Mobilità sociale
Una definizione della mobilità sociale che sia condivisa da tutti coloro che hanno affrontato questo tema è, probabilmente, impossibile da trovare. Un confronto fra le tante definizioni che sono state date dai diversi studiosi mostrerebbe come esse divergano fra loro o per gli aspetti considerati rilevanti o per gli ambiti entro i quali condurre le analisi o, ancora, per le finalità da assegnare agli studi sulla mobilità o, infine, per tutti questi motivi insieme. Questo stato di cose dipende da numerosi fattori, il principale dei quali è costituito dal fatto che le ricerche e le riflessioni sulla mobilità sociale hanno sempre oscillato tra due obiettivi in certa misura incompatibili tra loro.
Un primo obiettivo delle ricerche sulla mobilità è lo studio degli spostamenti che individui o gruppi compiono nello spazio sociale. In questa prospettiva si distingue tra mobilità intragenerazionale e mobilità intergenerazionale. Con la prima espressione si fa riferimento ai movimenti, ai percorsi che l'individuo compie nello spazio sociale durante il corso della sua vita. La seconda locuzione riguarda, invece, il confronto tra la posizione sociale occupata da un individuo in un certo tempo t e quella che occupava suo padre o la sua famiglia di origine in un tempo precedente t-1. Appare subito chiaro che, perché si possa parlare di movimenti nello spazio sociale, quest'ultimo deve essere definito a priori e occorre, inoltre, assumere che tale spazio, almeno nella sua strutturazione di fondo, sia rimasto costante nel passaggio da t-1 a t. Scopo di questo tipo di analisi è trarre informazioni intorno alle possibilità che la società offre agli individui di muoversi al suo interno, ai requisiti necessari a tale movimento, agli ostacoli frapposti al movimento stesso, al peso dell'eredità sociale.
Un secondo obiettivo che gli studi sulla mobilità si propongono è quello di descrivere e interpretare il mutamento sociale. L'analisi dei movimenti degli individui, delle famiglie, dei gruppi o delle classi da una posizione sociale a un'altra non solo fornisce informazioni sui comportamenti dei singoli, ma consente anche di trarre inferenze intorno alla struttura sociale entro la quale tali comportamenti si manifestano. Un sistema sociale concreto, in un dato momento storico, può essere contraddistinto da un maggiore o minor grado di apertura, da meccanismi di chiusura che impediscono o limitano fortemente l'accesso a certe posizioni sociali, dall'esistenza di barriere formali o informali, da sistemi di regolamentazione del mercato del lavoro che possono ostacolare o agevolare la fluidità sociale. La quantità e il tipo di mobilità sociale possono essere letti non solo come il risultato delle azioni isolate dei singoli, ma anche come effetto dell'agire collettivo di classi o di gruppi sociali che finiscono con il modificare la struttura stessa della società. Tale azione è, a sua volta, influenzata dalle forme specifiche che assumono i sistemi di disuguaglianza e dal grado di rigidità o di flessibilità del sistema sociale rispetto alle istanze di mutamento provenienti dai gruppi meno avvantaggiati.
In via di principio non esiste incompatibilità assoluta tra i due obiettivi, ma qualora li si voglia perseguire entrambi contemporaneamente si va incontro a qualche difficoltà. Studiare la mobilità come movimento richiede che tanto la struttura complessiva della società quanto i suoi assetti politico-istituzionali siano assunti come costanti, non solo nel corso della vita stessa di un individuo, ma anche nel trascorrere delle generazioni. In caso contrario non sarebbe possibile comparare posizioni sociali in tempi diversi.
Adottare come fine degli studi sulla mobilità l'analisi del mutamento sociale significa, invece, cercare di stabilire in qual modo l'azione dei singoli e dei gruppi sul mercato del lavoro, su quello delle credenziali educative e sugli altri luoghi dell'agire istituzionale modifichi i sistemi di disuguaglianza e le relazioni reciproche tra gli attori individuali e collettivi. In questo caso la comparazione riguarda principalmente gli stati del sistema in tempi diversi.
Alle origini della riflessione sociologica il tema della mobilità è stato affrontato in stretta connessione con quelli, più specificamente politici, del mantenimento dell'ordine sociale o, all'opposto, della trasformazione della società. Già Alexis de Tocqueville sottolineava come, a fondamento della democrazia, vi fosse l'eguaglianza delle opportunità, e in tutto il pensiero liberale del XIX secolo dominava in generale la convinzione che le società democratiche fossero ampiamente in grado di garantire a ciascun cittadino il posto che gli spettava in base alle sue capacità. La mobilità e, in particolare, l'ascesa sociale dipendevano solo dalle qualità 'morali' dell'individuo e dalla sua attitudine a superare le sfide poste dalla società. Alcuni economisti, come ad esempio Stuart Mill, si rendevano conto che l'esistenza di imperfezioni nel mercato del lavoro, specialmente in alcuni settori, produceva barriere tali che lo stesso Mill giudicava quasi equivalenti alle distinzioni ereditarie di casta; eppure essi erano convinti che la scarsa o nulla mobilità di certi strati della popolazione fosse un fenomeno destinato a scomparire. Lo sviluppo del capitalismo industriale, per effetto del progresso tecnologico, avrebbe accresciuto enormemente le opportunità per tutti e, di conseguenza, garantito la libera concorrenza fra gli individui, i gruppi e le classi.
La mobilità sociale non veniva considerata, perciò, un tema meritevole di essere studiato al fine di una migliore comprensione del funzionamento della società. Essa era una caratteristica di fondo delle società capitalistiche a democrazia liberale; sarebbe stato il mercato, con le sue capacità regolative, a garantire la piena realizzazione dell'eguaglianza delle opportunità.
Anche per il marxismo la mobilità non era argomento al quale dedicare molto spazio. L'ascesa della classe operaia era considerata un mito liberale: la crescita del capitalismo avrebbe innescato un processo di pauperizzazione degli agricoltori, degli artigiani e dei piccoli imprenditori, spingendoli verso il proletariato. L'unica strada praticabile per il miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia era un avanzamento collettivo attraverso la lotta di classe. La mobilità sociale non veniva considerata altro che una selezione operata dalla classe dominante tra i membri delle classi subalterne, con il risultato di personalizzare il successo e il fallimento e, quindi, di ostacolare, attraverso l'indebolimento della solidarietà di classe, il processo di trasformazione da 'classe in sé' a 'classe per sé'. Strumento di dominio e valvola di sicurezza delle tensioni sociali, la mobilità avrebbe l'effetto di consolidare il potere dei governanti: "Quanto più una classe dominante è capace di assimilare gli uomini più eminenti delle classi dominate, tanto più solida e pericolosa è la sua dominazione" (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. III, t. 2, p. 311).
