Mobilità sociale
Premessa
Idealmente ogni società umana può essere vista come uno spazio sociale che si articola in un certo numero di aree distinte, dette posizioni sociali, all’interno delle quali si situano e agiscono i membri della società stessa. Ogni individuo, quando nasce, eredita in toto la posizione sociale dei propri genitori o, più in generale, della famiglia entro la quale viene cresciuto ed educato. Successivamente, con la transizione alla vita adulta e il conseguimento dell’indipendenza economica, l’individuo lascia la propria posizione sociale di origine e comincia a muoversi nello spazio sociale fino a raggiungere – al termine di un percorso a tappe più o meno lungo e variabile – la sua posizione sociale di destinazione, cioè la posizione sociale nella quale si insedierà più o meno stabilmente per il resto della propria vita. Il processo che conduce i membri di una società dalla propria posizione sociale di origine a quella di destinazione costituisce il fenomeno noto come mobilità sociale e sarà l’oggetto di analisi del presente saggio.
Sebbene l’espressione mobilità sociale non sia molto diffusa nel linguaggio comune, il fenomeno che essa denota riguarda da vicino la vita di ognuno e, in quanto tale, è intimamente radicato nell’immaginario collettivo di tutte le società moderne, al punto da costituire un elemento di primo piano o di sfondo nelle trame di molti romanzi e film degli ultimi due secoli, dal classico Le rouge et le noir (1831)di Stendhal al recente Pretty woman (1990) di Garry Marshall, per fare solo due esempi (Foster 2005). L’intrinseca familiarità che ognuno di noi ha con il fenomeno, tuttavia, ci porta spesso a trascurare il fatto che i movimenti nello spazio sociale non sono liberi, bensì regolati da una serie di meccanismi sistematici che esprimono e producono disuguaglianza sociale. La natura di tale disuguaglianza è presto detta: in ogni società, posizioni sociali diverse offrono, a coloro che le occupano, insiemi diversi di risorse materiali e simboliche (ricchezza, prestigio, potere, relazioni sociali, capitale culturale ecc.); queste risorse, a loro volta, si traducono in differenti opportunità di vita, cioè in possibilità maggiori o minori di accedere a beni e servizi primari o voluttuari come il cibo, l’abitazione, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, i mezzi di trasporto, la sicurezza, la cultura, il tempo libero, le vacanze e così via. Ora, poiché le risorse – e, quindi, le opportunità di vita – di cui un individuo può disporre durante l’infanzia e l’adolescenza condizionano in misura rilevante le sue possibilità di muoversi nello spazio sociale nel corso della vita adulta, ne consegue che la destinazione sociale di ognuno dipenderà in buona misura dalla sua posizione di origine. Detto altrimenti, nella ‘corsa’ per l’occupazione dello spazio sociale i blocchi di partenza non sono mai perfettamente allineati: alcuni individui, in virtù della loro elevata origine sociale, partono più avanti e, grazie a questo vantaggio, hanno maggiori possibilità di raggiungere e occupare le posizioni sociali più desiderabili; altri, invece, partono da posizioni (sociali) più arretrate e, perciò, hanno meno opportunità di piazzarsi ai primi posti. La misura in cui l’origine sociale influisce sulla possibilità di raggiungere le diverse destinazioni sociali disponibili è nota come disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale e rappresenta un parametro essenziale per valutare il grado di apertura o fluidità sociale che caratterizza, in un dato momento, una determinata società.
Come si è accennato, l’ereditarietà sociale – cioè il fatto che i destini sociali degli individui dipendono in una certa misura dalle loro condizioni di origine – è un fenomeno di vecchia data. Nelle società preindustriali, in cui le disuguaglianze erano considerate come il prodotto di qualche ordine naturale o divino, lo spazio sociale era molto vischioso e la maggior parte degli individui era destinata a rimanere per tutta la vita nella posizione sociale ereditata alla nascita, senza alcuna possibilità di cambiamento. In molti casi questa rigidità del sistema sociale era sostenuta dall’esistenza di precise norme giuridiche, come, per es., quelle che regolavano la schiavitù nell’antica Roma o la servitù nell’Europa medievale; in altri casi, come nell’India classica, la suddivisione della popolazione in caste veniva legittimata su basi religiose e, dunque, considerata espressione ineluttabile della volontà divina. Tutte queste norme, giuridiche o religiose che fossero, da un lato assicuravano ai figli degli aristocratici il mantenimento dei privilegi e dei vantaggi legati alla propria condizione di nascita, ma dall’altro impedivano ai figli dei servi (o degli schiavi o dei contadini) di affrancarsi dalla propria posizione sociale di origine, condannandoli a seguire perennemente le orme dei loro genitori.
Certamente nessuna epoca storica, né alcuna società sono mai state assolutamente prive di un certo grado di mobilità sociale. Gli storici hanno mostrato che tanto nell’antica Roma quanto nel Medioevo, nel Rinascimento e nell’ancien régime, gli individui di ogni origine sociale godevano di diverse opportunità di migliorare, nel corso della loro vita adulta, la condizione ereditata alla nascita. Buona parte di queste opportunità di mobilità derivavano dai mutamenti che, in alcuni periodi di particolare dinamismo, investivano la struttura dello spazio sociale, moltiplicando le posizioni più desiderabili già esistenti e creandone di nuove. In alcuni casi, tuttavia, gli individui riuscivano a emanciparsi socialmente grazie ai loro sforzi personali e all’applicazione dei propri talenti. Nell’Europa feudale, per es., poteva accadere che i membri del cosiddetto Terzo stato (contadini liberi, mercanti, artigiani, liberi professionisti) venissero nominati cavalieri in segno di riconoscenza per avere reso speciali servigi al sovrano. Più prosaicamente, i mercanti dotati di una buona rendita avevano la possibilità di elevarsi al rango di aristocratici semplicemente acquistando il titolo nobiliare più confacente alle loro ambizioni e alle loro tasche.
Le opportunità di mobilità sociale, tuttavia, cominciarono a diffondersi in modo significativo e generalizzato solo con la nascita e lo sviluppo della società industriale (Social mobility and modernization, 2000). Da un lato, il processo di modernizzazione economica diede inizio a una serie di profondi mutamenti nella struttura dello spazio sociale, generando nuove opportunità di mobilità per tutti. Dall’altro, si verificarono alcuni cambiamenti politici e sociali che condussero a sostanziali modifiche dei meccanismi che regolavano l’accesso alle diverse posizioni sociali. Innanzitutto si trasformò il quadro ideologico di riferimento: in diretta opposizione all’idea che gli esseri umani sono disuguali alla nascita per ordine naturale o per volontà divina, a partire dal 17° sec. si sviluppò la tesi secondo la quale tutti gli individui in realtà nascono uguali e dotati degli stessi diritti. Un’importante conseguenza di ciò fu che l’ereditarietà sociale cominciò a essere considerata tutt’altro che naturale e a essere vista come uno strumento iniquo per perpetuare le disuguaglianze.
