Mobilita sociale
di Daniele Checchi e Valentino Dardanoni
Mobilità sociale
sommario: 1. Definizione. 2. Perché analizzare la mobilità sociale? 3. L'evoluzione storica della mobilità sociale. 4. Alcuni modelli sui determinanti della mobilità sociale. 5. Problemi di misura. 6. Un esempio riguardante l'andamento della mobilità intergenerazionale nel dopoguerra in Italia. □ Bibliografia.
1. Definizione
Nella sua forma più generale, il fenomeno della mobilità sociale è definito come il passaggio da una collocazione sociale iniziale (l'origine) a una collocazione sociale finale (la destinazione). La collocazione sociale può esprimersi secondo modalità diverse, in quanto può fare riferimento a posizioni assolute (tipico esempio è il reddito guadagnato da un individuo, che permette di collocare tale individuo nella distribuzione dei redditi della collettività), a posizioni relative (se si fa riferimento alla quota di reddito di cui un individuo gode rispetto al reddito complessivo della popolazione), a posizioni ordinali (come il possesso di un titolo di studio o l'appartenenza a una classe sociale, variabili che sono ordinabili solamente secondo un criterio di tipo qualitativo) o anche solo a categorie nominali non ordinabili (come le credenze religiose o politiche, o persino la residenza geografica).
Il concetto di mobilità intreccia strettamente due fenomeni distinti: da un lato l'evoluzione temporale, in quanto la collocazione sociale viene registrata in due istanti di tempo diversi; dall'altro la distribuzione di una risorsa (tipicamente lo status socio-economico) all'interno di una popolazione. Si può quindi affermare che lo studio della mobilità sociale consiste nell'analisi dell'evoluzione nel tempo della distribuzione di una risorsa all'interno di una popolazione. Se si utilizzano risorse che possono essere ordinate secondo un dato criterio di status socio-economico, si parlerà di 'mobilità verticale' (in quanto si studia il movimento in ascesa o in discesa nella gerarchia dei diversi status sociali); in alternativa, si parlerà di 'mobilità orizzontale' (in quanto si osserva il movimento all'interno di categorie non ordinabili).
Lo studio della mobilità sociale può riguardare il movimento di ascesa (o declino) di singoli individui, di singole famiglie oppure di interi gruppi (classi sociali, gruppi etnici, categorie occupazionali e così via). In questo contesto ci soffermeremo principalmente sulla mobilità sociale verticale di individui o famiglie, che rappresenta oggi l'oggetto di interesse prevalente negli studi di settore. In altre parole, con il termine 'mobilità sociale' si intenderà il cambiamento di status nel tempo di un individuo o di una famiglia. Quando si analizzano i cambiamenti di status sociale di un singolo individuo si fa riferimento al concetto di 'mobilità infragenerazionale', mentre invece si parla di 'mobilità intergenerazionale' quando ci si riferisce ai cambiamenti di status sociale di una dinastia (cioè nel passaggio dalla generazione dei genitori a quella dei figli). Poiché gli strumenti analitici non differiscono nei due casi, i problemi di misurazione saranno illustrati in riferimento alla mobilità intergenerazionale, ma possono essere immediatamente riformulati in riferimento alla mobilità infragenerazionale.
Una volta definito l'oggetto di studio, la mobilità intergenerazionale, esso può essere analizzato in chiave sia descrittiva, sia normativa. Sul primo versante sono numerose le analisi che hanno messo a confronto sistemi sociali diversi, cercando di fornire risposte alle domande sulle cause della mobilità sociale, tipicamente facendo riferimento alle caratteristiche del sistema scolastico e del mercato del lavoro locale. Sul secondo versante, l'analisi normativa ha cercato di suggerire se e in quale misura la mobilità possa essere considerata benefica dal punto di vista sociale, in quanto essa opera in senso ridistribuivo sulle opportunità di ascesa di individui di diversa origine sociale.
2. Perché analizzare la mobilità sociale?
Già intorno al 380 a. C., nella Repubblica, Platone classificava gli individui in tre gruppi 'd'oro', 'd'argento' e 'di bronzo', e sosteneva che i genitori 'd'oro' che avessero figli 'di bronzo' avrebbero dovuto riconoscerne i limiti e prendere coscienza dei rischi connessi, in quanto lasciare la conduzione degli affari a individui 'di bronzo' solo perché provenienti da famiglie 'd'oro' avrebbe causato una sicura rovina per l'organizzazione dello Stato. Viceversa, l'organizzazione sociale avrebbe dovuto fare in modo che gli individui 'd'oro' fossero riconosciuti come tali (indipendentemente dalle loro origini) e potessero assumere posizioni appropriate. In termini più moderni si può riformulare lo stesso concetto sostenendo che una società che garantisca un'adeguata mobilità sociale è una società efficiente (in quanto gli individui più capaci svolgono ruoli di maggiore responsabilità, ricoprendo posizioni di più elevato status socio-economico), ed è nel contempo anche più equa (perché garantisce eguali opportunità di accesso sulla base delle capacità individuali).
Analogamente, molti secoli dopo, Vilfredo Pareto, riferendosi alla mobilità nelle posizioni occupazionali, che a suo parere sintetizzavano la distribuzione della ricchezza e del potere, associò il concetto di mobilità a quello di stabilità dell'equilibrio sociale, con ciò intendendo sia un equilibrio economico - la permanenza di una distribuzione asimmetrica dei redditi, in seguito battezzata 'legge di Pareto' -, sia un equilibrio politico - la capacità delle élites di esercitare il governo sul resto della popolazione. Una limitata mobilità non avrebbe permesso un'adeguata selezione e cooptazione degli elementi migliori provenienti dagli strati bassi, e nel contempo non avrebbe eliminato gli elementi più scadenti delle élites. Questo avrebbe prodotto la mancata legittimazione di un governo basato sul principio aristocratico, e avrebbe condotto nel medio-lungo periodo a un rovesciamento rivoluzionario: "Non è solo l'accumularsi di elementi inferiori in uno strato sociale che nuoce alla società, ma anche l'accumularsi in strati inferiori di elementi eletti che sono impediti di salire. Quando ad un tempo gli strati superiori sono ripieni di elementi decaduti e gli strati inferiori sono ripieni di elementi eletti, l'equilibrio sociale diventa sommamente instabile ed una rivoluzione violenta è imminente." (v. Pareto, 1906, pp. 369-370).
