MOBBING.
- Il fenomeno nella sua dimensione sociologica. I termini di riferimento normativo del problema. L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale della materia. Bibliografia
Il fenomeno nella sua dimensione sociologica. – È noto che il termine mobbing, mutuato dall’etologia, indica l’aggressione fisica di un gruppo di animali, finalizzata ad allontanarne uno dal branco. Trasferito in ambiente umano, il termine mantiene la componente evocativa del gruppo di conviventi in linea di principio mossi da interessi comuni o quanto meno convergenti, tra i quali può tuttavia nascere il desiderio di escludere qualcuno, e, in più, si interseca con dinamiche psicologiche, cognitive e relazionali, ovviamente assai più complesse di quelle animali.
Dagli anni Ottanta del 20° sec. l’analisi del m. ha interessato le scienze sociologiche e psicologiche, le quali, nel tentativo di offrire una prima definizione del fenomeno, hanno incluso, tra gli elementi costitutivi della figura, l’aggressione e la prevaricazione sistematiche, tali da produrre un pregiudizio alla personalità e, in particolare, alla salute del mobbizzato (Leymann 1993, p. 274). Gli studi di sociologia e psicologia in argomento hanno proposto vari modelli che individuano fasi nelle quali si verrebbe a sostanziare il medesimo: in particolare, si ricorderà qui il modello in sei fasi, illustrato da Harald Ege (Ege 2001): dopo una condizione zero, definita di conflitto fisiologico, normale e accettato, dove non c’è da alcuna parte la volontà di distruggere, ma solo quella di elevarsi sugli altri, la prima fase si caratterizza per il conflitto mirato, con l’individuazione della vittima e il dirigersi verso di essa della conflittualità generale; la seconda fase per l’inizio di un senso di disagio e di fastidio da parte della vittima del m. a seguito degli attacchi del mobber; la terza fase per il comparire di disturbi psicosomatici; la quarta fase per l’incremento significativo di assenze per malattia della vittima del m., che dà luogo a un atteggiamento di sospetto nei suoi confronti del-l’ufficio incaricato dell’amministrazione del personale; la quinta fase per il serio aggravamento della salute della vittima; la sesta fase per l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro, attraverso dimissioni, prepensionamento o, nei casi più gravi, a seguito di gesti estremi (per es., il suicidio).
Nel complesso si può osservare che il m. è un fenomeno comportamentale che non può che essere pensato all’interno di un contesto particolarmente qualificato in cui una pluralità di esseri umani interagiscano tra di loro. Questa considerazione permette di spiegare la ragione per la quale le fattispecie di m. sono state ipotizzate nelle situazioni che presentino la caratteristica fondamentale appena illustrata e, dunque, soprattutto, nei rapporti di lavoro subordinato, cui si riferiscono la casistica giurisprudenziale e l’elaborazione dottrinale delle quali si tenterà di rendere sinteticamente conto.
Chiudendo il discorso relativo alla rilevazione sociologica del fenomeno, si deve osservare che, a fronte della ‘fortuna’ dell’idea e della percezione assai frequente da parte dei lavoratori di essere destinatari di azioni di m., i casi giurisprudenziali nei quali sia stata riconosciuta la fondatezza delle domande (per lo più, di contenuto risarcitorio) proposte sono relativamente rari: ciò probabilmente si ricollega sia al fatto che spesso i lavoratori avvertono situazioni mobbizzanti che si palesano in realtà prive di consistenza (per es., perché si accerta che la situazione ha origine in realtà da un clima di conflitto che non assurge a livello patologico ovvero, e addirittura, è originato dalla condotta dello stesso lavoratore che agisce in giudizio: cfr. per es., per un caso del genere, Cassazione 21 apr. 2009 nr. 9477), sia alla difficoltà di assolvere l’onere probatorio gravante su colui che assume di essere vittima del mobbing.
I termini di riferimento normativo del problema. – Dal punto di vista della disciplina normativa del problema, e soffermandosi sul m. all’interno dell’area dei rapporti di lavoro (specificamente, quelli di lavoro subordinato, in quanto tali da determinare quella ‘vicinanza’ di contatto sociale che, configurando un gruppo, può innescare i fenomeni di emarginazione e di espulsione di un individuo dal medesimo, nel quale si risolve l’essenza del m.), il termine di riferimento fondamentale del discorso deve essere ravvisato nell’art. 2087 c.c., che sancisce l’obbligo del datore di lavoro di adottare, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, le misure idonee a proteggere l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore subordinato. Pertanto, questa disposizione impone al datore di lavoro non solo di astenersi da comportamenti intesi ad aggredire la personalità del lavoratore, ma altresì di attivarsi per impedire che altri dipendenti li pongano in essere.