Oltre a ciò, il superamento della società tradizionale e la diffusione del capitalismo furono accompagnati dall’esaltazione della razionalità dell’ordine sociale moderno, contrapposta all’agire fondato sulle norme consuetudinarie. La convinzione che il comportamento economico dovesse essere regolato dal calcolo razionale portò con sé l’affermazione di valori come il progresso, l’efficienza, la selezione basata sul talento e sul merito, indipendentemente dalla condizione sociale ereditata alla nascita. In altri termini, si fece progressivamente strada una concezione universalista della società secondo la quale l’accesso alle diverse posizioni sociali disponibili doveva dipendere non tanto dalla condizione di origine, quanto dal possesso di competenze pubblicamente certificate e riconosciute (in primo luogo attraverso i titoli di studio), acquisite mediante l’applicazione dei propri talenti e dei propri sforzi personali. Questa visione universalista e meritocratica ha raggiunto la massima diffusione nel secondo dopoguerra e, in tutte le società occidentali avanzate, si è espressa nel principio liberale dell’uguaglianza delle opportunità. Secondo tale principio, la società virtuosa è quella che garantisce ai propri membri, indipendentemente dalla loro origine sociale, uguali possibilità di accesso alle diverse posizioni sociali disponibili; se e come tali possibilità verranno realizzate dipenderà dalle preferenze, dalle capacità e dagli sforzi che ciascuno metterà in gioco. Come vedremo, tuttavia, l’evidenza empirica disponibile mostra che, nonostante la sua affermazione sul piano politico e ideale, il principio dell’uguaglianza delle opportunità è ben lungi dall’essersi pienamente realizzato nella pratica quotidiana e deve fare costantemente i conti con i potenti meccanismi sperequativi ereditati dal passato.
Il quadro concettuale di riferimento
Prima di addentrarsi nell’analisi empirica della mobilità sociale è necessario acquisire un po’ di familiarità con i principali concetti che stanno alla base dello studio di questo fenomeno.
Come abbiamo visto, la mobilità sociale può essere definita come il processo mediante il quale i membri di una data società si muovono dalla propria posizione sociale di origine a quella di destinazione. Questa definizione implica vari interrogativi che, ai fini della nostra discussione, possono essere classificati in due categorie. La prima riguarda le posizioni sociali fra le quali gli individui si muovono: come si definisce una posizione sociale? Quante posizioni sociali si possono distinguere all’interno di una data società? Qual è il modo per attribuire a ciascun individuo una determinata posizione sociale? Come è facile intuire, le risposte che si danno a questi interrogativi sono fondamentali nello studio della mobilità sociale, in quanto i movimenti degli individui all’interno della società possono essere analizzati solo se prima vengono definite le caratteristiche dello spazio sociale entro il quale tali movimenti si svolgono. A sua volta, la seconda categoria di interrogativi riguarda i movimenti degli individui fra le diverse posizioni sociali precedentemente identificate: come si definisce un movimento nello spazio sociale? Quali tipi di movimento possiamo distinguere? Quali sono il volume e la direzione di questi movimenti e in quale modo variano fra i diversi gruppi sociali?
La definizione dello spazio sociale
Cominciando con le questioni del primo tipo si può innanzitutto osservare che, per descrivere i processi di mobilità sociale che si svolgono all’interno di una data società, è necessario identificare i meccanismi che, in quella società, sono responsabili della distribuzione disuguale delle risorse fra le diverse posizioni sociali che compongono lo spazio sociale. Nelle società contemporanee i meccanismi di questo tipo sono numerosi, interagiscono in modo complesso e operano secondo modalità diverse nelle varie sfere di vita. I sociologi, tuttavia, sono generalmente d’accordo nel ritenere che buona parte delle disuguaglianze sociali più rilevanti derivino dalla divisione sociale del lavoro. In breve, in ogni società la produzione di beni e servizi si articola in un ampio insieme di mansioni di varia natura, ognuna delle quali rappresenta un’occupazione distinta e viene svolta da un certo numero di individui. In cambio dell’occupazione da essi svolta, gli individui ricevono un certo insieme di ricompense (sotto forma di risorse materiali e simboliche) il cui ammontare e la cui natura variano a seconda dell’occupazione stessa. Dunque, posizioni occupazionali diverse offrono ai loro detentori insiemi di risorse diversi, dando così luogo al fenomeno della disuguaglianza occupazionale. Se si assume, come fanno generalmente i sociologi, che la partecipazione al sistema produttivo costituisce la fonte principale di risorse di un individuo, si può concludere che l’insieme di risorse di cui ognuno dispone dipende soprattutto dalla sua posizione occupazionale. Pertanto, esistono buone ragioni per assumere l’occupazione di un individuo come l’indicatore principale della posizione da lui/lei occupata all’interno dello spazio sociale.
La scelta dell’occupazione come fondamento per l’identificazione delle posizioni sociali, tuttavia, comporta un problema: in ogni società contemporanea le posizioni occupazionali possono essere migliaia, e se ognuna di esse venisse considerata singolarmente ne deriverebbe una rappresentazione dello spazio sociale eccessivamente frammentata. Per ovviare a questo problema i sociologi hanno ritenuto opportuno elaborare rappresentazioni semplificate della struttura occupazionale, raggruppando la grande quantità di occupazioni dettagliate in un numero più o meno ristretto di categorie, internamente omogenee e significativamente distinte, dette classi occupazionali. Attualmente, la maggior parte di coloro che studiano la mobilità sociale utilizzano uno schema di classificazione delle occupazioni elaborato dai sociologi Robert Erikson e John H. Goldthorpe (Social mobility in Europe, 2004, pp. 9-14). Le analisi empiriche utilizzate in questo saggio si baseranno su una variante di questa classificazione e verranno dunque analizzate sette classi occupazionali.
Borghesia professionale (B.p.): include le libere professioni tradizionali, le posizioni dirigenziali e direttive di ogni tipo, le occupazioni dipendenti ad alto contenuto scientifico e professionale.
Borghesia imprenditoriale (B.i.): include tutti gli imprenditori con quattro o più lavoratori dipendenti, in ogni settore di attività.
Impiegati di concetto (I.c.): include gli insegnanti, i semiprofessionisti, gli addetti allo svolgimento di lavori di ufficio ad alto livello di qualificazione, i tecnici a elevata specializzazione.