Dati gli evidenti risvolti etico-politici della discussione sulla mobilità sociale, il dibattito successivo a Pareto ha teso a dividersi in modo precostituito tra chi riteneva che un sufficiente grado di mobilità sociale rendesse accettabile la disuguaglianza prodotta dallo sviluppo capitalistico, perché avrebbe rappresentato una forma di stimolo all'ascesa sociale, e chi invece riteneva marginale il ruolo esercitato dalla mobilità in un contesto di rigida divisione del lavoro. Nel primo filone, oltre ad alcuni esponenti della corrente del socialismo revisionista, sono collocabili i contributi di Peter M. Blau e Otis D. Duncan, secondo i quali la tendenza delle società occidentali verso l'universalismo avrebbe prevenuto qualsiasi ipotesi di trasformazione di tipo rivoluzionario: "Nella misura in cui elevate possibilità di mobilità riducono sia l'insoddisfazione sociale verso la stratificazione, sia l'inclinazione a organizzare l'opposizione ad essa, esse contribuiscono a perpetuare il sistema di stratificazione vigente e nel contempo rafforzano le istituzioni politiche che lo sostengono" (v. Blau e Duncan, 1967, p. 440). In questo caso la mobilità era definita come mobilità occupazionale, dopo aver ordinato le occupazioni secondo il prestigio sociale goduto da ciascuna di esse. Si trattava quindi di percorsi individuali o familiari attraverso la gerarchia sociale definita come un continuum di posizioni raggiungibili.
Al secondo filone sono invece riconducibili le analisi sulla stratificazione sociale, di cui molte di ispirazione marxista. In questo caso la presenza di mobilità occupazionale costituiva una sfida al concetto stesso di classe basato sulla divisione sociale del lavoro: "In generale, tanto maggiore è il grado di 'chiusura' delle opportunità di mobilità - sia nell'ambito di diverse generazioni, sia nella carriera di ogni singolo soggetto - tanto più è facile la formazione di classi identificabili in quanto tali. Infatti, l'effetto della chiusura in termini di mobilità intergenerazionale è quello di permettere la riproduzione in generazioni diverse delle stesse esperienze di vita; e questa omogeneizzazione delle esperienze è rafforzata nella misura in cui gli spostamenti all'interno del mercato del lavoro sono limitati ad occupazioni che fruttano una gamma abbastanza simile di benefici materiali" (v. Giddens, 1973; tr. it., pp. 154-155).
In anni più recenti alcuni economisti, seguendo i dettami dell'individualismo metodologico, hanno riproposto l'analisi della mobilità in termini di benessere a partire dallo studio della disuguaglianza (v. Atkinson, Income..., e The measurement..., 1983; v. Dardanoni, 1993). Infatti, lo studio della mobilità sociale può essere pensato come un'analisi dinamica della disuguaglianza. L'analisi statica della disuguaglianza ha come riferimento la distribuzione di un indicatore di benessere socio-economico in un dato momento all'interno di una determinata società, ma i limiti di tale analisi sono stati messi in evidenza già da Milton Friedman, il quale sosteneva che la disuguaglianza in un sistema sociale rigido in cui ogni individuo mantiene la sua posizione nel tempo è sicuramente più preoccupante di quella che si registra in un sistema sociale mobile e dinamico: "Un problema essenziale nell'interpretazione dei dati sulla distribuzione del reddito è la necessità di distinguere due generi radicalmente diversi di diseguaglianza: differenze di reddito temporanee e di breve periodo e differenze di reddito di lungo periodo. Consideriamo due società che abbiano la stessa distribuzione di reddito annuo. In una c'è un notevole grado di mobilità e di mutamento, sicché la posizione delle singole famiglie nella scala dei redditi varia considerevolmente da un anno all'altro. Nell'altra c'è invece una grande rigidità, sicché ciascuna famiglia resta nella stessa posizione per molti anni. Senza dubbio, nel senso significativo del termine, la seconda delle due società sarebbe quella che presenta un maggior grado di diseguaglianza. Il primo genere di diseguaglianza è sintomo di mutamento dinamico, di mobilità sociale, di livellamento delle opportunità; il secondo è sintomo di una società immobilistica" (v. Friedman, 1962; tr. it., pp. 229-230).
A titolo esemplificativo, consideriamo due ipotetiche società composte entrambe da due soli individui. In ciascuna di esse la distribuzione iniziale dello status socio-economico sia data da (1,10), dove 1 rappresenta lo status del primo individuo e 10 quello del secondo. Supponiamo ora di poter osservare le due società in un periodo successivo (o nella generazione successiva) e di riscontrare che la società A è ancora caratterizzata dalla distribuzione (1,10), mentre la società B è ora caratterizzata da (10,1). La semplice analisi statica di queste due società rivelerebbe in ogni momento in entrambe la presenza di un elevato livello di disuguaglianza, in quanto un individuo si trova a possedere un livello di benessere dieci volte maggiore dell'altro. L'analisi statica ne concluderebbe che in A e in B è presente lo stesso livello di disuguaglianza. Tuttavia, se guardiamo il livello di benessere complessivo dei due individui (o delle due dinastie, se stiamo osservando due generazioni), per esempio considerando il livello di benessere medio dei due periodi, chiaramente le due società differiscono in termini di disuguaglianza, in quanto la società B si rivela una società perfettamente egualitaria in termini di benessere medio, mentre al contrario la società A mantiene inalterata nel tempo la disuguaglianza iniziale.
È tuttavia evidente che un giudizio ultimativo in termini di equità può essere formulato solo in riferimento alle cause della disuguaglianza e alle modalità di perpetuazione della stessa nel tempo. Anche immaginando che la distribuzione iniziale dello status sia il riflesso di una diseguale distribuzione delle abilità individuali, la distribuzione finale dipende dalla possibilità di competizione meritocratica all'interno della società. La società A (che potremmo caratterizzare come 'socialmente immobile') restituisce l'immagine di un sistema sociale chiuso, dove la posizione sociale resta immutabile (per esempio in tutti i casi in cui la classe di appartenenza viene trasferita ereditariamente) e lo status sociale individuale viene determinato in modo ascrittivo. Viceversa, la società B (che per converso caratterizzeremo come 'socialmente mobile') può rappresentare il caso di un sistema sociale aperto, dove gli individui possono competere tra loro per il conseguimento delle posizioni più elevate indipendentemente dalle condizioni di origine; in questo caso lo status sociale viene determinato in modo acquisitivo.
3. L'evoluzione storica della mobilità sociale
Uno dei principali temi di dibattito tra gli studiosi della mobilità è stato quello della sua evoluzione storica a partire dalla rivoluzione industriale del XIX secolo. La trasformazione dei sistemi sociali a base agricola in società industriali ha infatti prodotto massicci cambiamenti nella struttura occupazionale; la scolarizzazione di massa ha inoltre migliorato le possibilità formative e ha aperto l'accesso alle posizioni sociali apicali. In aggiunta a questi due elementi, anche lo sviluppo sia delle politiche assistenziali di welfare, sia delle politiche di pari opportunità nei confronti delle minoranze escluse possono aver significativamente contribuito ad allargare le possibilità di mobilità sociale negli ultimi due secoli. In un importante contributo recente, Robert Erikson e John H. Goldthorpe (v., 1992) hanno messo a confronto due tesi di fondo: la prima afferma che l'industrializzazione, con le sue inevitabili implicazioni in termini di razionalità e di scelta efficiente, non può che accrescere le opportunità di mobilità sociale; la seconda, invece, seguendo la letteratura marxista, mette in luce come l'industrializzazione rinforzi la riproduzione della stratificazione sociale ai fini del buon funzionamento del capitalismo, annullando pertanto le opportunità di mobilità.