Il marxismo classico liquida dunque come poco rilevante il tema della mobilità sociale; le possibilità reali di ascesa della classe operaia sono assai scarse e, comunque, non tali da modificarne le condizioni di subalternità e di sfruttamento nelle società capitalistiche. Questa posizione trova certamente fondamento in alcuni tra gli scritti di Marx, nei quali l'ascesa sociale è vista più come percorso di singoli individui che come processo di articolazione e di complicazione della struttura di classe. Su questa base, la sociologia di ispirazione marxista (in special modo quella europea) ha trascurato per lungo tempo questo tema, fino a considerarlo nient'altro che una 'problematica borghese' (v. Poulantzas, 1974, p. 37). Eppure l'analisi che lo stesso Marx ha fatto delle conseguenze della mobilità sulla struttura di classe è molto più articolata. John Goldthorpe (v., 1987²) ha dimostrato, attraverso un attento esame dei numerosi scritti nei quali Marx fa riferimento alla questione, che questo autore, pur non trattandola in modo esplicito e sistematico, le ha dedicato alcuni passi di notevole rilievo teorico. La tesi di fondo di Marx è che gli spostamenti degli individui da una classe all'altra e la capacità dei governanti di assimilare gli elementi migliori tra i governati sono fattori che ostacolano il processo di formazione delle classi. È soprattutto dal confronto delle società europee con la società americana che Marx trae sostegno per la sua tesi. La debolezza della classe operaia in America e, soprattutto, lo scarso sviluppo della formazione delle classi in questo paese, specie se messo a confronto con l'Europa, sono dovuti al continuo scambiarsi degli elementi di una classe con quelli di un'altra (v. Marx, 1852; tr. it., p. 496). Le stesse esigenze dello sviluppo capitalistico portano alla creazione di nuovi gruppi intermedi, quali i managers industriali e gli amministratori di società, gli addetti alle funzioni burocratiche e di controllo, i professionisti e tutti coloro che forniscono prestazioni di servizio all'organizzazione e al funzionamento della società capitalistica. Il reclutamento in questi gruppi occupazionali, intermedi tra la borghesia e il proletariato, non può che avvenire 'dal basso', innescando così percorsi di mobilità ascendente che ostacolano sia il processo di strutturazione delle classi, sia il formarsi della coscienza di classe.
Nei suoi scritti, dunque, Marx introduce un tema assai importante per lo studio del mutamento sociale attraverso l'analisi dei flussi di mobilità: quello "della incorporazione meritocratica nelle classi dominanti o élites, che avvia un processo il quale, se da un lato inietta efficienza e dinamismo nell'operare delle istituzioni economiche e politiche, dall'altro lato è essenzialmente conservatore nelle sue implicazioni per la struttura di classe nel suo complesso" (v. Goldthorpe, 1987², p. 10).
Il tema della formazione e del reclutamento delle élites è stato oggetto di attenzione anche da parte di Vilfredo Pareto nel suo Trattato di sociologia generale del 1916. La prospettiva dalla quale Pareto considera la mobilità sociale, e in particolare quella che egli definisce la "circolazione delle élites", è assai diversa dall'impostazione marxiana, anche se, per certi versi, le conclusioni dei due autori sugli effetti che la mobilità produce sulla conservazione dell'ordine sociale sono simili.
L'idea fondamentale di Pareto è che ogni società storicamente esistita ha sempre avuto una 'classe eletta', un nucleo di persone dotate di maggiori capacità delle altre, di qualità tali da farle emergere e, di conseguenza, da portarle a esercitare il potere e l'autorità. Da questo punto di vista Pareto rappresenta la società come articolata fondamentalmente in due strati: "1) lo strato inferiore, la classe non eletta [...]; 2) lo strato superiore, la classe eletta che si partisce in due a) la classe eletta di governo; b) la classe eletta non di governo" (v. Pareto, 1964², p. 531). Questa immagine della società ha come presupposto l'idea paretiana della estrema disomogeneità della natura umana, dal punto di vista sia fisico che morale e intellettuale. La disuguaglianza tra gli individui fa sì che alcuni siano inevitabilmente portati a emergere in un settore particolare della vita collettiva, per maggior talento, capacità, abilità. Si forma così quella che Pareto chiama, appunto, la "classe eletta non di governo". L'élite governante è composta da persone che, oltre a possedere qualità superiori, esercitano anche un'influenza, diretta o indiretta, sulla guida della società. E tuttavia, l'appartenenza a un'élite non è necessariamente ereditaria. Pareto sostiene, al contrario, l'inevitabilità del succedersi delle élites e, analizzando il susseguirsi delle forme di governo in un arco di quasi duemila anni, conclude che "la storia è un cimitero di aristocrazie" (ibid., p. 538). È proprio la circolazione delle élites a garantire il mantenimento dell'ordine sociale; ogni volta che una classe al potere si è opposta a questo naturale ricambio si sono avuti rivolgimenti che hanno portato alla rovina non solo l'élite al potere ma, talvolta, anche l'intera nazione. La mobilità sociale per Pareto è necessaria al pacifico innesto nella classe dominante delle forze migliori che si sviluppano dal basso e che sono in grado di portare nuove energie e nuove idee. Una società che non sia in grado di accettare e garantire il lento modificarsi delle élites mette a rischio il proprio ordine interno, dato che "è causa potente di turbamento dell'equilibrio l'accumularsi di elementi superiori nelle classi inferiori e, viceversa, di elementi inferiori nelle classi superiori" (ibid.).
Nel corso del XIX secolo e nei primi decenni del XX la mobilità sociale, pur essendo un problema affrontato da molti studiosi della società, non ha mai costituito un oggetto di studio a sé stante. Le riflessioni sulla mobilità sono sempre accompagnate da considerazioni di carattere sociopolitico e inserite nel quadro più generale delle trasformazioni della società e dei suoi assetti di potere. La pubblicazione, nel 1927, del volume di Pitirim Sorokin Social mobility segna il punto di svolta sia nella definizione delle coordinate teoriche entro le quali il tema della mobilità sociale si inserisce, sia nell'avvio di ricerche sistematiche, condotte con metodologie comparabili. L'importanza del lavoro di Sorokin per gli studi sulla mobilità sta non solo nell'aver dato sistematicità e organicità alle tante riflessioni e osservazioni sparse che fino a quel momento avevano caratterizzato questo settore della sociologia, ma anche nell'aver indicato i principali filoni di indagine nei quali esso si articola. Spesso criticato per la sua visione esplicitamente funzionalista della società e per il dichiarato disprezzo verso le teorie del progresso sociale, Sorokin ha avuto peraltro il merito di mettere a fuoco un'ampia gamma di nodi teorici ed empirici connessi allo studio della mobilità.