Piccola borghesia urbana (P.b.u.): include i lavoratori autonomi senza dipendenti e i piccoli imprenditori con 1-3 dipendenti operanti nei settori non agricoli (essenzialmente commercianti e artigiani).
Impiegati esecutivi (I.e.): include tutti i lavoratori non manuali addetti allo svolgimento di lavori tecnici o di ufficio a medio e basso livello di qualificazione.
Classe operaia (C.o.): include tutti i lavoratori manuali dei settori non agricoli.
Lavoratori dell’agricoltura (L.a.): include i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori (fino a un massimo di tre dipendenti) e i lavoratori manuali del settore agricolo.
Assumere che la classe occupazionale di un individuo costituisce il migliore indicatore della sua posizione sociale significa fare riferimento a una situazione astratta in cui ogni membro della società ha un lavoro retribuito e vive solo. La realtà è chiaramente diversa. Innanzitutto, in ogni dato momento qualsiasi società comprende un certo numero di individui che non partecipano attivamente alla forza lavoro: bambini in età prescolare, studenti, casalinghe, pensionati, disabili, disoccupati e così via. Poiché queste persone non svolgono un’occupazione retribuita, come è possibile determinare la posizione che essi occupano nello spazio sociale? In secondo luogo, sebbene il numero delle persone che vivono sole cresca progressivamente, nelle società contemporanee la maggior parte degli individui sono membri di famiglie all’interno delle quali ci possono essere anche più persone che lavorano e, magari, svolgono occupazioni molto diverse. Cosa si fa in questi casi? È più appropriato trattare ogni membro della famiglia come individuo a sé – e, quindi, considerarlo titolare di una propria posizione sociale specifica – oppure assegnare la stessa posizione sociale a tutti i membri della famiglia? In quest’ultimo caso, come si determina tale posizione quando le occupazioni presenti in famiglia sono molteplici e differenti?
Questi interrogativi hanno suscitato lunghi e accesi dibattiti fra gli studiosi che, però, non sono riusciti a convergere verso risposte univoche in grado di mettere tutti d’accordo. Le analisi empiriche, che verranno illustrate, affronteranno la questione adottando l’approccio attualmente più diffuso fra gli studiosi della mobilità sociale (Social mobility in Europe, 2004). Tale approccio, detto individuale, si articola nel modo di seguito indicato.
a) La posizione sociale di origine di un individuo è definita in termini dell’occupazione svolta dal capofamiglia della sua famiglia di origine (tipicamente il padre) quando tale individuo aveva 14-16 anni.
b) La posizione sociale di destinazione di un individuo è definita in termini della specifica occupazione da lui/lei svolta a un certo stadio della propria vita adulta, generalmente dopo i 35 o i 40 anni di età, cioè quando la maggior parte delle carriere lavorative hanno raggiunto una sostanziale stabilità.
La definizione della posizione sociale di origine appena specificata non presenta particolari problemi e può essere vista come una misura valida e attendibile del complesso di risorse goduto da ogni individuo nella fase preadulta della propria vita. La definizione individuale della posizione sociale di destinazione, invece, ha un duplice difetto: ignora il ruolo della famiglia coniugale ed esclude dall’analisi tutte le persone che, per qualsiasi motivo, non hanno mai svolto un’occupazione retribuita nel corso della propria vita. Sebbene questi limiti possano condurre a una rappresentazione incompleta dei processi di mobilità sociale, diversi studi hanno mostrato che – nella maggior parte dei casi – l’approccio individuale è comunque in grado di cogliere in modo sufficientemente accurato gli aspetti essenziali del fenomeno.
La tavola di mobilità
Una volta definita la configurazione dello spazio sociale è possibile focalizzare l’attenzione sui movimenti che si svolgono al suo interno, misurando l’intensità dei flussi che intercorrono fra le diverse posizioni sociali di origine e di destinazione. Lo strumento più utilizzato a tale scopo è la cosiddetta tavola di mobilità, di cui si può vedere un esempio fittizio nella tab. 1 relativa a uno spazio sociale di 1000 soggetti articolato in tre posizioni. Come si può intuire osservando questa tabella, lo scopo della tavola di mobilità è classificare i membri di una data società in base alla loro posizione sociale di origine e alla loro posizione sociale di destinazione, in modo da stabilire quanti individui appartengono a ciascuna delle possibili combinazioni origine-destinazione. Nella società fittizia mostrata dalla tab. 1, per es., possiamo vedere che 160 individui sono nati nella classe superiore e lì sono rimasti anche dopo essere transitati alla vita adulta; 200 soggetti, invece, hanno avuto origine nella classe inferiore, ma poi, nel corso della vita adulta, sono ascesi alla classe media; e così via.
Le combinazioni origine-destinazione rappresentate da una tavola di mobilità possono essere classificate in due categorie. La prima comprende tutte le combinazioni in cui la posizione sociale di origine è esattamente uguale a quella di destinazione. Queste combinazioni rappresentano la cosiddetta immobilità sociale, cioè comprendono gli individui che, nel corso della vita adulta, hanno conseguito una posizione sociale identica a quella della propria famiglia di origine. Tornando alla società fittizia rappresentata nella tab. 1, possiamo vedere che, dei 1000 soggetti appartenenti a questa società, 160 sono rimasti ‘immobili’ nella classe superiore, 150 nella classe media e 250 nella classe inferiore. Complessivamente, dunque, 560 individui su 1000 hanno mantenuto la propria posizione sociale di origine dando luogo a un tasso complessivo di immobilità sociale pari al 56%. Tutti gli individui che non sono immobili sono, ovviamente, mobili e, nella tavola di mobilità, sono rappresentati dalle combinazioni origine-destinazione in cui la posizione sociale di origine è diversa da quella di destinazione. Nella tab. 1 questi individui sono 440 su 1000, equivalenti a un tasso complessivo di mobilità sociale pari al 44%.
Se le diverse posizioni sociali sono ordinabili gerarchicamente lungo qualche dimensione (per es., lo status socioeconomico), la mobilità sociale in senso stretto può essere a sua volta suddivisa in due tipi: ascendente e discendente. La prima comprende tutti i movimenti nello spazio sociale che implicano un miglioramento della propria condizione – per es., dalla classe inferiore alla classe media – mentre la seconda comprende tutti i movimenti che comporta-no un peggioramento della propria condizione – per es., dalla classe superiore alla classe media. Nella società fittizia rappresentata nella tab. 1 risultano mobili in senso ascendente 90+50+200=340 individui, corrispondenti a un tasso complessivo di mobilità ascendente pari al 34%, mentre sono mobili in senso discendente 30+10+60=100 individui, equivalenti a un tasso complessivo di mobilità discendente pari al 10%.