Questo dibattito non si è concluso. Anche se oggi l'analisi marxista delle società capitalistiche non ottiene molto seguito, rimane aperta la discussione sul grado effettivo di mobilità sociale nelle società moderne. La mancanza di serie storiche sufficientemente lunghe impedisce di discriminare sul terreno empirico la bontà esplicativa di ciascun punto di vista. Principalmente per questa ragione, molti studiosi hanno preferito orientarsi verso un'analisi comparata del grado di mobilità sociale, prendendo gli Stati Uniti, la società attualmente più evoluta dal punto di vista capitalistico, come termine di riferimento: sin dai tempi di Alexis de Tocqueville, infatti, gli Stati Uniti sono stati considerati come una nazione ad alta mobilità sociale. Lo stesso Marx attribuiva la ridotta presenza di un partito comunista negli Stati Uniti proprio alla mancanza di una classe proletaria immobile nel tempo e senza prospettive di avanzamento sociale. Alcuni studi empirici recenti non trovano però conferma univoca di questo fatto: in un confronto tra Italia e Stati Uniti, Daniele Checchi, Andrea Ichino e Aldo Rustichini (v., 1999) affermano che l'Italia è caratterizzata da una maggiore uguaglianza nella distribuzione del reddito, ma anche da una minore mobilità intergenerazionale, non solo nei redditi ma anche nei livelli di istruzione acquisiti. Questo risultato appare controintuitivo, dal momento che il sistema scolastico italiano è sostanzialmente gratuito, e quindi caratterizzato da basse barriere all'accesso; tuttavia, l'assenza di adeguati incentivi dovuta al basso grado di concorrenza meritocratica sul mercato del lavoro compenserebbe ampiamente questo aspetto, conducendo al risultato di minor mobilità. Sempre in confronto con gli Stati Uniti, altri lavori hanno messo in luce come questi ultimi risulterebbero socialmente meno mobili di Germania e Svezia, grazie a una peggiore qualità del sistema scolastico e all'assenza di efficienti sistemi di protezione sociale (v. Solon, 1999).
L'analisi del fenomeno opposto, cioè della presunta maggiore mobilità dei paesi a economia pianificata, oggetto di studio intensivo sino alla fine degli anni ottanta, rappresenta oggi un tema di interesse relativo. In ogni caso, l'evidenza empirica sembrerebbe indicare che mentre nei primi anni del dopoguerra l'espansione dell'istruzione e i cambiamenti strutturali dovuti alla rapida industrializzazione hanno portato i paesi dell'Est europeo a esibire un maggior grado di mobilità intergenerazionale, specialmente in confronto con i paesi dell'Europa occidentale, già alla fine degli anni ottanta il grado di mobilità sociale era pressoché equivalente tra i due blocchi.
4. Alcuni modelli sui determinanti della mobilità sociale
La prima analisi scientifica del processo di mobilità intergenerazionale è senz'altro quella fatta da Francis Galton nel saggio Regression towards mediocrity in hereditary stature del 1886. Dopo aver analizzato i dati sulla statura di migliaia di individui adulti e dei loro genitori, Galton concludeva che quando la statura media dei due genitori (ottenuta dopo aver convertito la statura femminile in statura equivalente maschile) è maggiore della statura media della popolazione, i loro figli tenderanno ad essere più bassi dei loro genitori e, per converso, quando la statura dei genitori è minore della statura media della popolazione, i loro figli tenderanno ad essere più alti. In termini moderni, il modello di trasmissione di statura intergenerazionale di Galton può essere scritto come:
At+1 = (1 - β)ā + βAt + et
dove At+1 è l'altezza dell'individuo, At l'altezza dei corrispondenti genitori, ā l'altezza media della popolazione, et è un elemento idiosincratico nella popolazione e β è il parametro di ereditarietà dell'altezza. Se riscriviamo la stessa relazione come:
(At+1 - ā) = β(At - ā) + et
notiamo che il parametro β può essere interpretato come grado di persistenza intergenerazionale: se un padre ha un'altezza superiore alla media (ovvero (At -ā) 〉 0), al di là di eventi accidentali non prevedibili (il fattore et), anche il figlio tenderà a superare la media di un ammontare proporzionale a β. Se il modello di trasmissione fosse puramente deterministico (et = 0), l'altezza dei figli convergerebbe verso l'altezza media tanto più velocemente quanto più basso è il fattore β (mean regression coefficient). Sulla base dei dati a disposizione, Galton concludeva che β nella trasmissione dell'altezza fosse pari a circa 2/3, rappresentando quindi un processo con elevata persistenza intergenerazionale.
Se sostituiamo la variabile 'altezza' con la variabile 'status socio-economico', il modello di Galton può essere utilizzato per analizzare la mobilità sociale. Infatti il coefficiente di regressione di Yt+1 su Yt è una misura frequentemente utilizzata per le analisi di mobilità.
Gary S. Becker ha proposto una razionalizzazione di questa struttura attraverso un modello di trasmissione intergenerazionale dello status. Quando genitori altruisti hanno a cuore il benessere dei propri figli, essi saranno indotti a donare una parte del proprio reddito, con cui i figli finanzieranno l'acquisizione di istruzione. Poiché si ipotizza che l'istruzione sia la determinante principale del reddito, si creerà persistenza intergenerazionale nei redditi ogniqualvolta i figli di genitori ricchi potranno acquisire maggiore istruzione rispetto ai figli di genitori poveri, posto che questi ultimi non trovino fonti di finanziamento sul mercato. La caratteristica principale del modello di Becker è che il reddito dei figli è determinato dalle scelte razionali di investimento dei genitori, introducendo così degli effetti di 'spiazzamento' (offsetting effects): se il figlio riceve indipendentemente un dollaro (per esempio grazie a un programma di istruzione pubblica), il genitore diminuirà l'investimento di un dollaro: "L'istruzione pubblica e gli altri programmi di aiuto pubblico ai giovani potrebbero non essere efficaci a causa di riduzioni compensative dell'investimento dei genitori" (v. Becker, 1981, p. 153).
