilita la corrispondenza dei pianeti con le virtù e poi con le arti liberali (Dante, Convivio, II, 14; IV, 24; Herrada di Landsberg, Hortus deliciarum; Bartolomeo de' Bartoli, Cantica virtutibus et scientiis, sec. 14°). Questo carattere enciclopedico della cultura medievale trovò espressione nell'arte monumentale, sui portali e nelle vetrate delle cattedrali francesi. Nel sec. 12° il poeta normanno Baudri de Borgueil, nella sua opera dedicata alle arti liberali (Curtius, 1948, trad. it. p. 83, n. 31), ricordava la raffigurazione di queste sulle pareti della camera della contessa di Blois, mentre nella volta erano rappresentati i Pianeti e le costellazioni. Anche Giotto nel campanile di Firenze, nei rilievi eseguiti su suo progetto da Andrea Pisano, espone lo schema delle corrispondenze fra il mondo planetario e quello umano nei suoi aspetti religiosi, rappresentati dalle Virtù, dalle Arti liberali e dai Sacramenti, e in quelli profani, attraverso i già citati temi del lavoro, dei mestieri e delle scienze. Negli affreschi eseguiti nel Cappellone degli Spagnoli da Andrea di Bonaiuto fra il 1366 e il 1368, le Arti e i Pianeti, dipinti a mezzo busto nelle cuspidi dei troni di queste ultime, stanno a mutuare la tradizionale corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo. Anche a Padova Guariento raffigurò nell'abside della chiesa degli Eremitani accanto agli dei planetari le personificazioni delle età dell'uomo. Infine, nel vestibolo della cappella nel Palazzo Pubblico di Siena, Giove, Minerva, Apollo e Marte vennero rappresentati da Taddeo di Bartolo con i loro tradizionali attributi.Oltre che nelle immagini astrali, la m. sopravvisse nel Medioevo anche attraverso quel processo di allegorizzazione che, attingendo allo stoicismo e passando per il neoplatonismo, fin dall'inizio dell'era cristiana trovò rispondenza nella stessa esegesi dei Padri della Chiesa, per poi radicarsi, con il contributo ellenistico, nell'età tardoantica già con la Psychomachia di Prudenzio (Lione, Bibl. Mun., 22, c. 17v, del 1100 ca.; Panofsky, 1960, fig. 65) e, a partire dal sec. 6°, con le famose Mythologiae di Fulgenzio. A proposito dell'opera di Fulgenzio, un chierico del sec. 12°, Sigiberto di Gembloux, scriveva (Liber de scriptoribus ecclesiasticis, 28; PL, CLX, col. 554): "Hic certe omnis lector expavescere potest acumen ingenii eius, qui totam fabularum seriem, secundum philosophiam expositarum, transtulerit vel ad rerum ordinem vel ad humanae vitae moralitatem" (Seznec, 1940, trad. it. p. 121). In età carolingia l'interpretazione filosofica edificante della m., cui era ispirata l'opera di Rabano Mauro, informa anche un carme di Teodulfo di Orléans (De libris quos legere solebam; PL, CV, coll. 331-332), secondo cui Proteo è la verità ed Ercole la virtù.Tale processo di allegorizzazione, che portò spesso a fondere la m. con la teologia, trovò continuità nei secoli successivi nei manoscritti di trattati allegorici sugli dei, basati, più che su autori classici, su mitografi tardi come Lattanzio, Servio, Macrobio, Marziano Capella e Fulgenzio, i quali tendevano a cercare un significato recondito dietro le favole mitologiche. Un'interpretatio christiana di un Ercole antico è rappresentata dai due rilievi sull'esterno della basilica di S. Marco a Venezia, studiati da Panofsky (1939; 1960) in rapporto alle sue riflessioni sui fenomeni di rinascenza. Se qui la trasformazione del modello antico del rilievo del sec. 3° è in rapporto alla trasposizione in chiave cristiana della divinità mitologica, trasformata in allegoria della salvazione nel rilievo del sec. 13°, in altri casi la ripresa di modelli classici in figurazioni medievali, come per es. nelle decorazioni del Kaiserpokal di Osnabrück (Rathaus), in Germania, del 1300 ca., non esclude un'interpretazione allegorico-morale in rapporto al contesto o all'uso dell'oggetto, probabilmente adattato a funzioni liturgiche (Panofsky, 1960, figg. 68-78).A questa tendenza allegorica è informato il commento di Remigio di Auxerre al De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (v.), al quale, come è noto, si deve la definizione del canone delle arti liberali. Le immagini che illustrano questa opera a partire dall'inizio del sec. 12° sono