Alla base delle teorie espresse in Social mobility vi sono molti punti di convergenza con la visione paretiana della società e della natura umana. Come Pareto, Sorokin era fondamentalmente un elitista, convinto della sostanziale disuguaglianza tra gli uomini e dell'impossibilità di una società egualitaria e, come Pareto, riteneva che la mobilità fosse un'esigenza imprescindibile per il funzionamento del sistema sociale, un valore che ogni società dovrebbe perseguire e tutelare. All'interno di ogni gruppo sociale organizzato vi è sempre una più o meno accentuata stratificazione, cioè una distribuzione dei suoi membri all'interno di uno spazio sociale strutturato gerarchicamente. Non esiste un unico principio di ordinamento, perché le dimensioni della stratificazione sociale sono assai numerose e variabili, anche se riconducibili a tre tipi principali: la stratificazione economica, la stratificazione politica e la stratificazione professionale. Esiste una stretta correlazione tra queste tre dimensioni della disuguaglianza; chi si trova, ad esempio, nello strato economicamente superiore è, generalmente, in posizione sovraordinata anche sul piano politico e professionale. Tuttavia la correlazione non è mai perfetta ed esistono molte situazioni di non coincidenza o di coincidenza parziale fra i tre livelli. La conseguenza di questa rappresentazione tridimensionale dello spazio sociale è che ogni società deve essere studiata tenendo conto separatamente di ciascuna delle tre forme di stratificazione, che a Sorokin appaiono diverse tra loro non solo perché diverso è il criterio di strutturazione delle disuguaglianze, ma anche perché mostrano andamenti differenti quando se ne studiano le fluttuazioni nel tempo e tra i diversi sistemi sociali. In una società "che abbia una struttura complessa e mantenga l'istituzione della proprietà privata, le fluttuazioni dell'altezza e del profilo della stratificazione economica sono limitate" (v. Sorokin, 1927; tr. it., p. 62). Le trasformazioni radicali della forma e dell'altezza della stratificazione economica sono destinate o a portare al collasso sociale o a essere, prima o poi, annullate dalla "ricostruzione della piramide e dei suoi inevitabili strati economici" (ibid., p. 64). La stratificazione politica, fondata sulle disuguaglianze di potere, mostra per contro fluttuazioni, anche molto ampie, che non sembrano mostrare alcuna tendenza definita né verso l'appiattimento né verso l'innalzamento del profilo, così come nessuna tendenza netta è riscontrabile nelle fluttuazioni della stratificazione professionale. In generale, nelle società complesse "quanto più il lavoro professionale consiste nel compimento delle funzioni di organizzazione e controllo sociale e quanto più alto è il grado di intelligenza necessario per assolverle, tanto maggiori sono i privilegi di quel gruppo professionale e più elevato è il rango che esso occupa nella gerarchia interprofessionale e viceversa" (ibid., pp. 103-104). Lo studio della mobilità sociale per Sorokin ha dunque lo scopo di analizzare sia il movimento degli individui all'interno dello spazio sociale, sia le conseguenze che ne derivano sugli assetti della struttura sociale, sul mantenimento dell'ordine sociale e sui processi di mutamento. Non è possibile individuare delle leggi generali del mutamento nel sistema delle disuguaglianze, né stabilire linee di tendenza o correlazioni precise tra le diverse dimensioni dello spazio sociale. Il compito dello studioso della mobilità è dunque anzitutto quello di esaminare l'architettura esterna degli edifici sociali, per poi "entrare negli edifici e cercare di studiarne la struttura interna - le caratteristiche e la disposizione dei piani, gli ascensori che portano da un piano all'altro, le scale che servono per arrampicarsi e scendere da piano a piano [...]. Ciò fatto, dovrebbe rivolgersi allo studio degli abitanti dei diversi strati sociali" (ibid., p. 130).
Dal momento che ogni individuo si muove all'interno dello spazio sociale, preliminare a ogni analisi della mobilità è stabilire la posizione che ciascuno occupa in tale spazio; e come nello spazio euclideo la localizzazione di un oggetto viene determinata facendo ricorso a un sistema di coordinate, allo stesso modo la posizione sociale di un individuo è conosciuta solo se sono definite le sue relazioni con altri individui o fenomeni sociali, scelti come punti di riferimento. In pratica, nell'impossibilità di tener conto delle infinite possibili relazioni che ogni individuo può avere con tutti gli altri abitanti della Terra, Sorokin ritiene che la posizione sociale di ciascuno vada ricostruita per cerchie successive sempre più larghe: dalla sua relazione con i gruppi specifici dei quali fa parte (la famiglia, il gruppo professionale, il partito politico), alla relazione reciproca di tali gruppi all'interno di una popolazione, alla relazione di questa popolazione con le altre popolazioni umane. La mobilità sociale è dunque per Sorokin un fenomeno complesso, non limitabile ai soli spostamenti di un individuo lungo una scala gerarchica: per comprenderlo occorre tener conto dell'intero 'edificio sociale', delle relazioni tra le diverse sue componenti, dei movimenti dei gruppi e delle formazioni sociali delle quali il singolo fa parte. Nelle opere dei continuatori di Sorokin questa complessità e multidimensionalità del processo di mobilità è andata in larga misura perduta, e per lungo tempo le ricerche sulla mobilità sociale si sono limitate a cercare di misurare gli spostamenti individuali lungo una scala di stratificazione.
La mobilità sociale, nella definizione di Sorokin, è "il passaggio di un individuo oppure di un oggetto o di un valore sociale - cioè di qualsiasi cosa sia stata creata o modificata dall'attività umana - da una posizione sociale ad un'altra" (ibid., p. 133). Può esservi, quindi, una mobilità tanto orizzontale quanto verticale, e quest'ultima può essere ascendente o discendente; l'ascesa e la caduta sociale possono riferirsi alla mobilità economica, politica, professionale o a varie combinazioni di queste e di altre dimensioni meno importanti. I processi di ascesa o declino sociale, peraltro, non riguardano solo gli individui, ma anche i gruppi o gli strati nei quali gli individui entrano o dai quali escono. Possono esservi meccanismi di 'infiltrazione' di individui di uno strato inferiore in uno strato superiore, ma anche processi di 'inserimento' di un intero gruppo in uno strato superiore al fianco o al posto di altri gruppi che occupavano precedentemente quella posizione. Appare chiaro che Sorokin intende la mobilità sociale non solo come fenomeno che riguarda gli individui: sebbene egli dichiari esplicitamente di non voler usare il termine 'classe sociale', è evidente che i processi di mobilità hanno come protagonisti anche gli attori collettivi e che sono proprio i movimenti degli attori collettivi a produrre mutamenti e trasformazioni nei sistemi di stratificazione e in quel complesso di relazioni reciproche che vanno a comporre le diverse posizioni sociali.
I movimenti nello spazio sociale sono resi possibili dall'esistenza, in ogni società, di quelli che Sorokin chiama, con un'espressione che entrerà nel linguaggio comune sociologico, i 'canali della mobilità sociale'. L'esercito, la Chiesa, la scuola, le organizzazioni politiche, economiche e professionali sono tutte istituzioni che, in misura variabile a seconda delle epoche storiche e dei tipi di società, permettono agli individui di passare da uno strato all'altro, di muoversi su e giù. Anche la famiglia, attraverso le strategie matrimoniali messe in atto dai singoli, rientra tra i canali di mobilità. Ogni società concreta, ogni epoca storica si differenzia dalle altre anche per il differente peso che i diversi canali hanno nel promuovere l'ascesa sociale; in generale ve ne sono sempre due o tre che svolgono una funzione preminente rispetto agli altri. L'esercito in periodi di guerre e conflitti sociali e la Chiesa nel Medioevo ne sono gli esempi più chiari, così come l'apparato burocratico e quello politico-amministrativo negli Stati contemporanei.