Il sistema economico sembra così governato da una legge di moto quasi meccanica, che assomiglia al modello di Galton di regressione alla media. A fondamento di questo risultato sta l'ipotesi centrale al modello secondo cui vi è una specifica trasmissione intergenerazionale delle caratteristiche non osservabili (intelligenza, abilità): se infatti un genitore dotato di intelligenza al di sopra della media si trova a operare in un mondo dove vi è elevata persistenza della trasmissione dell'intelligenza (dove cioè il coefficiente β è vicino a 1), sa di avere con elevata probabilità un figlio altrettanto dotato di intelligenza al di sopra della media, e sarà quindi indotto a investire molto nella sua formazione, rafforzando così la persistenza intergenerazionale nella dinamica del reddito. Per contro, lo stesso genitore in un mondo a bassa persistenza (il coefficiente β è vicino a 0) si attenderà un figlio di intelligenza intorno alla media, e quindi sarà indotto a investire meno; poiché lo stesso atteggiamento si applica simmetricamente ai genitori di intelligenza al di sotto della media, ne consegue una più veloce convergenza dei redditi alla media nel passaggio intergenerazionale.
Il modello di Becker è stato in seguito criticato in quanto ritenuto troppo meccanico: esso prevede infatti che la persistenza nella trasmissione intergenerazionale sia identica qualora si considerino alternativamente l'intelligenza, l'istruzione, il reddito o la ricchezza degli individui. Casey B. Mulligan (v., 1997) ha proposto di analizzare separatamente la trasmissione intergenerazionale del reddito da lavoro e della ricchezza, in quanto il primo può trasmettersi secondo meccanismi analoghi a quelli analizzati da Becker (trasmissione genetica dell'intelligenza e/o finanziamento familiare dell'istruzione), mentre la seconda viene trasmessa direttamente attraverso i lasciti ereditari. L'analisi dei dati mostra infatti che la correlazione intergenerazionale tra i redditi da lavoro di padri e figli è generalmente inferiore alla correlazione tra status sociali (ove lo status venga misurato sulla base del reddito complessivo multiperiodale di un individuo, in analogia con il concetto di 'reddito permanente'). Mulligan ritiene infatti che il coefficiente di correlazione intergenerazionale nei livelli di reddito permanente (o nei livelli di consumo, in quanto strettamente interconnessi con il reddito multiperiodale) di un campione rappresentativo della popolazione nordamericana è pari a circa lo 0,7-0,8, mentre lo stesso coefficiente nei livelli di reddito da lavoro è pari solo a 0,5. Questo implica una differenza notevole nel grado di persistenza della disuguaglianza tra generazioni diverse: un coefficiente di correlazione pari a 0,7 implica che se i genitori di un individuo i sono 5 volte più ricchi (in termini di reddito totale) dei genitori dell'individuo j, allora l'individuo i sarà a sua volta in media circa 3 volte più ricco dell'individuo j. Invece, se il coefficiente di correlazione in questione fosse pari a 0,5, questo implicherebbe che a fronte di una differenza di 5 volte nei genitori (cioè i genitori dell'individuo i guadagnano 5 volte di più dei genitori dell'individuo j) troverebbe riscontro una differenza di sole 2 volte nei figli (in media l'individuo i guadagnerà il doppio dell'individuo j).
La diversa velocità di trasmissione di intelligenza-istruzione-reddito da lavoro e ricchezza-status socio-economico fa luce sul ruolo della trasmissione intergenerazionale della ricchezza attraverso l'eredità nel mantenimento delle ineguaglianze tra generazioni. Nell'ipotesi interpretativa di Becker, la trasmissione genetica dell'intelligenza individua un grado di persistenza 'ottimale', il raggiungimento del quale individua un'allocazione (intergenerazionalmente) efficiente delle risorse, in quanto individui più capaci riceveranno maggiori investimenti in istruzione da parte delle famiglie di appartenenza. Tuttavia, diversi ostacoli possono frapporsi a questo raggiungimento, e tra questi la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza costituisce quello principale. Qualora infatti le famiglie povere non riescano a finanziare adeguatamente l'istruzione dei loro figli con risorse proprie, potrebbero in linea di principio fare ricorso all'indebitamento. Tuttavia, l'accesso al mercato del credito allo scopo di finanziare l'istruzione non si rivela facile, in quanto le famiglie povere possono non essere in grado di fornire garanzie reali, e quindi vedersi negato il credito richiesto (borrowing constraints). In questo modo l'investimento in istruzione della generazione si rivela complessivamente insufficiente a raggiungere il livello ritenuto efficiente. In tale contesto un programma di istruzione pubblica e gratuita, finanziato attraverso tassazione, potrebbe conseguire simultaneamente due obiettivi: da un lato favorire l'efficienza (in quanto permetterebbe ai figli meritevoli di famiglie povere di accedere a livelli di istruzione più elevati) e dall'altro migliorare l'equità (in quanto diminuirebbe il grado di persistenza intergenerazionale, ovvero aumenterebbe l'eguaglianza di opportunità).
Purtroppo la realtà è più complessa di quanto i modelli formali lascino intuire. Spesso le famiglie povere riducono l'investimento nell'istruzione dei propri figli non tanto e non solo per ragioni economiche, quanto piuttosto per ragioni culturali. Come hanno messo in luce Checchi e altri (v., 1999), l'investimento dei genitori nell'istruzione dei propri figli dipende dalle aspettative che i primi si formano sulle capacità dei secondi, e la stessa formazione di aspettative è condizionata dalla propria esperienza. Un genitore povero e/o poco istruito si attende un figlio con caratteristiche analoghe alle proprie, e sarà quindi meno propenso a favorirne l'istruzione, con ciò contribuendo a realizzare le proprie aspettative (self-fulfilling prophecy), dal momento che il figlio, ricevendo minor istruzione, avrà minori possibilità di reddito (v. Picketty, 2000, per un'eccellente analisi dei meccanismi di trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza socio-economica).
5. Problemi di misura
Passiamo ora in rassegna alcuni dei problemi che si pongono quando ci si accinga a un'analisi della mobilità sociale. Una prima difficoltà metodologica è quella di individuare una misura precisa dello status socio-economico di un individuo. Gli economisti sono inclini ad associare lo status socio-economico alle opportunità di consumo nell'arco della vita, che a loro volta dipendono dal reddito permanente atteso nell'arco dell'intera vita; per questa ragione essi forniscono misure della mobilità sociale basate sulla mobilità reddituale, spesso utilizzando medie pluriennali dei redditi per evitare l'interferenza di eventi occasionali (quali perdita del lavoro, guadagni o perdite inattesi, ecc.: v. Solon, 1999). I sociologi ritengono invece che il concetto di status socio-economico debba tener conto anche di elementi immateriali quali il prestigio goduto nei confronti dei propri simili o il potere esercitabile nell'ambito della società; essi inoltre ritengono che lo status sociale sia una risorsa collettivamente goduta nell'ambito di gruppi sociali omogenei (classi) e per questa ragione si focalizzano sulla mobilità tra classi sociali, variamente definite sulla base dell'occupazione svolta dall'individuo (v. Cobalti e Schizzerotto, 1994; v. Erikson e Goldthorpe, 1992). Le misure di prestigio occupazionale, costruite sulla base del reddito da lavoro e sulla scolarità media (o mediana) per ciascun gruppo occupazionale, rappresentano un'utile mediazione tra questi due approcci, in quanto da un lato ignorano le differenze individuali che risultano poco rilevanti nella gerarchia sociale (in quanto tutti gli individui che ricoprono la stessa occupazione godono dello stesso prestigio sociale), ma dall'altro tengono conto del fatto che nelle società di mercato la capacità di reddito costituisce uno degli elementi centrali (v. Duncan, 1961).