Come abbiamo appena visto, nella società fittizia presa in esame il 44% degli individui risulta socialmente mobile. Ciò significa che, su 100 membri di questa società, solo 44 hanno abbandonato le orme dei genitori e si sono stabiliti – nel corso della vita adulta – in una posizione sociale diversa da quella nella quale sono nati e cresciuti; tutti gli altri, invece, sono rimasti fermi nelle proprie posizioni di partenza. Per interpretare questo dato è utile metterlo in relazione con i tassi complessivi di mobilità sociale che la società oggetto di studio avrebbe esibito in due scenari ideali: quello di massima ereditarietà sociale e quello di perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale.
Il primo scenario è quello in cui l’origine sociale esercita la maggiore influenza possibile sulle opportunità di mobilità sociale date le distribuzioni osservate delle origini e delle destinazioni sociali. Se la distribuzione delle origini è perfettamente identica a quella delle destinazioni – cioè, se la struttura dello spazio sociale rimane invariata nel passaggio dalla generazione dei genitori a quella dei figli – allora lo scenario di massima ereditarietà sociale corrisponde a una situazione in cui tutti i membri della società rimangono bloccati nelle proprie posizioni di origine e, quindi, il tasso complessivo di mobilità sociale risulta pari a zero. Se invece la struttura dello spazio sociale cambia nel tempo – cosicché alcune posizioni sociali si espandono e altre si contraggono – allora una certa quota di mobilità è inevitabile anche nello scenario di massima ereditarietà sociale. Per capire da dove derivi questa ‘mobilità necessaria’, consideriamo nuovamente la società fittizia rappresentata nella tab. 1. Come si può notare osservando l’ultima colonna della tabella, al tempo dei genitori 200 posizioni sociali appartenevano alla classe superiore, 300 alla classe media e 500 alla classe inferiore. Con il passare del tempo la struttura dello spazio sociale si è modificata in modo sensibile; precisamente, l’ultima riga della tab. 1 ci mostra che la classe inferiore ha subito una contrazione rilevante, passando da 500 a 320 posizioni (–180), mentre la classe media e la classe superiore si sono ampliate, passando rispettivamente a 380 (+80) e a 300 (+100) posizioni. Questi numeri suggeriscono una conclusione evidente: perfino nella situazione di massima ereditarietà sociale, dei 500 figli della classe inferiore solo 320 sarebbero potuti rimanere nella propria classe di origine, mentre i rimanenti 180 sarebbero stati costretti a muoversi verso le due classi in espansione. Ciò implica che il tasso complessivo di mobilità sociale che la società oggetto di studio avrebbe esibito nello scenario di massima ereditarietà sociale è pari a 180/1000=18%.
A sua volta, lo scenario di perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale corrisponde alla situazione in cui tutti i membri della società oggetto di studio – qualunque sia la loro origine sociale – hanno esattamente le stesse possibilità di occupare le posizioni di destinazione disponibili in un dato momento. Tornando ancora una volta al nostro esempio, l’ultima riga della tab. 1 ci mostra – come abbiamo appena visto – che al tempo dei figli il 30% delle posizioni sociali disponibili apparteneva alla classe superiore, il 38% alla classe media e il rimanente 32% alla classe inferiore. Questi valori implicano che, nello scenario di perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale, il 30% dei figli di tutte le origini sociali si sarebbe dovuto stabilire nella classe superiore, il 38% nella classe media e il 32% nella classe inferiore. Traducendo le percentuali in valori assoluti, dei 200 figli della classe superiore 60 sarebbero dovuti rimanere nella propria classe di origine, 76 sarebbero dovuti scendere nella classe media e 64 si sarebbero dovuti accontentare di una posizione di classe inferiore; analogamente, i 300 figli della classe media si sarebbero dovuti ripartire come segue: 90 in classe superiore, 114 in classe media e 96 in classe inferiore; infine, dei 500 soggetti nati nella classe inferiore, 150 si sarebbero dovuti stabilire nella classe superiore, 190 nella classe media e 160 nella classe inferiore. Questi numeri implicano che, nello scenario di perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale, il tasso complessivo di mobilità sociale che la società oggetto di studio avrebbe esibito è pari a (76+64+90+96+150+190)/1000=66,6%.
Ora, se confrontiamo il tasso complessivo di mobilità sociale osservato nella nostra società fittizia (44%) con gli analoghi tassi previsti nelle situazioni di massima chiusura sociale (18%) e massima fluidità sociale (66,6%), possiamo concludere che il tasso osservato si situa circa a metà fra questi due valori ideali; infatti: (44–18)/(66,6–18)=53%. Questa percentuale rappresenta il tasso netto di mobilità sociale e, in generale, può assumere valori compresi fra zero (corrispondente allo scenario di massima ereditarietà sociale) e cento (equivalente allo scenario di perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale).
Il tasso netto di mobilità sociale rappresenta un utile indicatore sintetico del grado in cui i membri di una data società – considerati complessivamente – si muovono fra le diverse posizioni sociali disponibili, ma non ci dice nulla sui modi e la misura in cui le opportunità di compiere tali movimenti variano a seconda della posizione di origine. Per descrivere questo aspetto del fenomeno, in primo luogo è opportuno calcolare i coefficienti di uguaglianza uij, ognuno dei quali esprime il rapporto fra la probabilità di accedere alla posizione j posseduta dai figli della posizione i e la probabilità di rimanere nella posizione j posseduta dai figli della posizione j. Quando i soggetti provenienti dalla posizione i e quelli provenienti dalla posizione j hanno esattamente le stesse opportunità di stabilirsi, nel corso della vita adulta, nella posizione di destinazione j, allora il corrispondente coefficiente di uguaglianza assume valore 1. Al contrario, quando i soggetti provenienti dalla posizione j hanno una certa probabilità di stabilirsi nella posizione di destinazione j, mentre quelli provenienti dalla posizione i non ne hanno alcuna, allora il coefficiente di uguaglianza assume un valore pari a zero. Nella maggior parte dei casi i coefficienti di uguaglianza assumono valori compresi fra zero e uno, esprimendo così diversi livelli di disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale.