I canali di mobilità non sono però soltanto una sorta di 'ascensori' o di 'scale', ma funzionano anche come agenzie di prova, selezione e distribuzione degli individui nei diversi strati sociali. Gli individui possiedono talenti, capacità e intelligenza in misura diseguale tra loro; occorrono, quindi, delle agenzie che mettano alla prova le qualità dei singoli, ne accertino e ne certifichino il possesso, distribuiscano gli individui tra le diverse posizioni sociali. Tipiche al riguardo sono le istituzioni educative e formative come la scuola. "La funzione sociale essenziale della scuola consiste non soltanto nell'accertare se un alunno ha appreso una certa parte di un libro di testo o meno, ma anche in primo luogo nello scoprire [...] quali alunni abbiano talento e quali no, quale capacità abbia ogni allievo e in quale misura, quali di essi siano socialmente e moralmente idonei" (ibid., p. 188).
La concezione che Sorokin ha della società è, dunque, dichiaratamente funzionalista; egli cioè ritiene che la società debba essere organizzata per soddisfare i bisogni del sistema nel suo complesso e che le varie istituzioni debbano 'funzionare' al fine del mantenimento dell'equilibrio complessivo. Tali premesse non gli impediscono, tuttavia, di osservare come spesso ciò non avvenga, con conseguenze negative per l'ordine sociale che possono portare fino al collasso dell'intera società. La mobilità sociale non è sempre quel meccanismo ben oliato di ricambio delle élites che potrebbe sembrare; le agenzie di selezione possono adottare criteri incompatibili tra loro e in contrasto con le esigenze del sistema o possono anche non funzionare affatto; in questi casi la società intera ne pagherà le conseguenze. Nemmeno il sistema di governo democratico, che pure Sorokin ritiene il migliore possibile, è in grado di garantire una maggiore quantità di mobilità rispetto ad altre forme di governo. Proprio perché in ogni società e in ogni periodo storico si osservano fluttuazioni nell'altezza e nel profilo della stratificazione, anche le società autocratiche possono avere periodi di elevata mobilità, così come quelle democratiche possono attraversare fasi di forte immobilità e chiusura sociale.La mobilità, del resto, non è solo un fattore positivo per la società e per i suoi membri, ma ha anche aspetti negativi; essa incoraggia l'individualismo, favorisce l'atomizzazione, gli antagonismi, l'irrequietezza e aumenta l'isolamento sociale e psicologico degli individui. In sintonia con Durkheim, Sorokin ritiene che uno degli effetti negativi che produce una società con un alto tasso di mobilità è l'aumento dei suicidi, conseguenza della caduta dei vincoli di solidarietà e della perdita del sentimento di appartenenza.
Dopo la pubblicazione del libro di Sorokin, nel 1927, i lavori teorici sulla mobilità sociale non hanno dato contributi realmente nuovi per alcuni decenni, e molte delle stesse ipotesi e linee di analisi avanzate in Social mobility sono state oggetto di scarsa considerazione. Al lavoro di Sorokin si è peraltro ispirata, anche se spesso in modo non esplicito, gran parte delle numerose ricerche empiriche che hanno caratterizzato, con il loro imponente sviluppo, gli anni del dopoguerra. Non v'è dubbio che vi fosse un grande bisogno di ricerche estensive su campioni rappresentativi nazionali, che potessero consentire non solo di verificare ipotesi, ma anche di descrivere il fenomeno della mobilità nelle società contemporanee attraverso l'analisi dei flussi su popolazioni intere. Lo stesso Sorokin, pure molto attento ai dati empirici, aveva potuto disporre di ricerche settoriali e poco comparabili e alcune indagini da lui condotte riguardavano ambiti ristretti della popolazione (studenti, uomini d'affari, gruppi di impiegati o di lavoratori salariati).
Questa fase di avvio di un consistente numero di indagini nazionali, condotte su vasti campioni e facilmente comparabili tra loro, risente, tuttavia, della carenza di teorie o, sovente, del ricorso a teorie estremamente semplificate, quando non addirittura viziate da pregiudizi ideologici, con notevoli ripercussioni sia sui metodi di conduzione delle ricerche stesse, sia sulla validità dei risultati ottenuti. Per contro i ricercatori hanno dedicato grande attenzione agli aspetti tecnico-metodologici dell'analisi dei dati. A differenza di altri settori della ricerca sociale - nei quali molto spesso ci si propone di descrivere un fenomeno ben definito spazio-temporalmente e di trovarne le determinanti o le connessioni con altri fenomeni - le ricerche sulla mobilità, muovendosi nel campo della dinamica sociale, presentano la difficoltà di dover descrivere un processo, che si svolge nell'arco di almeno due generazioni, a partire da un'immagine dello stato del sistema colta in un unico momento temporale.
Date queste premesse, era ovvio che gran parte dell'attenzione e degli sforzi dei ricercatori venisse rivolta alla costruzione di modelli statistico-matematici sempre più complessi e raffinati, che fossero in grado di dar conto dei processi di mutamento e consentissero la comparabilità nel tempo e tra nazioni. Si è così sviluppato un settore di ricerca altamente specialistico il quale, tuttavia, per molti anni è rimasto in larga misura isolato dagli sviluppi teorici che interessavano altri ambiti della sociologia. Solo negli anni ottanta, a partire dalle ricerche di John Goldthorpe in Gran Bretagna - poi seguito da altri studiosi in altri paesi -, le ricerche sulla mobilità sociale tornano a ricollegarsi in modo sistematico al dibattito teorico.Al di là delle differenti immagini della società, delle diverse impostazioni, della varietà e del grado di sofisticazione delle tecniche di analisi adottate, il punto di partenza di ogni studio sulla mobilità è la cosiddetta 'matrice di mobilità'. Si tratta di una tabella a doppia entrata che, per convenzione, riporta sulle righe le 'origini', vale a dire il punto di partenza dell'individuo, e sulle colonne le 'destinazioni', corrispondenti alla posizione sociale degli intervistati al momento della rilevazione. Nelle tavole di mobilità intergenerazionale le origini sono date dalla posizione del padre dell'intervistato o della sua famiglia di origine; nelle tavole di mobilità intragenerazionale l'origine è data dalla posizione del soggetto all'inizio della sua carriera lavorativa.