Supponiamo quindi che Yit rappresenti una variabile che misura lo status socio-economico di un individuo o di una famiglia i-esima al tempo t (l'origine), e Yit+1 indichi lo status socio-economico dello stesso individuo o del-la stessa famiglia al tempo t + 1 (la destinazione). Studiare la mobilità sociale di una società composta da n individui (o famiglie) consisterà dunque nell'analisi di come il vettore Yt = [Y1t, Y2t,…, Ynt] viene trasformato nel vettore Yt+1 = [Y1t+1, Y2t+1,…, Ynt+1] nell'intervallo di tempo considerato. Si noti che questo tipo di analisi può essere applicato sia a confronti tra diversi paesi (come abbiamo visto nel raffronto tra la mobilità sociale negli Stati Uniti e in altri paesi industrializzati), sia a confronti intertemporali nell'ambito dello stesso paese (ad esempio, per vedere se la mobilità sociale è aumentata, rimasta invariata o diminuita nel periodo di riferimento), sia, infine, a confronti tra diversi gruppi nello stesso paese (ad esempio, per confrontare la mobilità sociale a seconda della razza, sesso, regione geografica o altre caratteristiche di interesse). Nell'analisi della mobilità intergenerazionale si utilizzano poi spesso assunzioni semplificatrici sulla natura delle famiglie oggetto di studio, tipicamente prendendo in considerazione solo gli individui di sesso maschile (padri e figli) per evitare la difficoltà di attribuzione di uno status socio-economico alle donne, dovuta alla minor partecipazione della componente femminile al mercato del lavoro. Dunque, per fini espositivi, con la coppia di vettori (Yt, Yt+1) indicheremo lo status socio-economico di due generazioni contigue, dove Yt rappresenta la distribuzione dello status nella generazione dei padri e Yt+1 la stessa distribuzione in quella dei figli.
Un secondo problema che emerge nell'analisi empirica è quello dell'aggregazione dei dati individuali per ottenerne misure sintetiche della mobilità che permettano il confronto tra situazioni diverse. Tuttavia, occorre tracciare una netta distinzione tra due concetti alternativi di mobilità, a seconda che la distribuzione iniziale e quella finale dello status siano uguali o diverse. La letteratura sociologica definisce 'mobilità strutturale' ogni misura di mobilità basata sul grado di difformità registrato tra la distribuzione di Yt e quella di Yt+1. Se per esempio un paese registra elevati tassi di crescita (come accade nelle fasi iniziali del processo di industrializzazione), si assiste a un cambiamento nella tipologia delle occupazioni disponibili sul mercato (per esempio si riduce l'occupazione nell'agricoltura e aumenta quella nell'industria, oppure si riduce l'occupazione manuale e aumenta quella intellettuale). In questo modo la generazione dei figli si trova a fronteggiare un insieme di opportunità diverso da quello dei genitori e il processo di mobilità si mescola con quello della trasformazione industriale.
Tuttavia questo non esaurisce l'analisi del processo. Immaginiamo infatti due società simili in quanto caratterizzate da identiche distribuzioni dello status socio-economico nelle due generazioni. Esse possono comunque differire per la modalità con cui le diverse famiglie si riordinano nel passaggio da una generazione alla successiva. A questo secondo aspetto viene dato il nome di 'mobilità di scambio', misurata dal grado di associazione tra lo status dei genitori e quello dei figli. La difficoltà di decomporre empiricamente questi due aspetti fa sì che i confronti di mobilità (effettuati in contesti nei quali le distribuzioni di status differiscano significativamente nel passaggio intergenerazionale) siano fortemente dipendenti dal tipo di indicatore utilizzato, talché essi forniscono dati spesso discordanti (per una illustrazione concreta di questa possibilità, v. sotto, cap. 6).
Lo strumento analitico più intuitivo, e per questo più utilizzato, per l'analisi della mobilità è costituito dalle matrici di mobilità. Quando si analizzano le transizioni tra categorie predefinite (classi sociali, gruppi occupazionali, titoli di studio) si mettono in luce fenomeni di mobilità sia strutturale sia di scambio; quando invece si utilizzano categorie di tipo percentile si possono identificare i fenomeni di mobilità di scambio (v. tabb. II e III). A titolo esemplificativo si consideri il caso più semplice, ossia quello in cui gli elementi del vettore Y possono assumere due soli valori (per esempio 'proletariato' e 'borghesia', oppure 'senza istruzione dell'obbligo' e 'obbligo scolastico assolto', o ancora 'lavoro manuale' e 'lavoro intellettuale', o infine 'reddito inferiore alla media' e 'reddito superiore alla media'). In questo caso la mobilità sociale può essere studiata mediante una tabella di mobilità del tipo illustrato in tab. I, dove le righe indicano l'origine e le colonne la destinazione, e i coefficienti pij, i, j = a, b indicano la probabilità individuale di transitare dallo stato i allo stato j (si noti che per costruzione si ha che
Σi Σjpij, = 1
Questa probabilità viene desunta (ma sarebbe più corretto dire 'stimata') dalle frequenze empiricamente osservate (ovvero dalla proporzione di individui che transitano da i in j). Nel caso intragenerazionale, pij indica la probabilità che un individuo in questa popolazione si trovi nello stato i nel periodo di riferimento iniziale e nello stato j nel periodo di riferimento successivo; quando si tratti invece del caso intergenerazionale, pij indica la probabilità di osservare una famiglia in cui il figlio è nella classe j e il padre nella classe i. L'ultima riga e l'ultima colonna della tabella indicano invece le cosiddette 'distribuzioni marginali' della variabile di origine e di quelle di destinazione: per esempio, se nel caso intergenerazionale in una certa società la distribuzione marginale osservata dello status dei padri è pari a (0,3, 0,7), ciò vuol dire che in questa società il 30° dei padri appartengono alla classe socio-economica bassa e il 70° alla classe alta. Si noti che dividendo ogni riga di una tabella di mobilità per il corrispondente valore della distribuzione marginale di origine si ottiene una tabella di probabilità condizionate, utilizzata qualora il processo di mobilità sociale venga analizzato mediante un processo stocastico di tipo markoviano.