La tab. 2 illustra i valori assunti dai coefficienti di uguaglianza all’interno della società fittizia rappresentata nella tab. 1. A titolo di esempio, consideriamo le opportunità di accesso alla classe superiore. Dalla tab. 1 sappiamo che la quota di figli della classe superiore che sono rimasti nella propria posizione di origine è pari a 160/200=80%; analogamente, la proporzione di figli della classe media che sono ascesi alla classe superiore è pari a 90/300=30%; infine, la quota di coloro che sono arrivati alla classe superiore partendo da quella inferiore è uguale a 50/500=10%. Date queste tre percentuali, si può facilmente concludere che il rapporto fra figli della classe media e figli della classe superiore in termini di opportunità di occupare – nel corso della vita adulta – le posizioni di classe superiore è pari a 30%/80%=0,38; a sua volta, il rapporto fra figli della classe inferiore e figli della classe superiore in termini di opportunità di stabilirsi nelle posizioni di destinazione più elevate è pari a 10%/80%=0,13. Come si può vedere, in entrambi i casi si è ben lontani dal valore 1 che rappresenta la perfetta uguaglianza di opportunità fra le origini sociali che sono state poste a confronto; inoltre, appare evidente che la disuguaglianza tende ad aumentare mano a mano che cresce la distanza sociale fra le posizioni di origine considerate.
Oltre ai singoli coefficienti di uguaglianza uij, la tab. 2 riporta i valori medi (geometrici) di tali coefficienti per ciascuna delle possibili posizioni di destinazione. Questi valori suggeriscono che, nella società fittizia presa in esame, l’accesso alla classe media è quello meno disuguale (0,49), mentre gli accessi alla classe superiore e a quella inferiore sono caratterizzati da livelli di disuguaglianza medi piuttosto elevati e molto simili fra loro (rispettivamente 0,22 e 0,20).
Per concludere, il grado complessivo di fluidità sociale presente in una data società può essere espresso mediante una misura riassuntiva che esprime il livello medio di uguaglianza di accesso alle diverse destinazioni sociali osservato ponendo a confronto tutte le possibili coppie di origini sociali. Questa misura, che chiameremo indice di fluidità sociale (i.f.s.), può assumere valori compresi fra zero (corrispondente alla situazione di massima disuguaglianza delle opportunità) e uno (corrispondente alla situazione di perfetta uguaglianza delle opportunità). Nella società fittizia rappresentata nella tab. 1 l’indice di fluidità sociale assume un valore pari a 0,29: ciò significa che, in media, i soggetti provenienti da origini sociali diverse hanno solo tre probabilità su dieci di godere delle stesse opportunità di mobilità sociale.
La mobilità sociale in Italia nei primi anni del 21° secolo
Utilizzando i concetti e gli strumenti analitici illustrati precedentemente, possiamo ora dedicarci all’esa-me dei flussi di mobilità sociale osservati in Italia all’inizio di questo secolo. A tal fine faremo ricorso ai dati raccolti nelle prime tre rilevazioni dell’Indagine longitudinale sulle famiglie italiane (Vite ineguali, 2002), soffermandoci sulle informazioni relative all’anno 2001. Per massimizzare l’omogeneità della popolazione oggetto di studio e ridurre al minimo le distorsioni derivanti dagli effetti del ciclo di vita, nelle analisi che seguono ci limiteremo a considerare gli uomini e le donne italiani che, nel 2001, avevano un’età compresa fra 35 e 65 anni (in particolare, nelle tabb. 3 e 5, n indica il numero dei soggetti presi in esame). Inoltre, coerentemente con l’approccio individuale illustrato in precedenza, prenderemo in esame solo i soggetti che, nell’arco della loro vita, hanno avuto almeno un’esperienza di lavoro retribuito; la posizione sociale di destinazione di questi individui è stata ricavata dall’occupazione da essi svolta al momento della rilevazione dei dati o – per i soggetti non più occupati – dalla loro occupazione più recente.
La tab. 3 illustra i flussi di mobilità esperiti dai membri della popolazione oggetto di studio, espressi in termini di probabilità (per cento) di raggiungere le diverse destinazioni sociali disponibili a partire dalle rispettive posizioni di origine. Facendo gli opportuni calcoli, il primo dato che possiamo rilevare osservando la tab. 3 è che il tasso complessivo di mobilità sociale risulta pari al 66,6%. Questo valore indica che, nel 2001, due terzi degli italiani con esperienza di lavoro occupavano una posizione sociale diversa da quella dei loro genitori. La maggiore propensione ad abbandonare il solco tracciato dalla famiglia di origine (75-90%) si osserva fra i figli della borghesia imprenditoriale, che si sono sparsi un po’ ovunque; fra la prole dei lavoratori agricoli, costretta a migrare – specialmente verso le posizioni di classe operaia – dalla forte contrazione subita dal settore agricolo nel secondo dopoguerra; e fra i discendenti della piccola borghesia urbana, che si sono diretti soprattutto verso le posizioni operaie e impiegatizie. Al contrario, mostrano una propensione alla mobilità sociale relativamente bassa (50-60%) i figli degli impiegati di concetto e, soprattutto, degli operai. In posizione intermedia (70% circa) si collocano, infine, i discendenti della borghesia professionale e quelli degli impiegati esecutivi.
Se si confronta il tasso complessivo di mobilità sociale osservato nella popolazione oggetto di studio (66,6%) con gli analoghi tassi previsti nelle situazioni di massima chiusura sociale (23,4%) e di perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale (78,4%), si ottiene un tasso netto di mobilità sociale pari al 78,5%: questo valore indica che, nei primi anni del 21° sec., la società italiana esibiva un tasso complessivo di mobilità sociale più vicino alla situazione di massima fluidità sociale che a quella di massima ereditarietà sociale. Inoltre, assumendo l’esistenza di un ordinamento gerarchico fra le sette posizioni sociali da noi identificate, è interessante osservare che gli italiani, quando hanno abbandonato la propria posizione sociale di origine, si sono mossi molto più spesso verso l’alto (50,8%) che verso il basso (15,8%), cioè hanno migliorato la propria posizione di partenza più frequentemente di quanto l’abbiano peggiorata. In parte, queste maggiori opportunità di mobilità ascendente sono certamente dovute al fatto che, nel passaggio dalla generazione dei genitori e quella dei figli, la struttura occupazionale dell’Italia è cambiata in misura significativa, producendo una forte contrazione delle posizioni lavorative meno desiderabili (occupazioni manuali nell’industria e nell’agricoltura) e, specularmente, una crescita rilevante delle posizioni più elevate, in particolare quelle di tipo impiegatizio e quelle afferenti alla borghesia professionale. Oltre a ciò, però, la tendenza degli italiani a essere mobili in senso più ascendente che discendente è probabilmente dovuta anche all’esistenza di solide ‘reti di sicurezza’ che le famiglie italiane e il sistema di regolazione del mercato del lavoro vigente nel nostro Paese dispiegano per proteggere i propri membri dai principali rischi di arretramento sociale. Se queste reti di sicurezza non ci fossero, nel complesso la società italiana sarebbe un po’ più mobile e la quota di spostamenti verso il basso crescerebbe di 5-6 punti percentuali rispetto al suo valore reale.