Lungo la diagonale principale (dove, peraltro, la matrice tende ad addensarsi) si distribuiscono gli 'immobili', nel triangolo superiore della matrice i mobili discendenti e, nel triangolo opposto, i mobili ascendenti (v. tabella). Perché si possa parlare in senso proprio di ascesa o discesa sociale è necessario, però, che le modalità di riga e di colonna possano essere ordinate secondo un qualche criterio distributivo; deve esserci, in altre parole, una rappresentazione delle disuguaglianze riconducibile a uno schema di stratificazione. È stata questa l'impostazione delle prime ricerche sulla mobilità condotte da Natalie Rogoff (v., 1953) negli Stati Uniti e da David Glass (v., 1954) in Gran Bretagna. Svolta nel 1949 su un campione di 10.000 maschi adulti, l'indagine coordinata da Glass intendeva analizzare la formazione di una nuova classe media impiegatizia che si andava sostituendo alla vecchia classe media fatta di professionisti e lavoratori autonomi. Anche se usa il termine 'classe', in realtà Glass fa ricorso a un ordinamento basato su sette differenti livelli di status nei quali classifica tutti gli intervistati. Il problema di partenza dei ricercatori inglesi era squisitamente politico. Ci si chiedeva quali sarebbero state le conseguenze sull'ordine sociale dell'espansione del nuovo strato medio che si stava costituendo in quel periodo in Gran Bretagna a scapito della piccola borghesia autonoma, rispetto alla quale si caratterizzava anche per un più elevato livello di istruzione. Diventava quindi importante sapere 'da dove' venisse questa nuova classe e di quali valori fosse portatrice. Più in generale, Glass voleva mettere in luce gli ostacoli che si frapponevano alle possibilità di ascesa degli strati subalterni e promuovere politiche sociali che agevolassero i processi di mobilità. Nel lavoro di Glass e dei suoi collaboratori troviamo quell'intreccio tra teoria e assunti ideologici che caratterizzerà larga parte delle successive indagini sulla mobilità: una stretta connessione tra oggetto della ricerca e obiettivi sociopolitici e una radicata convinzione della possibilità di realizzare un modello di società 'giusta', quasi una condizione 'ideale' del sistema sociale rispetto alla quale vengono, poi, calcolati gli scostamenti della realtà osservata.
Un altro elemento che caratterizza la ricerca di Glass e che diventerà tipico di tutte le successive ricerche è l'uso dell'occupazione come indicatore della posizione sociale degli individui. Il criterio adottato per ordinare le occupazioni fu quello, in seguito largamente accettato, del prestigio sociale. L'analisi dei dati non faceva ricorso a metodologie particolarmente complicate, limitandosi a stabilire il volume di mobilità complessiva per l'intera tavola e per i singoli strati. I dati raccolti mostrarono che circa i due terzi del campione analizzato erano costituiti da soggetti 'mobili', che si collocavano, cioè, in una posizione più alta o più bassa della scala rispetto a quella occupata dal padre. La quantità di mobilità discendente trovata da Glass risultò quasi doppia di quella ascendente. Questo risultato dipendeva dal fatto che la distribuzione delle occupazioni dei figli era più addensata verso il basso rispetto a quella dei padri. Molte furono le perplessità suscitate da questo dato; esso stava a significare che, nell'arco di una generazione, l'offerta complessiva di lavoro aveva ridotto le posizioni migliori e aumentato quelle peggiori. È presumibile, peraltro, che le cose non stessero proprio così, ma che i dati di Glass fossero distorti dai criteri di rilevazione adottati e, in particolare, dal fatto che fossero messi a confronto, per stabilire la mobilità intergenerazionale, momenti del ciclo di vita differenti e non direttamente comparabili per i padri e per i figli. Per i padri fu rilevata l'occupazione alla fine della carriera; per la gran parte dei figli, invece, l'occupazione venne rilevata quando costoro non avevano ancora completato il proprio percorso lavorativo. Anche da questo punto di vista la ricerca di Glass è rivelatrice dei problemi che occorre risolvere prima di costruire una matrice di mobilità.
La conclusione di maggior rilievo che si può ricavare dal lavoro di Glass (v. Heath, 1981) è che la gran parte della mobilità intergenerazionale risultava essere 'a breve raggio', vale a dire fatta di piccoli spostamenti dello status del figlio rispetto a quello del padre. Era assai difficile per chi partiva dal basso accedere agli strati alti della scala, sia per l'esistenza di barriere frapposte ai percorsi di mobilità, corrispondenti alla divisione tra lavoro manuale e non manuale, sia perché le posizioni più elevate mostravano un alto grado di ereditarietà sociale. Questi risultati portarono Glass a concludere che la società britannica era ancora una società relativamente chiusa che non garantiva un'effettiva eguaglianza delle opportunità, malgrado la diffusione della scolarizzazione che avrebbe dovuto consentire, se non proprio di abbattere, almeno di ridurre gli ostacoli alla mobilità degli individui.
Il modello ideale con il quale Glass confronta i risultati empirici ottenuti è quello della 'mobilità perfetta': se non vi fossero barriere alla mobilità, se non vi fosse l'autoreclutamento degli strati alti della scala occupazionale e se non vi fossero chiusure sociali che impediscono agli strati bassi della popolazione di uscire dalla loro condizione, ogni individuo, indipendentemente dalla propria origine, dovrebbe avere le stesse possibilità degli altri di finire in una qualunque delle destinazioni. Il modello, dal punto di vista tecnico, è analogo a quello che si adotta con l'uso del test del 'chi quadrato', per confrontare la distanza tra le frequenze osservate e le frequenze attese, sotto l'ipotesi di indipendenza statistica. Se non esistesse alcun vincolo al movimento degli individui tra le diverse posizioni sociali, la probabilità di occupare un certo posto sarebbe data solo dalla numerosità delle posizioni di partenza e delle posizioni di arrivo. Stabilire di quanto e in quali parti della matrice di mobilità la distribuzione effettiva degli individui si discosti da questa situazione ideale consente non solo di stabilire il livello di mobilità di un sistema sociale, ma anche di determinare in quali parti di esso e con quale intensità si manifestano le aperture o le chiusure sociali.
Diversa nell'impianto di rilevazione, ma simile alla ricerca di Glass quanto ai quesiti sostantivi e metodologici ai quali cercava di rispondere, è la ricerca di Natalie Rogoff (v., 1953) sui registri matrimoniali di Minneapolis relativi agli anni 1910 e 1940. Dopo aver ricostruito le matrici di mobilità, Rogoff rilevò che la tendenza prevalente era verso la stabilità intergenerazionale. Anche la ricercatrice americana si poneva il problema di stabilire se la società statunitense riuscisse a garantire quell'uguaglianza delle opportunità che stava alla base della legittimazione del sistema di governo. All'interno di un quadro di sostanziale stabilità Rogoff scoprì che nel passaggio da una generazione all'altra la quota di figli di operai che erano diventati impiegati andava crescendo. Si chiese, allora, se questo aumento della mobilità ascendente fosse dovuto a un'effettiva fluidità della società americana o al mutamento di composizione nella struttura delle occupazioni, ed elaborò un indice di 'distanza sociale' che serviva a calcolare quanta distanza vi fosse tra una mobilità indotta dai mutamenti del mercato del lavoro e una mobilità legata all'effettiva libertà di movimento degli individui lungo la scala sociale.