Ulteriori punti di emersione normativa dell’istanza di tutela degli interessi del lavoratore sottostante alla figura del m. si colgono nella Costituzione. Vengono in considerazione, in particolare, di questo testo normativo l’art. 2, in materia di riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo; l’art. 3, che esprime un’indicazione normativa di fondo nel senso del rifiuto di qualsiasi trattamento discriminatorio tra i cittadini (ma va precisato che è ancora discussa l’effettiva riferibilità anche ai rapporti interprivati del principio di eguaglianza); l’art. 4, che riconoscendo a tutti i cittadini il diritto al lavoro, rappresenta il referente a livello costituzionale più diretto della legislazione ordinaria in materia di tutela delle condizioni di lavoro; l’art. 32, che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo; l’art. 41, che, nel bilanciamento tra interessi attinenti all’attività produttiva e imprenditoriale e interessi relativi alla tutela della persona, privilegia senz’altro questi ultimi.
Il quadro normativo, a livello di principi generali, si completa con la considerazione delle disposizioni degli artt. 151 e 153 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea (i quali fissano come obiettivi dell’Unione e degli Stati membri il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori e impegnano l’Unione a sostenere e completare l’azione degli Stati membri nel proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori e nel rendere migliori le condizioni di lavoro) e degli artt. 1 (in materia di dignità umana), 3 (in materia di diritto della persona alla propria integrità fisica e psichica), 21 (in materia di non discriminazione) e 31 (sul diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha la stessa efficacia normativa dei trattati istitutivi dell’Unione.
Si debbono, poi, segnalare interventi normativi a livello di legislazione regionale, che tuttavia hanno dato luogo a dubbi di legittimità costituzionale, almeno in un caso accolti; il riferimento è alla l. reg. del Lazio dell’11 luglio 2002 nr. 16, che è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale (sentenza 10 dic. 2003 nr. 359) per contrasto con l’art. 117, co. 2°, lett. g) e l), perché muoveva da una definizione generale di m. ritenuta tale da invadere la competenza legislativa statuale in materia di rapporti di diritto privato, dovendo ritenersi secondo la Consulta precluso alle Regioni di intervenire in ambiti di potestà normativa concorrente con quella statuale, dettando norme che vanno a incidere sul terreno dei diritti fondamentali.
L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale della materia. – La rilevazione del contenuto di queste fonti normative evidenzia l’assenza di una regolamentazione specifica del fenomeno e ancor più di una definizione puntuale del medesimo: questa circostanza ha reso particolarmente significativo in materia l’apporto dell’elaborazione giurisprudenziale e di quella dottrinale.
In particolare, e sul versante della messa a punto dei caratteri della figura, uno snodo di particolare rilievo attiene alla necessità, o meno, per integrare la medesima, di un intento del datore di lavoro qualificabile come dolo o, addirittura, come dolo specifico. Infatti, secondo l’opinione che appare dominante in giurisprudenza, il m. si caratterizzerebbe proprio per la presenza di un elemento soggettivo dell’illecito datoriale configurabile in questi termini. Si è in particolare osservato che «per ‘mobbing’ si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro – secondo questa impostazione – sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. È stato altresì precisato (Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) che la sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata [...] considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato» (Cassazione 10 genn. 2012 nr. 87 e, nello stesso senso, la sentenza 13 sett. 2012 nr. 15346).
La ricostruzione appena richiamata è abbastanza diffusa, tanto che, da ultimo, è stato ribadito che il m. presuppone una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico protratta e continuata nel tempo che si manifesta con comportamenti ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti e incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto di lavoro ed espressivi di un disegno finalizzato in realtà alla persecuzione o vessazione del lavoratore (Consiglio di Stato 4 nov. 2014 nr. 5419: la stessa decisione ha precisato che non possono ravvisarsi gli estremi del m. in episodi che evidenzino meri screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro, come tali non caratterizzati da volontà persecutoria, essendo invece ricollegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatia reciproca). La necessità, al fine di configurare l’ipotesi di fatto del m., che comportamenti vessatori o persecutori siano protratti nel tempo, che vi sia un evento lesivo, cagionato dalle vessazioni continue, e che sia presente l’elemento soggettivo, è confermata anche da Cassione 25 sett. 2014 nr. 20230.
L’orientamento appena esposto, che reputa necessario uno specifico elemento soggettivo per integrare l’illecito di m., si spiega alla luce di due considerazioni. Innanzi tutto, e come è stato rilevato in dottrina, perché una delle tendenze generali dell’argomentazione giuridica consiste nel «rappresentare le nuove figure di illecito o le nuove forme di violazione del contratto, per lo meno nella prima fase della loro concettualizzazione, come fattispecie dolose, probabilmente nel tentativo – più o meno consapevole – di circoscriverne la portata e di limitare i margini della giurisprudenza in sede di applicazione» (Mazzamuto 2006, p. 1356). In secondo luogo, in quanto è proprio l’affermazione della necessità di un elemento soggettivo così peculiarmente qualificato, che consente di unificare, permeandole di sé, anche singole condotte datoriali di per sé non illecite: esito applicativo, quest’ultimo, che, secondo un orientamento dottrinale, costituirebbe il vero progresso assicurato dalla figura del m., là dove questo permette di «superare il problema della rilevanza giuridica delle singole condotte, spostando il giudizio di responsabilità dai diversi episodi ripetuti nel tempo all’insieme di atti e di omissioni che compongono l’azione mobbizzante», con la conseguenza che «la valutazione di antigiuridicità del comportamento dei mobbers viene [...] a giocarsi non sulle singole condotte, ma sull’insieme a cui le stesse si riducono» (Bona, Monateri, Oliva 2002, pp. 34-36).