Il fatto che molti italiani risultino socialmente mobili, per di più in senso prevalentemente ascendente, non implica di per sé che la società italiana sia fluida, cioè offra ai propri membri pari opportunità di mobilità. I nostri dati, anzi, suggeriscono il contrario: all’inizio del nuovo secolo gli italiani risultano sì mobili, ma in modi significativamente diversi. Tale diversità è espressa in termini eloquenti dai coefficienti di uguaglianza riportati nella tab. 4. In primo luogo, i valori medi di tali coefficienti mostrano che, nella competizione per l’accesso a ogni data posizione sociale, coloro che sono nati e cresciuti in quella posizione sono sempre in vantaggio (nel bene o nel male) sui concorrenti provenienti da posizioni sociali diverse. A titolo di esempio, le probabilità dei figli della borghesia professionale di seguire le orme (privilegiate) dei propri genitori sono esattamente il triplo (cioè 1/0,33=3 volte) delle probabilità che hanno, in media, i soggetti provenienti dalle altre posizioni sociali di ascendere a questa classe. Analogamente, il rischio dei figli dei lavoratori agricoli di rimanere intrappolati nelle posizioni svantaggiate dei propri genitori è 1/0,09=11 volte più grande della probabilità di arretrare verso tali posizioni esibita, in media, dai soggetti provenienti dalle altre classi. Più in generale, i coefficienti di uguaglianza medi assumono valori compresi fra 0,09 (lavoratori dell’agricoltura) e 0,51 (impiegati esecutivi), cioè sono sempre di gran lunga inferiori alla soglia dell’unità che rappresenta la situazione di perfetta uguaglianza delle opportunità.
L’analisi puntuale dei coefficienti di uguaglianza riportati nella tab. 4, riferiti a uomini e donne italiani di età compresa fra i 35 e 65 anni con esperienza di lavoro mette in luce un altro aspetto importante della disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale: tale disuguaglianza tende ad aumentare mano a mano che cresce la distanza sociale fra le posizioni di origine in competizione. A titolo di esempio, nella competizione per l’accesso alla borghesia professionale il vantaggio di cui godono i figli di questa classe raggiunge il valore minimo (1/0,91=1,1) quando la classe concorrente è quella degli impiegati di concetto, mentre invece raggiunge i valori più elevati (7-11) quando i contendenti provengono dalla classe operaia o da quella agricola, ossia, dalle posizioni più basse della gerarchia socioeconomica.
Infine, l’indice di fluidità sociale calcolato sui flussi di mobilità riportati nella tab. 3 assume un valore pari a 0,29; questa cifra indica che, ancora oggi, le opportunità degli italiani di accedere alle diverse posizioni sociali disponibili è influenzata in ampia misura dalla loro origine sociale. In altri termini, i movimenti degli italiani nello spazio sociale – pur essendo relativamente frequenti – sono guidati da meccanismi sperequativi che ne influenzano la direzione in modo rilevante.
Un confronto con il passato
Alcuni studi hanno mostrato che, nel ventennio compreso fra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, la disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale è diminuita leggermente in Italia (Social mobility in Europe, 2004). Se si estende questa analisi temporale agli ultimi dati disponibili e si confronta la situazione attuale (misurata al 2001) con quella relativa all’ultima parte del secolo scorso (misurata al 1985), si può constatare che la tendenza all’aumento della fluidità sociale è proseguita anche in questo secolo. Specificamente, sebbene il volume complessivo dei flussi di mobilità sociale (totale, ascendente e discendente) sia rimasto sostanzialmente invariato nel periodo 1985-2001, la ‘scorrevolezza’ di tali flussi è aumentata in qualche misura rendendo un po’ più eque le opportunità degli italiani di muoversi nello spazio sociale del nostro Paese.
La tendenza all’aumento della fluidità sociale è documentata dalla fig. 1 i cui dati si riferiscono a uomini e donne di età compresa fra i 35 e 65 anni con esperienza di lavoro. Come si può vedere, nel periodo 1985-2001 è cresciuta in varia misura l’uguaglianza delle opportunità di accesso alla borghesia professionale, alla classe degli impiegati di concetto, alla piccola borghesia urbana e alla classe dei lavoratori agricoli; è rimasto sostanzialmente invariato il livello di uguaglianza nell’accesso alla borghesia imprenditoriale e alla classe operaia; ed è diminuito in modo sensibile solo il livello di equità nell’accesso alle posizioni impiegatizie esecutive. A livello complessivo, l’aumento dell’indice di fluidità sociale da 0,21 a 0,29 conferma quanto messo in luce dai coefficienti di uguaglianza: fra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale l’influenza sperequativa esercitata dalla posizione di origine sulle opportunità di mobilità sociale ha subito un certo indebolimento, rendendo un po’ più aperta – o, se si preferisce, un po’ meno rigida – la struttura sociale del nostro Paese.
Noi e gli altri
Lo studio comparato dei processi di mobilità sociale ha una lunga storia e, fin dai suoi inizi, è stato motivato dall’esigenza di stabilire se e in quale misura i sistemi economici, politici e culturali vigenti nelle diverse società influiscono sulle opportunità degli individui di muoversi nello spazio sociale. Esistono società più aperte di altre? L’influenza sperequativa esercitata dalla posizione sociale di origine su quella di destinazione è più o meno la stessa dappertutto o alcune società sono più virtuose – cioè meno disuguali – di altre? Nel secondo caso, quali sono i fattori macrosociali maggiormente correlati con il livello di fluidità sociale? Le risposte date a questi interrogativi dagli studiosi che se ne sono occupati non sono sempre convergenti, in quanto le analisi comparative sono piuttosto difficili da realizzare e disegni di ricerca anche solo leggermente diversi possono talvolta giungere a conclusioni opposte. Tuttavia, sulla base di vari studi compiuti negli ultimi anni è ragionevole affermare che esiste un certo grado di variabilità nei modi in cui la disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale si manifesta nelle società avanzate (Breen, Jonsson 2005). Specificamente, dalle analisi dei dati raccolti negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso è emerso che, in quel periodo, la fluidità sociale tendeva a essere più elevata nelle ‘nuove’ società (Israele, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Canada e Australia), nelle socialdemocrazie dell’Europa settentrionale e nei Paesi dell’Europa orientale, mentre risultava più contenuta nelle ‘vecchie’ società conservatrici dell’Europa occidentale, in particolare l’Austria, la Svizzera, la Spagna e l’Italia (Pisati 2000). I dati raccolti nei due decenni successivi hanno delineato un quadro sostanzialmente simile, confermando fra l’altro la collocazione dell’Italia nel gruppo dei Paesi occidentali socialmente meno fluidi (Social mobility in Europe, 2004).