Casi limite di matrici di mobilità sono da un lato quello di perfetta immobilità, dall'altro quello di eguaglianza di opportunità. Nel primo caso gli elementi al di fuori dalla diagonale principale sono pari a zero; in una società caratterizzata da questa situazione si osserveranno soltanto famiglie con padri e figli che appartengono sempre alla stessa classe sociale. Nell'altro caso limite lo status di destinazione è indipendente dalla condizione di origine; in una società caratterizzata da una situazione di questo tipo la matrice di probabilità condizionate presenta righe tutte identiche, in quanto ogni individuo fronteggerà la stessa distribuzione di probabilità di successo socio-economico indipendentemente dalla condizione di origine.
Perfetta immobilità ed eguaglianza di opportunità sono ovviamente casi speciali, di interesse teorico ma di scarsa rilevanza empirica. In pratica, la totalità delle matrici di mobilità osservate empiricamente è una via di mezzo tra questi due casi speciali. Consideriamo ad esempio tre ipotetiche società, indicandole come S, T e U, caratterizzate dalle matrici di mobilità intergenerazionale illustrate in tab. II. Esaminando le tre matrici, emerge immediatamente che mentre la società T è caratterizzata da una forte crescita socio-economica nel passaggio intergenerazionale (in quanto il 62° dei padri, ma solamente il 40° dei figli, appartiene alla classe sociale 'bassa'), nella società U vi è stato al contrario un impoverimento generale nel passaggio di generazione (il 60° dei padri, ma solo il 40° dei figli, appartiene alla classe sociale 'alta'). La società S mostra invece una situazione di equilibrio intergenerazionale, con eguali proporzioni di padri e figli nelle due classi. Mentre nella società S nel passaggio generazionale le distribuzioni marginali dello status socio-economico sono rimaste immutate, le società T e U sono caratterizzate da una variazione intergenerazionale nelle distribuzioni marginali di status. È quindi facile concludere che le società T e U sono caratterizzate da una maggiore mobilità strutturale rispetto alla società S. Ma quali delle tre società è caratterizzata da maggiore mobilità di scambio?
Consideriamo la società S. In essa, un figlio di un genitore appartenente alla classe 'bassa' ha una probabilità di rimanere nella classe 'bassa' doppia rispetto a quella di transitare alla classe 'alta'. Per converso, un figlio di un genitore in classe 'alta' ha una probabilità di ritrovarsi nella classe 'bassa' che è la metà rispetto a quella di permanere nella stessa classe del padre. Il rapporto tra queste probabilità relative (odds) viene denominato odds ratio ed è pari a pbb/pba pab/paa; nella società S tale rapporto è quindi pari a 4. L'odds ratio indica la disparità di opportunità che si aprono per individui con diversa origine, ed è un indice del grado di rigidità sociale. È facile constatare che l'odds ratio nelle società U e T è anch'esso pari a 4. Quindi si potrebbe affermare che queste tre società, mentre differiscono in termini di mobilità strutturale a causa dei movimenti socio-economici di espansione e recessione, sono in realtà caratterizzate da analoga rigidità sociale in termini di associazione positiva tra classe sociale del padre e quella del figlio. Può darsi anche la situazione rovesciata. Consideriamo infatti il caso illustrato in tab. III: è facile vedere che le due società sono caratterizzate da uguale mobilità strutturale, poiché le distribuzioni marginali della popolazione sono identiche (in entrambe le società e in entrambe le generazioni metà degli individui appartiene alla classe sociale 'alta' e l'altra metà alla classe 'bassa'). Si noti che matrici analoghe a queste si ottengono ogniqualvolta lo status economico sia definito in termini percentili, così che le distribuzioni marginali sono caratterizzate da un'eguale proporzione di individui in ogni classe sociale. Tuttavia, mentre la società T' è caratterizzata da uguaglianza di opportunità (un figlio proveniente da un padre nella classe 'alta' ha le stesse probabilità di ascesa sociale di un figlio proveniente da un genitore nella classe 'bassa'), la società S' è caratterizzata da una forte associazione positiva tra status del padre e status del figlio, a conferma di una notevole rigidità sociale (basta infatti confrontare i corrispondenti odds ratio).
I due esempi mostrano come distinguere i concetti di mobilità strutturale e di mobilità di scambio sia di cruciale importanza. In particolare, tornando agli esempi del cap. 3, è opinione concorde degli studiosi che la presunta maggiore mobilità negli Stati Uniti (e in generale nei paesi capitalisticamente più avanzati) sia riconducibile per la maggior parte a una maggiore mobilità strutturale; la mobilità di scambio sembra invece essere molto simile nei vari paesi. La tesi della sostanziale somiglianza della mobilità di scambio tra paesi industrializzati è nota come tesi di David L. Featherman, F. Lancaster Jones e Robert M. Hauser (FJH hypothesis; v. Featherman e altri, 1975). Lo studio della decomposizione delle matrici di mobilità mediante parametri collegati alla mobilità strutturale (tipicamente associati alle distribuzioni marginali) e parametri collegati alla mobilità di scambio (parametri di associazione, tipicamente connessi agli odds ratios) costituisce oggi un'attiva area di ricerca in statistica, riconducibile al lavoro pionieristico di Peter McCullagh e John A. Nelder (v., 19892) sui modelli lineari generalizzati. Alcuni studiosi (v. Sobel e altri, 1998; v. Bartolucci e altri, 2001) propongono utili parametrizzazioni delle matrici di mobilità sociale in virtù delle quali è possibile sviluppare un'analisi inferenziale che consente di separare lo studio della mobilità strutturale da quella di scambio.
L'analisi della mobilità mediante l'utilizzo di matrici di transizione è stata tuttavia criticata, in quanto i risultati ottenuti dipendono strettamente dall'individuazione delle categorie che definiscono le condizioni di origine e di destinazione. Per questo motivo diversi studiosi hanno preferito spostare la loro attenzione sulla misurazione della mobilità sociale a partire dalle situazioni socio-economiche individuali disaggregrate, utilizzando degli indici di mobilità che risultano meno condizionati dal giudizio soggettivo dell'analista. Il capitolo seguente contiene un esempio di uso degli indici per i confronti di mobilità sociale.