I lavori, per molti aspetti pionieristici, di Glass e Rogoff diedero luogo non solo a un metodo di analisi della matrice di mobilità che ebbe larga diffusione, ma portarono anche a un'importante distinzione concettuale tra i tipi di mobilità. La matrice 'origini x destinazioni' dà conto di tutti gli spostamenti dei figli rispetto alle posizioni dei padri; il complesso di questi spostamenti definisce la mobilità 'totale'. Il passaggio da una generazione all'altra, però, non avviene in una situazione statica del mercato occupazionale. Nell'arco di tempo considerato intervengono cambiamenti nella struttura delle occupazioni; per effetto del progresso tecnologico alcuni mestieri scompaiono o diventano obsoleti, altri si espandono o ne nascono di nuovi. Gli individui sono perciò 'costretti' dalla nuova domanda di lavoro a muoversi rispetto alle posizioni di partenza. Una parte della mobilità totale, quindi, è indipendente dalla volontà dell'individuo o dalle sue qualità personali: si tratta, in altri termini, di una mobilità 'strutturale' o 'tecnologica' o 'forzata'. Ciò che resta della mobilità complessiva, dopo che è stata depurata della componente strutturale, è la mobilità 'pura' o 'di circolazione', cioè quella quota di mobilità imputabile ai liberi comportamenti dei singoli e alla fluidità del sistema.
Questa distinzione ebbe molto successo tra i ricercatori, che nel corso degli anni cinquanta e sessanta spesero molti sforzi per migliorare e perfezionare i rozzi indici elaborati da Glass e Rogoff, nel tentativo di trovare una misura attendibile ed efficace della mobilità pura.
Ma fu proprio quest'ultimo concetto a essere messo in discussione (v. ad esempio Sobel, 1983), non tanto per la difficoltà tecnica di trovare un algoritmo che rispondesse ai requisiti richiesti, quanto per l'inconsistenza teorica del concetto stesso.
Il modello della mobilità perfetta risultò una semplificazione eccessiva sia perché implicava un'immagine della società del tutto astratta, sia perché scarsamente fondato teoricamente, non facendo riferimento ad alcuna concezione dell'agire sociale. L'individuo veniva visto, sostanzialmente, come determinato in larga misura dalle trasformazioni di un sistema a lui estraneo. Le uniche possibilità di movimento sembravano leggibili più in chiave volontaristica che inserite in un sistema di interazioni e relazioni reciproche tra attori sociali. Per molti anni, comunque, gli studi sulla mobilità furono condizionati da questa impostazione iniziale che, in sostanza, intendeva studiare come l'individuo si muove all'interno della società, quali ostacoli si frappongono a tali movimenti e come è possibile distinguere le società tra loro a seconda dei diversi gradi di libertà di salire o scendere lungo la scala sociale concessi all'individuo. La diffusione delle ricerche sulla mobilità nei vari paesi pose il problema della comparabilità di tali indagini al fine di verificare in che misura i processi di industrializzazione e lo sviluppo economico influissero sulla mobilità sociale e se nei regimi liberaldemocratici vi fossero maggiori opportunità di ascesa sociale rispetto ad altre forme di governo. Anche nelle comparazioni internazionali ebbero molto peso i convincimenti ideologici personali dei ricercatori. È questo il caso dello studio di Seymour Lipset e Reynhard Bendix (v., 1959) dedicato, appunto, ad analizzare la mobilità sociale nei paesi industriali, attraverso il confronto fra tavole di mobilità relative a nove paesi.I due autori partono dal convincimento che la democrazia sia l'unica forma di governo effettivamente in grado di realizzare l'equità tra i cittadini e, inoltre, che la società industriale, attraverso lo sviluppo economico, fornisca la base strutturale per il miglioramento delle posizioni sociali e offra ampie opportunità di ascesa. L'assioma sul quale Lipset e Bendix fondano il loro lavoro è che le democrazie industriali del XX secolo sono quelle che garantiscono la maggior quantità di mobilità sociale rispetto a tutte le altre società con differenti basi economiche e politiche. Lo studio della mobilità ha, anche per loro, importanti risvolti sul piano delle politiche sociali e del mantenimento dell'ordine democratico. Poiché la mobilità ha un effetto stabilizzante sull'ordine sociale, occorre studiare gli ostacoli che si frappongono al suo libero manifestarsi, evitando quelle distorsioni e chiusure che possono essere motivo di crisi e di conflitti sociali. Una delle più frequenti forme di alterazione del regolare sviluppo della mobilità è l'incongruenza di status, cioè l'incoerente collocazione degli individui sulle diverse dimensioni della stratificazione sociale. Se le singole posizioni sociali si trovano a livelli diversi rispetto alle tre linee principali della distribuzione della ricchezza, del potere e del prestigio, le frustrazioni e lo scontento di coloro che occupano tali posizioni 'non congruenti' possono portare a forme di malessere sociale diffuso e mettere a rischio il mantenimento dell'ordine sociale.
I risultati della comparazione mostrarono che Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti, Svezia e Svizzera avevano tassi elevati di mobilità verticale, tutti oscillanti intorno al 30% della popolazione. Analogamente, per tutti i paesi considerati, i due terzi dei 'mobili' erano costituiti da individui che avevano comunque migliorato la propria posizione rispetto a quella del padre.
Questo dato fu alquanto inatteso, poiché contrastava con l'ipotesi che livelli diversi di sviluppo economico producessero tassi di mobilità differenziati; ma i risultati smentivano anche l'opinione diffusa che gli Stati Uniti fossero la nazione che più di ogni altra si avvicinava alla realizzazione di una perfetta eguaglianza di opportunità. Lipset e Bendix andarono, allora, alla ricerca degli elementi che accomunavano tali paesi e che avrebbero potuto spiegare la similarità dei tassi di mobilità. Le caratteristiche principali di tutte le società investite dai processi di modernizzazione che potevano spiegare i livelli elevati e pressoché simili dei tassi di mobilità erano due. Le società esaminate erano tutte caratterizzate da economie in espansione e, quindi, presentavano un aumento delle posizioni dirigenziali e amministrative. I metodi di selezione e di reclutamento erano diventati, per effetto dei processi di scolarizzazione di massa, più indipendenti dalle origini sociali: l'istruzione diventava sempre più un canale di mobilità, capace di contrastare l'ereditarietà sociale. A queste cause Lipset e Bendix aggiungevano i differenziali di fertilità tra i diversi strati della popolazione, nel senso che gli strati alti, meno fertili, dovevano fare ricorso, per affrontare il ricambio generazionale, ai figli di genitori collocati negli strati inferiori. Coerentemente con le premesse dalle quali erano partiti, Lipset e Bendix elaborarono la tesi della convergenza, secondo la quale tutte le società industriali si muovono verso la standardizzazione e la omologazione delle loro strutture sociali. In tutti i paesi considerati si andava verso l'affermarsi delle famiglie nucleari - molto mobili sia geograficamente sia socialmente - e verso forme economiche miste, in cui l'apparato statale assumeva la funzione di regolatore dei processi di trasformazione economica e sociale.