Come ci mostrano i tassi netti di mobilità sociale e gli indici di fluidità sociale illustrati nella fig. 2, questo poco invidiabile primato del nostro Paese sembra destinato a durare anche questo nuovo secolo. I dati in questione, tratti dalle rilevazioni della European social survey effettuate fra il 2002 e il 2006, non sono direttamente confrontabili con quelli analizzati in precedenza, in quanto si basano su una rappresentazione dello spazio sociale meno dettagliata e su una definizione delle posizioni di origine non perfettamente conforme a quella delle posizioni di destinazione. Entro questi limiti, tuttavia, i valori rappresentati nella fig. 2 riescono a darci un’idea abbastanza chiara dei diversi modi in cui attualmente, in Europa, si manifesta la disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale.
Come si può notare osservando la fig. 2, in testa alla graduatoria delle società europee in termini di mobilità e fluidità sociale si trovano, come in passato, i Paesi dell’Europa settentrionale (Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, Belgio, Danimarca, Gran Bretagna e Finlandia), ai quali si aggiungono – un pò più arretrati – l’Irlanda, la Germania e due Paesi mediterranei come la Spagna e la Grecia. Livelli di fluidità sociale moderatamente inferiori alla media europea, si osservano nei Paesi dell’Europa centrale e orientale: Svizzera, Lussemburgo, Austria, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Nelle posizioni di coda si collocano il Portogallo, la Slovenia e – come anticipato – l’Italia. In particolare, nel grafico il nostro Paese occupa il quartultimo posto in termini di tasso netto di mobilità sociale (69% contro una media europea del 76%) e, addirittura, il penultimo posto in termini di indice di fluidità sociale (0,34 contro una media europea pari a 0,49).
È interessante osservare che se si analizza la correlazione fra l’indice di fluidità sociale e un’ampia serie di indicatori misurati a livello dei singoli Paesi, i migliori predittori della disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale appaiono non tanto i fattori che misurano il benessere socioeconomico (prodotto interno lordo pro capite, tasso di disoccupazione, percentuale di famiglie povere, livello di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, aspettativa di vita alla nascita ecc.) quanto gli indicatori di dinamismo demografico e di modernizzazione. Specificamente, il livello di fluidità sociale osservato nei 20 Paesi europei presi in esame tende a essere tanto più elevato quanto maggiori sono la quota di popolazione di età inferiore a 15 anni, il tasso di fertilità totale, la quota di popolazione residente nelle aree urbane e l’indice di partecipazione delle donne alla vita economica e politica del Paese. Nel loro insieme, questi quattro fattori spiegano oltre tre quarti della variabilità dell’indice di fluidità sociale osservata in Europa e, dunque, predicono in modo piuttosto accurato i diversi modi in cui l’influenza sperequativa dell’origine sociale si manifesta nei Paesi del nostro continente.
Il ruolo dell’istruzione
Come è stato osservato nelle pagine precedenti, la disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale affonda le proprie radici nella disuguaglianza delle condizioni di partenza, cioè nel fatto che gli individui nati nelle diverse posizioni sociali di origine dispongono in misura differenziata delle risorse che, nel corso della vita adulta, li aiuteranno ad accedere alle diverse destinazioni sociali disponibili. Fra queste risorse, quella che – almeno nelle società occidentali avanzate – svolge il ruolo principale nel mediare la relazione fra origine e destinazione sociale è certamente l’istruzione. I rapporti fra origine sociale, destinazione sociale e istruzione sono rappresentati in forma stilizzata nella fig. 3, che illustra graficamente il cosiddetto triangolo OID (Social mobility in Europe, 2004). In sostanza, il triangolo OID descrive ogni movimento dalla posizione sociale di origine a quella di destinazione come un processo a due stadi: a) innanzitutto gli individui, impiegando i propri talenti personali e le risorse (in particolare quelle economiche e culturali) messe a loro disposizione dalla famiglia di origine, acquisiscono un certo livello di istruzione, certificato dal conseguimento di un determinato titolo di studio; b) in secondo luogo, utilizzando i propri talenti, il titolo di studio conseguito e le risorse (soprattutto quelle economiche e sociali) che la famiglia di origine continua a offrire, gli individui accedono al mercato del lavoro e, seguendo una determinata carriera, raggiungono la propria posizione sociale di destinazione.
Nella fig. 3 il primo stadio del processo di mobilità è rappresentato dalla freccia OI, la cui presenza esprime un fatto fondamentale: a dispetto del principio di uguaglianza sociale di fronte all’istruzione, affermato in tutte le democrazie moderne, le opportunità che gli individui hanno di conseguire un titolo di studio più o meno elevato dipendono in modo significativo non solo dal proprio impegno personale e dai talenti che essi possiedono, ma anche dalle risorse che possono trarre dalla famiglia di origine. In media, quanto maggiori sono le risorse economiche e culturali ricavabili dalla famiglia di origine, tanto più elevato è il titolo di studio conseguito.
Il secondo stadio del processo di mobilità, a sua volta, è rappresentato da due frecce: ID e OD. La prima esprime l’azione dei principi universalistici e meritocratici di selezione sociale, in base ai quali le opportunità degli individui di accedere alle diverse destinazioni sociali disponibili dipendono dalle loro capacità e dai loro meriti personali, il cui possesso è certificato formalmente dai titoli di studio; a questo proposito è generalmente vero che quanto maggiore è il titolo di studio posseduto, tanto più elevata è la destinazione sociale alla quale si riesce ad accedere. La presenza della freccia OD, invece, ci dice che, anche a parità di titolo di studio, l’effetto sperequativo della posizione sociale di origine continua a farsi sentire e a influire – soprattutto mediante l’azione delle risorse economiche e sociali – sulle opportunità di accesso alle diverse posizioni di destinazione.
Mettendo insieme i due stadi del processo di mobilità sociale, l’influenza totale esercitata dalla posizione sociale di origine su quella di destinazione può essere espressa come la somma di due componenti: l’influenza diretta, rappresentata dalla freccia OD; e l’influenza indiretta – cioè mediata dall’istruzione – rappresentata dal prodotto delle frecce OI e ID. In formula:
influenza totale di O su D=OD+OI×ID.