È, poi, indubbio che, al fine di integrare il m., debba sussistere l’elemento della reiterazione delle condotte datoriali nel tempo (così, per es., Scognamiglio 2004, p. 496, il quale assegna un peso significativo, nella configurazione in concreto della condotta mobbizzante, ai profili della durata e della frequenza), essendo le medesime destinate a restare altrimenti irrilevanti. Una volta individuati i tratti costitutivi della fattispecie del m., diventa agevole impostare la questione degli elementi che il lavoratore interessato a farlo valere dovrà dimostrare, se del caso avvalendosi anche della prova a mezzo di presunzioni, che permette di desumere da un fatto ignoto un fatto noto che del primo possa dirsi inequivoca conseguenza logica.
L’approfondimento del discorso sul m. consente di proporre alcune distinzioni che si è in effetti soliti tracciare, e che possono presentare ricadute non trascurabili a livello di disciplina sotto il profilo della qualificazione della responsabilità, in relazione al soggetto che concretamente ponga in essere la condotta persecutoria. Infatti, qualora, nel rapporto di lavoro, la condotta persecutoria sia compiuta senz’altro dal datore di lavoro, si verificherà il cd. m. verticale discendente, detto anche bossing; mentre ove le ostilità abbiano origine dai colleghi di lavoro si assisterà al cd. m. orizzontale (qualora i diretti responsabili del m. fossero pariordinati rispetto al mobbizzato) oppure al cd. m. ascendente (quando gli autori della condotta sono i sottoposti).
Ricollegato il fenomeno del m. alla disposizione dell’art. 2087 c.c., ne discende il corollario della natura contrattuale della responsabilità nella quale incorre il datore di lavoro che ponga in essere la condotta mobbizzante o che non ne impedisca l’attuazione da parte degli altri suoi dipendenti (tra gli altri, Vallebona 2006, pp. 8-10). Proprio partendo da questa premessa, si è sottolineata in dottrina l’opportunità di farne derivare tutte le conseguenze in termini di rimedi per il lavoratore destinatario della condotta mobbizzante, evitando un appiattimento degli stessi sul solo risarcimento del danno, che, pure, nella realtà giurisprudenziale costituisce lo sbocco più ricorrente delle domande con le quali sia lamentata una situazione di mobbing.
In particolare, inserito il discorso in un contesto di responsabilità contrattuale, sarebbe «dischiuso alla vittima del mobbing l’intero serbatoio di rimedi predisposti dall’ordinamento contro le forme di violazione del contratto e, dunque, non il solo risarcimento del danno» (Mazzamuto 2006, p. 1365).
Le considerazioni appena richiamate permettono anche di chiarire che, appunto a onta dello sbilanciamento sul versante del rimedio risarcitorio che l’elaborazione della figura del m. registra, quest’ultimo non può essere considerato come una voce di danno, ma come un’ipotesi di illecito caratterizzata dalle peculiarità sopra esposte, e dalla quale, una volta riscontratane l’esistenza, potranno discendere danni di natura sia patrimoniale sia non patrimoniale (cfr. Del Punta, in Il mobbing, 2004).
Bibliografia: H Leymann, Ätiologie und Häufigkeit vonMobbing am Arbeitsplatz - eine Übersicht über die bisherige Forschung, «Zeitschrift für Personalforschung», 1993, pp. 271-84; H.Ege, Il mobbing in Italia, Bologna 1997; H. Ege, Mobbing. Conoscerlo per vincerlo, Milano 2001; M. Bona, P.G. Monateri, U. Oliva, La responsabilità civile nel mobbing, Milano 2002; R. Scognamiglio, A proposito del mobbing, «Rivista italiana di diritto del lavoro», 2004, 1ª parte, pp. 489-519; Il mobbing, a cura di P. Tosi, Torino 2004 (in partic. R. Del Punta, Il mobbing: l’illecito ed il danno, pp. 65-82); S. Mazzamuto, Ancora sul mobbing, «Europadiritto privato», 2006, pp. 1353-65; A. Vallebona, Mobbing:qualificazione, oneri probatori e rimedi, «Massimario di giurisprudenza del lavoro», 2006, pp. 8-11.