Le indagini fondate sulla matrice di mobilità non furono esenti da critiche, che riguardavano sia il modo di rappresentare la struttura sociale, sia il tipo di spiegazioni adottate per dar conto dei flussi. Raggruppare le posizioni secondo una gerarchia basata sulla stratificazione sociale aiuta certamente a distinguere la mobilità ascendente da quella discendente, ma presenta alcuni limiti, legati alle modalità di costruzione degli strati. In via di principio una scala di stratificazione, sia essa fondata sul reddito, sul prestigio o su qualunque altro criterio, si distribuisce lungo un continuum e le cesure sono, per ciò stesso, stabilite con una rilevante dose di arbitrarietà. Gli stessi Bendix e Lipset furono criticati per aver stabilito una linea divisoria tra lavoratori manuali e non manuali, senza tener conto delle profonde differenze esistenti all'interno di entrambe le categorie. La stessa quantità di mobilità rilevata varia a seconda del numero degli strati in base ai quali viene costruita la matrice. Un maggior numero di strati aumenta, evidentemente, la proporzione di soggetti mobili, specie nelle società nelle quali il progresso tecnologico porta a una crescente divisione del lavoro.
Le indagini campionarie, sulle quali si fonda la gran parte delle ricerche sulla mobilità, fanno sorgere una difficoltà ulteriore. La distribuzione dei figli fra i diversi strati occupazionali è, infatti, rappresentativa della distribuzione dell'intera popolazione al momento in cui è stata effettuata la rilevazione, poiché è sui figli che viene costruito il piano di campionamento e sono costoro che rispondono all'intervista. L'informazione sui padri viene, invece, rilevata chiedendo ai figli stessi quale fosse l'occupazione del padre o della madre in un certo momento della loro vita. La matrice di mobilità, quindi, non dà, per quanto riguarda le origini, informazioni temporalmente omogenee, perché, appunto, la distribuzione delle occupazioni dei padri fa riferimento a periodi diversi, che dipendono dall'età dell'intervistato. Accanto a queste difficoltà, derivanti dalle tecniche di rilevazione campionaria, vi sono anche quelle connesse al fatto che la mobilità ascendente dipende, in larga misura, dal livello di partenza dell'individuo. James Coleman, applicando i processi stocastici alle tavole di mobilità desumibili dalle ricerche di Glass e di Svalastoga, aveva osservato che la mobilità, ascendente o discendente che fosse, era comunque di breve raggio, a dimostrazione dell'esistenza di meccanismi sociali che ostacolavano la possibilità, per gli individui, di compiere percorsi di mobilità di portata consistente (v. Coleman, 1964, pp. 461-462). Questa serie di problemi teorici e metodologici portò Peter Blau e Otis Duncan (v., 1967) a impostare la loro ricerca su basi totalmente differenti, modificando il tipo stesso di questione alla quale l'indagine doveva rispondere. Fino alla metà degli anni sessanta le ricerche si erano prefisse di calcolare i tassi di mobilità in una certa popolazione per poi spiegare, risalendo alle determinanti individuali e sociali, perché quella certa quota di individui era passata da uno strato a un altro. L'interrogativo che si pongono Blau e Duncan è diverso; essi si chiedono che cosa determini la collocazione di una persona a un certo livello della scala di prestigio. Nei percorsi lavorativi di ciascuno vi sono una serie di fattori che influiscono sullo status finale raggiunto, e tali fattori sono in parte ascrittivi, cioè stabiliti dalle origini sociali, e in parte acquisitivi, cioè conquistati dall'individuo attraverso il proprio agire sul mercato delle credenziali educative e sul mercato del lavoro.
Nel lavoro dei due ricercatori statunitensi la mobilità sociale subisce una trasformazione concettuale. Non è più il movimento di singoli o gruppi nel corso della vita o rispetto alle posizioni di partenza, ma diventa il conseguimento di uno status individuale come risultato dell'azione congiunta di più cause, che influiscono con peso variabile sul risultato finale. Anche il metodo di rappresentazione attraverso le matrici di mobilità viene abbandonato, in favore della tecnica della path analysis, cioè di un sistema di equazioni di regressione multipla, ordinate gerarchicamente in modo da rappresentare un modello di relazioni causali. La variabile dipendente è costruita in modo da poter essere trattata nelle equazioni, ed esprime lo status socioeconomico della posizione sociale di ciascun intervistato, espresso da un indice che lo stesso Duncan aveva elaborato in uno studio precedente (v. Duncan, 1961). Blau e Duncan ipotizzano poi un modello di base di conseguimento di status (status attainment), nel quale rappresentano le influenze dei fattori acquisitivi e ascrittivi sullo status del soggetto.
Lo schema causale dello status attainment prevede influenze dirette e indirette tra le variabili. Il livello occupazionale del padre, ad esempio, influisce in parte direttamente sul livello occupazionale finale del figlio e in parte indirettamente, attraverso l'influenza esercitata sulla scolarità e sul primo lavoro del figlio stesso (v. fig.). Il vantaggio dei modelli di path analysis sta nel fatto che non solo è possibile calcolare il peso dei singoli fattori, ma anche dar conto della variabilità totale. Complessivamente il modello di Blau e Duncan risultò in notevole misura indeterminato; esso infatti, per gli Stati Uniti, riusciva a spiegare solo il 57% del livello occupazionale. Una sua applicazione all'Italia non ha dato risultati molto diversi, arrivando a dar conto del 58% della varianza totale (v. Cobalti, 1995, p. 145).
Il modello dello status attainment proposto da Blau e Duncan fu oggetto di numerose applicazioni e affinamenti da parte di molti altri studiosi, ma venne progressivamente abbandonato. La quantità di varianza spiegata non era mai, infatti, molto elevata, segno che il modello, per quanto complesso tecnicamente, non era in grado di andare oltre un certo limite. L'applicazione delle equazioni di regressione, inoltre, richiedeva alcuni assunti intorno alle variabili, come la linearità, la continuità, la possibilità di trovare un'unità di misura, che mal si applicavano a molti degli indicatori utilizzati. Dal punto di vista teorico, infine, venne messo in discussione che la stratificazione sociale fosse rappresentabile lungo un continuum. Ai due autori resta il merito di aver sottolineato l'importanza, anche per gli studi sulla mobilità, di costruire a priori un modello che rappresenti la realtà secondo le ipotesi del ricercatore e di aver dato rilievo, nel modello stesso, al rapporto tra ascesa sociale, capitale culturale familiare e livello di istruzione.
Uno dei meriti di Blau e Duncan fu quello di aver rivolto l'attenzione all'istruzione come canale di mobilità ascendente. Il convincimento generale dei primi studiosi della mobilità era che, comunque, elevati livelli di istruzione garantissero il raggiungimento di posizioni elevate. Tale convinzione era così radicata che quando Arnold Anderson (v., 1961, p. 176) analizzando i dati di alcune ricerche dimostrò che "l'istruzione è solo uno dei numerosi fattori che influenzano la mobilità e certo non il più importante", questo risultato diventò noto come il 'paradosso di Anderson' (v. Cobalti, 1995, p. 88). A conclusioni analoghe pervennero gli stessi Blau e Duncan, mostrando per gli Stati Uniti come uno stesso livello di scolarità producesse rendimenti differenziati sulla carriera dei bianchi e della popolazione di colore. Numerosi altri studiosi (v. Girod, 1977) hanno poi dimostrato che il livello di scolarità è influenzato in modo determinante dalle origini sociali, ma ha un moderato effetto sullo status raggiunto da un individuo.