In una società perfettamente fluida – cioè pienamente universalista e meritocratica – l’influenza totale della posizione di origine su quella di destinazione sarebbe pari a zero. In questo caso, infatti, il legame fra istruzione e destinazione sociale (ID) sarebbe certamente positivo, ma gli altri due legami risulterebbero nulli: da un lato, le opportunità di istruzione non dipenderebbero dall’origine sociale, cosicché il legame OI – e, con esso, l’intero effetto indiretto OI×ID – sarebbe pari a zero; dall’altro lato, a parità di titolo di studio l’origine sociale smetterebbe di esercitare la propria influenza sulle opportunità di accesso alle varie posizioni di destinazione e, quindi, anche l’effetto diretto OD risulterebbe nullo. Nella realtà, però, le cose stanno diversamente: seppure in misura variabile, in tutte le società contemporanee l’origine sociale esercita un effetto sperequativo sia sulle opportunità di istruzione (OI>0) sia sulle opportunità di accedere alle diverse destinazioni sociali a parità di titolo di studio posseduto (OD>0). L’esistenza di questo duplice effetto fa sì che l’influenza totale esercitata dalla po-sizione di origine su quella di destinazione sia tutt’altro che nulla e si traduca, come abbiamo visto precedentemente, in livelli più o meno elevati di disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale (Bowles, Gintis 2002; Social mobility in Europe, 2004; Breen, Jonsson 2005; Unequal chances, 2005).
In quale modo si manifestano gli effetti OI e OD nell’Italia contemporanea? Per cominciare, la tab. 5 illustra il primo di questi due effetti. Come si può vedere, la distribuzione dei titoli di studio varia ampiamente a seconda della posizione sociale di origine: se da un lato i figli della borghesia professionale e degli impiegati di concetto hanno conseguito un diploma di scuola media superiore o un titolo di studio universitario in 80-90 casi su cento, dall’altro lato i figli degli operai e dei lavoratori agricoli sono riusciti a superare il limite dell’obbligo scolastico solo nel 20-30% dei casi. I dati, dunque, non lasciano adito a dubbi: a dispetto dell’articolo 34 della Costituzione della Repubblica italiana – secondo il quale «la scuola è aperta a tutti» e «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» – nel nostro Paese l’accesso all’istruzione è, ancora oggi, fortemente influenzato dalla posizione sociale di origine.
Passando al legame OD, i nostri dati mostrano che, in Italia, la posizione di origine continua a esercitare un’influenza significativa sulle opportunità di mobilità sociale anche dopo avere tenuto sotto controllo il titolo di studio. Infatti, a parità di istruzione la disuguaglianza delle opportunità di accesso alle diverse destinazioni sociali diminuisce in modo sensibile, ma è ben lungi dal ridursi a zero. Sebbene l’indice di fluidità sociale registri un incremento sostanziale (dallo 0,29 allo 0,49), siamo ancora lontani da quel valore 1 che si osserverebbe se il livello di istruzione mediasse completamente l’effetto sperequativo dell’origine sociale – cioè, se l’effetto diretto OD fosse veramente nullo.
Dunque, l’evidenza empirica disponibile mostra che attualmente, in Italia, la posizione di origine esercita il proprio effetto sperequativo sulle opportunità di mobilità sociale sia indirettamente – cioè, tramite l’istruzione – sia direttamente. L’esistenza dell’effetto indiretto è una chiara testimonianza del fatto che la scuola, anziché essere un luogo di realizzazione dei principi meritocratici e, quindi, uno strumento di emancipazione sociale, contribuisce in modo rilevante a riprodurre le disuguaglianze sociali legate alle condizioni di nascita. D’altra parte, l’esistenza dell’effetto diretto OD indica che, perfino in presenza di una perfetta uguaglianza delle opportunità di istruzione, un certo grado di ereditarietà sociale – prodotto da meccanismi come la trasmissione intergenerazionale del patrimonio, il nepotismo e il clientelismo – continuerebbe a sussistere, impedendo in questo modo la piena affermazione del principio di uguaglianza delle opportunità.
Conclusioni
La mobilità sociale è un fenomeno presente in tutte le società note, presenti e passate. Oggi come ieri, nelle società occidentali come in quelle orientali, nei Paesi avanzati come in quelli in via di sviluppo, gli individui nascono e crescono in una data posizione sociale – quella della famiglia di origine – e poi, nel corso della vita adulta, intraprendono un proprio cammino all’interno dello spazio sociale al quale appartengono, fino a raggiungere una destinazione conclusiva che talvolta sarà uguale a quella dei propri genitori, ma in altri casi sarà diversa, in meglio o in peggio. Agli occhi delle scienze sociali, l’aspetto più rilevante di questo fenomeno è non tanto il volume complessivo di mobilità sociale che caratterizza una data società, quanto la misura in cui – all’interno di quella società – le opportunità di mobilità si distribuiscono in modo disuguale fra le diverse posizioni di origine. Quando tali opportunità si distribuiscono in modo perfettamente equo, allora l’origine sociale degli individui non esercita alcun effetto sulla loro destinazione sociale futura e la società può dirsi completamente fluida o aperta; in questo caso, nascere in una famiglia operaia o dell’alta borghesia farà certamente la differenza in termini di risorse godute durante la fase preadulta del ciclo di vita, ma tale disuguaglianza delle condizioni di origine non influirà in alcun modo sulla possibilità degli individui di accedere, nel corso della vita adulta, alle varie posizioni di destinazione disponibili. La perfetta uguaglianza delle opportunità di mobilità sociale, però, è solo una situazione ideale: nella realtà, la disuguaglianza delle condizioni di origine tende a riprodursi durante il ciclo di vita e a tradursi – attraverso vari meccanismi – in disuguaglianza delle opportunità di mobilità sociale. La nostra posizione sociale di origine, dunque, è una vera e propria ipoteca sul nostro futuro e, come tale, può condizionarlo in misura più o meno rilevante.
Come abbiamo visto, fino a oggi gli studi di mobilità sociale si sono occupati soprattutto di descrivere le caratteristiche salienti del fenomeno e le sue variazioni spazio-temporali, nonché di individuare le risorse socioeconomiche e i fattori istituzionali maggiormente responsabili della disuguaglianza delle opportunità di mobilità. Negli ultimi anni, però, l’attenzione si è estesa anche ai fattori genetici e al ruolo che essi possono svolgere nel plasmare le opportunità di mobilità sociale, in particolare in interazione con i fattori ambientali (Bowles, Gintis 2002; Unequal chances, 2005; Nielsen 2006; Mobility and inequality, 2006). Se effettuati su ampia scala e con i disegni di ricerca più appropriati, questi studi ci consentiranno di capire più a fondo la mobilità sociale e di spiegarne più correttamente le mutevoli manifestazioni, contribuendo a chiarire alcuni aspetti tuttora oscuri di questo importante fenomeno.
Bibliografia
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