mobbing
<mòbiṅ> s. ingl., usato in it. al masch. – Condotta persecutoria, reiterata e duratura, subita dal lavoratore nel luogo di lavoro. È un istituto di elaborazione giurisprudenziale ancora privo di una definizione legislativa. Se la condotta persecutoria è posta in essere dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici del lavoratore il m. si definisce verticale, mentre se i persecutori sono i colleghi del lavoratore il m. è orizzontale. In ogni caso il datore di lavoro è contrattualmente responsabile in quanto ai sensi dell’art. 2087 del cod. civ. egli è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie per la tutela dell’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Non può essere esclusa anche una concorrente responsabilità extracontrattuale del superiore gerarchico o semplice collega che pone in essere la condotta mobbizzante. Il termine m. trova origine nel verbo inglese «to mob» variamente tradotto in italiano con «fare ressa», «affollarsi intorno a», «assalire in massa», «accerchiare». La condotta mobbizzante può consistere in comportamenti civilmente o penalmente illeciti quali sono, per es., il demansionamento, la discriminazione, la sanzione disciplinare illegittima, le ingiurie, la diffamazione. In tal caso la natura illecita dei singoli comportamenti, nei quali si manifesta la condotta mobbizzante, legittima certamente il lavoratore ad agire giudizialmente con l’azione di adempimento contrattuale e di risarcimento dei danni subiti. In altre occasioni, invece, il m. può configurarsi nella reiterazione di comportamenti in sé legittimi del datore di lavoro ma complessivamente diretti a perseguitare il lavoratore ond’è che il comportamento tenuto può essere qualificato come illecito esclusivamente se caratterizzato dalla sistematicità e permanenza della condotta vessatoria. Nei confronti del datore di lavoro il m. si configura come inadempimento contrattuale, quale violazione di un obbligo di fare (impedire il comportamento mobbizzante) o di non fare (non porre in essere una condotta mobbizzante). Ricade quindi sul lavoratore l’onere di dimostrare, nel primo caso, la persecuzione subita da parte dei colleghi e la sua conoscenza da parte del datore di lavoro, e, nel secondo, la violazione da parte del datore di lavoro del divieto di porre in essere comportamenti persecutori. In caso di m. il lavoratore ha diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali eventualmente subiti ove ne dimostri l’esistenza e la riconducibilità causale al comportamento mobbizzante. La normativa europea con le direttive n. 2000/43 e n. 2000/78, pur non avendo a oggetto il m., ha definito il concetto di molestia morale e sessuale, in cui spesso il m. si manifesta. Questa tipologia di molestia viene ravvisata in quel comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. Tale definizione è stata integralmente recepita dalla legislazione italiana, che appunto qualifica la molestia discriminatoria come un comportamento «indesiderato avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (art. 2, comma 3°, del d. lgs. n. 251 e 216 del 2003; art. 26 d. lgs. n. 198 del 2006).