generalmente basate esclusivamente sui testi, in assenza di modelli formali. Ma i diversi passaggi da una lezione all'altra hanno spesso determinato dei travisamenti nelle figurazioni, che diventano a volte vere e proprie parodie dei soggetti originali. Curiose fra le altre sono le immagini di Saturno e di Mercurio nella illustrazione del manoscritto monacense del commento di Remigio di Auxerre (Monaco, Bayer. Staatsbibl., lat. 14271, c. 11r; Seznec, 1940, trad. it. p. 189, fig. 67).Oltre alla mancanza di modelli figurativi, la derivazione da più autori o ancora la corruzione dei testi sono all'origine di figure mitologiche a volte quasi irriconoscibili, che possono anche determinare interpretazioni fuorvianti. È per es. un'errata derivazione dal tipo del Mercurio-Anubi quella proposta dall'illustratore del citato manoscritto di Montecassino del De originibus rerum di Rabano Mauro, che ha scambiato i calzari alati della divinità per un uccello che gli vola tra i piedi (p. 386); mentre dovuto a una corruzione testuale è l'inserimento di un'oca marina al posto di una concha, tradizionale attributo di Venere, nella miniatura del manoscritto parigino dell'Ovide moralisé, del 1380 ca. (Parigi, BN, fr. 373, c. 207r). Uno dei monumenti più straordinari dell'allegoresi cristiana applicata alla m. è il Fulgentius metaphoralis di John Ridevall, della metà del sec. 15°; qui il rivestimento medievale delle figurazioni mitologiche è esemplare, mentre del tutto arbitrarie sono spesso le interpretazioni testuali nelle rispettive traduzioni in immagini (Roma, BAV, Pal. lat. 1066, c. 223v; Seznec, 1940, fig. 30).Fra il sec. 12° e il 13° altri trattati esercitarono una profonda influenza sulle figurazioni mitologiche; primo fra tutti il Liber imaginum deorum attribuito ad Alberico di Londra, identificato con Alexander Neckham (m. nel 1217). Il Liber, il cui testo corrisponde a quello del Mythographus Tertius (Roma, BAV, Vat. lat. 3413), come gli altri trattati mitografici caratterizzati da una tendenza allegorica dei miti, si basa sulle fonti tardoantiche e sulle enciclopedie medievali; le immagini da esso ispirate, dunque, al di là della fedeltà a originali antichi, riflettono spesso, con sovrapposizioni di significato, le diverse tradizioni, corruzioni o misinterpretazioni dei testi cui il Liber imaginum deorum attinge. Derivato dal Liber, ma con la mediazione di Francesco Petrarca, è il Libellus de imaginibus deorum, conservato insieme al testo precedente in un manoscritto quattrocentesco (Roma, BAV, Reg. lat. 1290), già attribuito allo stesso Alberico, ma in realtà più tardo di due secoli ca., opera anonima privata da ogni commento allegorico, che riprende la descrizione degli dei contenuta nell'introduzione alla Metamorphosis Ovidiana moraliter explanata, o Ovidius moralizatus, che costituisce il XV libro del Reductorium morale di Petrus Berchorius, composto ad Avignone intorno al 1340. Questa introduzione, dal titolo De formis figurisque deorum, venne premessa in maniera autonoma anche all'Ovide moralisé, un lunghissimo poema di incerto autore, scritto in francese fra il 1316 e il 1328.La tradizione delle Metamorfosi di Ovidio riveste un ruolo importante tanto per la trasmissione delle divinità mitologiche nel Medioevo quanto per la diffusione della tradizione letteraria e iconografica nell'età rinascimentale a partire dal sec. 15°, quando le favole mitologiche raccontate da Ovidio divennero la bibbia dei pittori. Ma l'opera di questo autore, levior poëta, non venne quasi considerata fino al sec. 12°, quando incominciarono ad apparire le prime interpretazioni del testo a opera di Arnolfo d'Orléans e di Giovanni di Garlandia, sulle quali si basò agli inizi del sec. 14° Giovanni del Virgilio per le sue Expositiones alla base del volgarizzamento di Giovanni Bonsignori, che fu poi il testo della prima edizione a stampa illustrata apparsa a Venezia nel 1497 (Ghisalberti, 1931; 1932). Ma le prime illustrazioni delle Metamorfosi risalgono solo al sec. 14°; si tratta dei disegni di Arrigo Simintendi, un notaio di Prato, che verso il 1350 curò una traduzione in prosa volgare delle Metamorfosi, l'Ovidio Maggiore. Intorno a quest'epoca si assiste a una vera e propria esplosione di