6. Un esempio riguardante l'andamento della mobilità intergenerazionale nel dopoguerra in Italia
L'influenza dei diversi modi di misurare la mobilità sociale sui risultati dei confronti internazionali e intertemporali è stata analizzata (v. Checchi e Dardanoni, 2002) utilizzando indici di mobilità appartenenti alla classe degli indici di distanza (v. D'Agostino e Dardanoni, in stampa), basati sul concetto di 'distanza euclidea'. L'intuizione sottostante questa classe di indici è che per misurare la mobilità in una società di n individui si può considerare la distanza tra lo status effettivo del padre e quello del figlio per ogni singola famiglia e prenderne poi la media, dopo aver definito lo status effettivo come una determinata funzione dello status osservato. Un 'indice di distanza assoluto' si costruisce partendo dalle distribuzioni delle variabili originali (cioè si suppone che lo status effettivo sia eguale a quello osservato), e per questo risulta molto sensibile ai fenomeni di mobilità strutturale. Si pensi infatti al caso estremo in cui vi sia perfetta dipendenza tra posizione dei padri e posizioni dei figli: l'indice assoluto registrerà una maggior mobilità quanto maggiore è il tasso di crescita dei redditi nell'intervallo di tempo trascorso tra le due generazioni.
Gli 'indici di mobilità ordinali' sono invece calcolati sulla base della posizione relativa individuale in riferimento al posizionamento del resto della popolazione (rango), cioè assumendo che lo status effettivo di ogni unità sia completamente descritto dal rango dell'unità stessa calcolato utilizzando lo status osservato. L'indice di distanza ordinale misura quindi la distanza euclidea tra i vettori dei ranghi dei padri e dei figli, e si dimostra essere equivalente all'indice non parametrico di correlazione nei ranghi noto come 'rho di Spearman' (v. Kendall e Gibbons, 19905); si noti che questo indice è invariante a trasformazioni di carattere monotonico nei dati. Quindi, per esempio, una crescita economica che faccia aumentare i redditi della generazione successiva mantenendone invariate le posizioni relative farebbe aumentare la mobilità assoluta lasciando invariata la mobilità ordinale; in altre parole questo indice risulta particolarmente sensibile alla mobilità di scambio.
In una posizione intermedia si trovano infine gli 'indici di mobilità relativi', di cui un esempio è l'indice di correlazione di Pearson, basato anch'esso sul concetto di distanza euclidea, calcolata dopo aver opportunamente standardizzato i vettori di status. Poiché negli indici relativi lo status socio-economico effettivo viene normalizzato all'interno di una singola generazione sulla base di parametri quali il reddito medio e la varianza, essi sono meno sensibili a fenomeni di mobilità strutturale che comportino una crescita generalizzata o cambiamenti di ineguaglianza, mentre rimangono sensibili alla mobilità di scambio.
Passiamo ora all'analisi della mobilità sociale in Italia nel dopoguerra. Il nostro paese è caratterizzato storicamente da una scarsa disponibilità di dati, specialmente di quelli relativi a due generazioni contigue, padri e figli. I problemi si moltiplicano qualora si voglia conoscere la situazione reddituale della generazione dei padri, risalente per una parte della popolazione attualmente vivente al XIX secolo. Per questa ragione si fa spesso ricorso a misure della condizione socio-economica, più imprecise ma anche più facilmente accessibili, quali l'occupazione e il titolo di studio conseguito. Trattandosi di variabili categoriali diviene in tal modo possibile intervistare gli individui sulla propria condizione, nonché risalire tramite i loro ricordi alla condizione della generazione dei loro genitori. Checchi e Dardanoni (v., 2002) hanno utilizzato i dati raccolti dalla Banca d'Italia nell'Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, relativamente a tre periodi distinti (1993, 1995 e 1998) per un campione di circa 70.000 persone. Per ricostruire lo status socio-economico di ciascun individuo si utilizzano le combinazioni identificate da mansione-settore-titolo di studio, che consentono di ricostruire 160 possibili posizioni sociali distinte (del tipo 'operaio nel settore agricolo con licenza elementare'). Queste posizioni sociali sono poi ordinate sulla base del reddito (mediano) di ciascuna cella. In questo modo si ricostruisce a posteriori una gerarchia sociale basata sulla condizione occupazionale, la cui importanza relativa viene a dipendere dalla capacità di comando sulle merci dovuta al proprio potenziale di reddito. Poiché non si possiedono informazioni dirette sui redditi della generazione dei genitori, si ricorre all'ipotesi semplificatrice secondo la quale la gerarchia sociale vigente per la generazione dei figli è applicabile a quella dei genitori.
A questo punto siamo in grado di misurare la mobilità intergenerazionale nel caso italiano, confrontando la condizione sociale dei padri con quella dei figli. Qualora non ci si ritenga soddisfatti di una gerarchia sociale fondata sui redditi occupazionali, è possibile studiare la mobilità nei livelli di istruzione conseguiti. In entrambi i casi nel corso del secolo passato l'Italia ha attraversato profonde trasformazioni: da un lato la scolarizzazione di massa ha permesso alle generazioni più recenti di accrescere il proprio livello medio di istruzione molto al di là di quanto conseguito dalla generazione precedente; dall'altro, la trasformazione dell'apparato produttivo ha eliminato numerose occupazioni relative al settore agricolo a favore delle occupazioni industriali e terziarie. Qualunque sia la variabile di riferimento, ci si attende quindi di riscontrare una significativa mobilità strutturale nel periodo preso in esame, a cui però può aver fatto riscontro un diverso andamento della mobilità di scambio. La tab. IV riporta i tre indicatori di mobilità discussi in precedenza, calcolati sia per la condizione occupazionale che per i livelli di istruzione. Seguendo una prassi ricorrente, queste misure considerano solo coppie di dati padre-figlio maschio, per evitare che il fenomeno sia distorto dalla mancata partecipazione al mercato del lavoro delle madri e/o delle figlie. Si noti che il campione è stato diviso per sottogruppi sulla base del periodo di nascita, al fine di verificare gli andamenti temporali delle misure di mobilità. Analizzando la tabella, si osserva che l'indice assoluto di mobilità occupazionale (basato sulla distanza euclidea tra i vettori di status occupazionale) registra una mobilità massima per le coorti di popolazione nate prima della seconda guerra mondiale e plausibilmente entrate nel mercato del lavoro nell'immediato dopoguerra. Da lì in avanti il fenomeno sembra ridursi significativamente, specialmente per le coorti più giovani. Viceversa, l'indice ordinale (basato sull'indice di correlazione dei ranghi di Spearman) cresce progressivamente fino all'avvento dei baby-boomers nati negli anni cinquanta, per poi attestarsi successivamente su quel livello. Un'immagine ancora diversa è ottenuta infine quando si considera la mobilità relativa (calcolata mediante l'indice di correlazione di Pearson), che tiene conto della correlazione (nei livelli standardizzati, e non nei ranghi come nel caso ordinale) tra le posizioni sociali delle due generazioni. In questo caso la più elevata mobilità sociale è appannaggio delle generazioni più giovani. Come discusso in precedenza, ciò sembra indicare un progressivo declino della mobilità strutturale congiuntamente a un progressivo aumento della mobilità di scambio. Chiaramente la risposta al quesito "È aumentata la mobilità sociale in Italia nel periodo in questione?" dipende quindi in modo cruciale dal tipo di mobilità al quale si fa riferimento. Si noti inoltre che se per rispondere a questo quesito fosse stato utilizzato un unico 'indice di mobilità' si sarebbe certo ottenuta una risposta univoca, ma questa sarebbe stata completamente diversa a seconda dell'indice prescelto.
Considerando la mobilità definita sui livelli di istruzione, notiamo invece che la mobilità assoluta cresce ininterrottamente fino ai nati alla fine degli anni cinquanta, cioè alla generazione beneficiata dalla riforma della scuola media unica (1962) e dalla liberalizzazione degli accessi universitari (1969). Per contro, la mobilità di scambio sembra oscillare col passare delle diverse coorti, senza indicare un preciso andamento temporale.
Si può quindi concludere che la valutazione del grado di mobilità intergenerazionale dipende fortemente dalla misura adottata, a sua volta funzione del concetto di mobilità che si vuole descrivere. Questa ambiguità di fondo sorge dal fatto che le misure di mobilità mescolano informazioni di natura molto diversa. Il punto di partenza è dato dalle distribuzioni marginali in ciascuna generazione; tali distribuzioni forniscono informazioni di natura statica sul grado di disuguaglianza vigente all'interno di ogni generazione. Se si osserva la distanza tra le distribuzioni marginali di due generazioni contigue, è possibile mettere in luce i fenomeni di mobilità strutturale. Se invece si osserva il grado di associazione delle stesse, si possono individuare i fenomeni di mobilità di scambio.
Concludiamo questo articolo richiamando l'attenzione sul fatto che l'analisi della mobilità sociale è per sua stessa natura di tipo interdisciplinare. Se dal punto di vista della teoria economica essa fornisce utili indicazioni sul grado di disuguaglianza intertemporale di una popolazione basandosi sulle implicazioni del comportamento razionale individuale, e se dal punto di vista della teoria statistica è di estremo interesse riuscire a connotare il fenomeno distinguendolo nei suoi elementi costitutivi (mobilità strutturale e di scambio), è tuttavia vera la constatazione secondo cui le cause della mobilità restano tuttora in parte inesplorate. Come ha ben messo in luce Gøsta Esping-Andersen (v., 2004), le analisi degli economisti e degli statistici individuano spesso modelli meccanici che ignorano fenomeni sfumati, ma non per questo meno importanti, quali la formazione in età prescolare e la trasmissione dei modelli di ruolo. Se l'analisi economica tende a restringere l'attenzione sugli aspetti monetari della trasmissione ereditaria, l'analisi sociologica ha contribuito a richiamare l'attenzione sulle caratteristiche del processo di socializzazione, a partire dalla natura dei sistemi formativi, per passare alle strategie matrimoniali e al funzionamento dei diversi mercati del lavoro. Tuttavia, mancano ancora analisi comparative (tra paesi, tra regioni o tra periodi storici) che siano in grado di attribuire con sufficiente affidabilità le differenze registrate nella mobilità ai diversi fattori istituzionali.
bibliografia
Atkinson, A. B., Income distribution and inequality of opportunity, in Social justice and public policy, Brighton: Wheatsheaf Books Ltd., 1983, pp. 77-92.
Atkinson, A. B., The measurement of economic mobility, in Social justice and public policy, Brighton: Wheatsheaf Books Ltd., 1983, pp. 61-75.
Bartolucci, F., Forcina, A., Dardanoni, V., Positive quadrant dependence and marginal modelling in two-way tables with ordered margins, in "Journal of the American Statistical Association", 2001, XCVI, pp. 1497-1505.
Becker, G. S, A treatise on the family, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1981.
Blau, P. M., Duncan, O. D., The American occupational structure, New York: Wiley, 1967.
Checchi, D., Dardanoni, V., Mobility comparisons: does using different measures matter?, in "Research on economic inequality", 2002, IX, pp. 113-145.
Checchi, D., Ichino, A., Rustichini, A., More equal but less mobile? Intergenerational mobility and inequality in Italy and in the US, in "Journal of public economics", 1999, LXXIV, pp. 351-393.
Cobalti, A., Schizzerotto, A., La mobilità sociale in Italia, Bologna: Il Mulino, 1994.
D'Agostino, M., Dardanoni, V., Mobility comparisons: a class of distance indices, in corso di stampa.
Dardanoni, V., Measuring social mobility, in "Journal of economic theory", 1993, LXI, pp. 372-394.
Duncan, O. D., A socioeconomic index for all occupations, in Occupations and social status (di A. Reiss e altri), New York: Free Press of Glencoe, 1961, pp. 109-138.
Erikson, R., Goldthorpe, J. H., The constant flux. A study of class mobility in industrial societies, Oxford: Clarendon Press, 1992.
Esping-Andersen, G., What might create more equal opportunity? Money, cultural capital, and government, in Generational income mobility in North America and Europe (a cura di M. Corak), Cambridge: Cambridge University Press, 2004.
Featherman, D. L., Jones, F. L., Hauser, R. M., Assumptions of social mobility in the US: the case of occupational status, in "Social science research", 1975, IV, pp. 329-360.
Friedman, M., Capitalism and freedom, Chicago: The University of Chicago Press, 1962 (tr. it.: Capitalismo e libertà, Pordenone: Studio Tesi, 1987).
Galton, F., Regression towards mediocrity in hereditary stature, in "Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland", 1886, XV, pp. 246-263.
Giddens, A., The class structure of the advanced societies, London: Hutchinson, 1973 (tr. it.: La struttura di classe nelle società avanzate, Bologna: Il Mulino, 1975).
Kendall, M., Gibbons, J., Rank correlation methods, London: Edward Arnold, 19905.
McCullagh, P., Nelder, J. A., Generalised linear models, London: Chapman & Hall, 19892.
Mulligan, C. B., Parental priorities and economic inequality, Chicago: The University of Chicago Press, 1997.
Pareto, V., Manuale di economia politica, Milano: Società Editrice Libraria, 1906.
Picketty, T., Theories of persistent inequality and intergenerational mobility, in Handbook of income distribution (a cura di A. B. Atkinson e F. Bourguignon), Amsterdam: North Holland, 2000, pp. 429-476.
Sobel, M., Becker, M., Minick, S., Origins, destinations and association in occupational mobility, in "American journal of sociology", 1998, CIV, pp. 687-721.
Solon, G., Intergenerational mobility in the labour market, in Handbook of labor economics (a cura di O. Ashenfelter e D. Card), Amsterdam: North Holland, 1999, vol. 3C, pp. 1761-1800.