interesse per le favole ovidiane attraverso il già citato Ovidius moralizatus di Petrus Berchorius e l'Ovide moralisé, che con il suo pesante apparato allegorico-morale contribuì, attraverso le illustrazioni, a diffondere e a far sopravvivere la tradizione delle Metamorfosi ovidiane. Queste opere sono caratterizzate da un'interpretazione morale delle figure mitologiche: Apollo viene così a identificarsi con Cristo, Diana con la Madonna; l'uccisione del cervo da parte di quest'ultima, nell'episodio della morte di Atteone, sta a significare la punizione dei superbi, che si identificano con il diavolo. Nelle illustrazioni, caratterizzate per una maggiore narratività nell'Ovide moralisé e viceversa per un'impronta più didattica nell'Ovidius di Berchorius, la fedeltà al testo classico è spesso disattesa dalla lettura del disegnatore, non sempre in grado di tradurre correttamente in immagine il dato testuale (Ovide moralisé, Parigi, BN, fr. 373, del 1380 ca.; Ovide moralisé, Ginevra, Bibl. publique et univ., fr. 176, fine del sec. 14°; Ovidius moralizatus, Treviso, Bibl. Com., 344).La tradizione testuale e iconografica delle Metamorfosi venne mantenuta viva anche grazie ad alcuni noti testi del Trecento, dagli Echecs amoureux, all'Epître d'Othéa di Christine de Pisan, al Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meung. In queste opere vengono ripresi solo alcuni miti ovidiani, che sotto forma di sogno o di insegnamento morale si inseriscono nel racconto delle rispettive opere. L'apparato illustrativo dei numerosi codici fissò ulteriormente l'iconografia delle mitologie ovidiane, attraverso un gusto squisitamente cortese che, implicando anche contaminazioni iconografiche, diede vita a una tradizione essenzialmente nordeuropea, che trovò continuità in tutto il sec. 16° nella produzione incisoria, pittorica ma soprattutto illustrativa anche delle edizioni a stampa delle stesse Metamorfosi. Le illustrazioni di Bernard Salomon o di Virgil Solis infatti rivelano ancora un'adesione ai moduli formali e iconografici delle miniature trecentesche delle moralizzazioni ovidiane o dei manoscritti dell'opera di Christine de Pisan o del Roman de la Rose, contribuendo così alla definizione di una tradizione iconografica e alla diffusione del gusto 'alla borgognona' (Tuve, 1966; Fleming, 1969; Allen, 1970). Esemplificativa in questo senso è la sopravvivenza dell'iconografia di Diana e Atteone al bagno, a partire dalla miniatura dell'Epître d'Othéa (Bruxelles, Bibl. Royale, 9392) fino all'illustrazione dell'edizione cinquecentesca delle Metamorfosi a opera di Bernard Salomon, passando attraverso la produzione incisoria dei maestri nordeuropei. La presenza costante in queste immagini della fontana, assente peraltro nel testo classico di Ovidio, è mutuata dall'iconografia trecentesca dei giardini d'amore, dove la fontana costituiva un tópos iconografico e simbolico, mentre Atteone in veste di cavaliere, a volte addirittura a cavallo, rispondeva agli ideali della cultura cortese. Nel passaggio dalla cultura medievale a quella umanistico-rinascimentale si pone la Genealogia deorum gentilium di Giovanni Boccaccio, che costituisce il primo tentativo di restituzione delle divinità mitologiche alla loro origine classica.In Italia, alla luce già delle prime esperienze degli umanisti padovani alla fine del sec. 13°, si iniziò ad attuare quella reintegrazione di forme classiche con contenuti classici in cui Panofsky (1939; 1960) ha fatto consistere la differenza fra il Rinascimento e le c.d. rinascenze medievali. Lo stile all'antica, con cui le divinità della m. riguadagnarono il loro aspetto greco-romano, attraverso il ricorso da parte degli artisti e/o degli illustratori ai modelli dell'Antichità - statue, monete e anticaglie di ogni genere - o ai testi originali, rivisitati dall'opera filologica degli umanisti, fece il suo ingresso anche nell'ambito delle illustrazioni delle Metamorfosi a partire dalla prima edizione a stampa illustrata del 1497, dove le immagini, pur nella ingenua riproposta dei moduli narrativi, si avviano a emancipare l'Ovidio classico dalle moralizzazioni del secolo precedente (Guthmüller, 1981; Huber-Rebenich, 1992).
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