L'analisi delle relazioni tra istruzione e mobilità sociale confermò, qualora ve ne fosse stato ancora bisogno, l'inadeguatezza degli schemi interpretativi fondati sulla distinzione tra mobilità strutturale e mobilità pura e sulle teorie che interpretavano gli ostacoli alla libera circolazione degli individui all'interno della struttura sociale come barriere contingenti, eliminabili mediante interventi di politica sociale volti a garantire un'effettiva eguaglianza delle opportunità. Per rappresentare in modo adeguato il sistema di condizionamenti e le difficoltà di ascesa per il singolo occorreva tener conto sia degli effetti che la complessità sociale produce sulle azioni dei singoli, sia dei processi che gli attori collettivi pongono in atto per la conquista dei benefici e per l'accesso alla distribuzione delle risorse. Fondamentali, a tale riguardo, sono i contributi di Raymond Boudon e di Frank Parkin che, sia pure partendo da prospettive teoriche differenti, hanno messo bene in luce il ruolo svolto dalle istituzioni educative e dall'istruzione nelle società complesse.
Lo scarso effetto dell'istruzione sulla mobilità sociale, evidenziato dal 'paradosso di Anderson', può essere ricondotto, secondo Boudon (v., 1973), al fatto che nelle società complesse non è sufficiente esaminare motivazioni e comportamenti individuali per spiegare l'esito dell'agire dei singoli. L'aggregazione di comportamenti e strategie degli attori produce, infatti, risultati diversi da quelli attesi e prevedibili, per l'operato di quello che Boudon chiama l'effetto di sistema. Se è vero che la democratizzazione del sistema scolastico, ottenuta tramite le facilitazioni all'accesso ai livelli medio-alti dell'istruzione, in una prima fase può aumentare i livelli di scolarità, occorre, tuttavia, tener conto che i costi di una scolarità supplementare sono più elevati per chi ha origini sociali basse e che il sistema di motivazioni è differente a seconda dell'origine sociale stessa. Ne consegue che lo svantaggio sociale ha effetti moltiplicativi che influiscono sulla riuscita scolastica. Una fase di espansione della scolarità genera un processo di inflazione dei titoli di studio che colpisce soprattutto, per l'azione di tali effetti moltiplicativi, chi parte da origini sociali basse. Si può dire allora, usando la terminologia di Sorokin, che la complessità delle società industriali non consente alle 'agenzie di orientamento' di funzionare al meglio. Politiche di facilitazione degli accessi all'istruzione, per il combinarsi di disuguaglianze di sistema e disuguaglianze congiunturali, possono produrre l'effetto 'perverso' di lasciare inalterate le disparità di accesso all'istruzione o di rendere inefficace il titolo di studio ai fini del raggiungimento di uno status sociale più elevato.
Accanto alle considerazioni di ordine sistemico introdotte da Boudon, altri contributi hanno messo in rilievo come, per comprendere i processi di mobilità, non sia sufficiente tener conto solo dei comportamenti individuali e delle caratteristiche strutturali della società, ma occorra anche guardare all'azione collettiva. Gruppi sociali accomunati da similarità negli interessi da tutelare, da omogeneità nelle posizioni di mercato, da affinità culturali e di stili di vita, possono mettere in atto azioni comuni per la difesa delle posizioni di privilegio e di vantaggio sociale già acquisite o per la conquista di posizioni più favorevoli nella partecipazione alla distribuzione delle risorse collettive. Questa è, appunto, la tesi di Parkin (v., 1979) il quale, riprendendo il concetto weberiano di 'chiusura sociale', sostiene che nelle società contemporanee le classi sovraordinate mettono in atto pratiche di 'esclusione' per evitare l'accesso di altre classi al sistema di privilegi di cui esse godono. Per converso, le classi svantaggiate attuano tentativi di 'usurpazione' per acquisire posizioni di maggior vantaggio sociale, a scapito di altri gruppi o classi. Parkin sottolinea come proprio l'istruzione e, in particolare, il mercato delle credenziali educative, sia una delle più importanti aree nelle quali si manifesta questa forma di conflitto.
Le difficoltà teoriche e tecniche connesse all'approccio tradizionale che distingueva tra mobilità pura e strutturale si aggiunsero ai nuovi problemi che gli stessi studi sulla mobilità avevano sollevato. Il forte peso dell'ereditarietà sociale e dei condizionamenti di partenza, il comporsi dei movimenti dei singoli in 'effetti di sistema', le modificazioni nella distribuzione dei vantaggi e dei privilegi prodotte dall'agire collettivo dei gruppi sociali, l'impossibilità di spiegare il mutamento sociale solo attraverso il progresso tecnologico richiesero una ridefinizione del concetto di mobilità e il ricorso a nuovi metodi di analisi. Il contributo più rilevante alla svolta che gli studi sulla mobilità hanno avuto nel corso degli anni ottanta si deve a John Goldthorpe (v., 1987²).
Il primo elemento di innovazione introdotto da Goldthorpe fu l'abbandono dell'idea che la mobilità potesse essere divisa in due componenti additive (strutturale e pura), in favore della distinzione tra mobilità assoluta e relativa. Si tratta di due prospettive o due angolazioni diverse dalle quali guardare lo stesso fenomeno. Attraverso la mobilità assoluta si considera la possibilità che ha un individuo, proveniente da una certa posizione sociale, di arrivare a una destinazione piuttosto che a un'altra; si tratta dunque di un'analisi dei flussi in uscita dalle differenti posizioni o classi sociali. Attraverso la mobilità relativa si esaminano, invece, le opportunità differenziali che le diverse classi hanno di muoversi per arrivare a una certa destinazione; si tratta dunque di un'analisi incentrata sui rapporti tra i diversi flussi di mobilità, tanto che in questo caso si parla anche di fluidità. Le questioni alle quali si vuole rispondere sono, dunque, diverse nei due casi. Con l'analisi della mobilità assoluta si vuole stabilire quale probabilità abbia un individuo di muoversi da un'origine X a una destinazione Y; con l'analisi della mobilità relativa, invece, si vuole conoscere qual è il rapporto tra le opportunità di mobilità di un individuo o di una classe e le opportunità di mobilità di un altro individuo o di un'altra classe. Mentre i flussi dipendono dalle dimensioni delle posizioni di arrivo e di partenza, la fluidità è indipendente da tali dimensioni ed esprime i differenziali nelle opportunità di ascesa o discesa sociale.
Questa distinzione, introdotta da Goldthorpe e ormai comunemente accettata in tutte le ricerche sulla mobilità, si accompagna a un cambiamento nelle tecniche di analisi e a una diversa impostazione teorica. Sul piano metodologico, l'analisi della mobilità relativa è resa possibile anche grazie all'uso delle tecniche loglineari, che consentono di gestire contemporaneamente, in unico modello, un numero consistente di variabili, in modo da poter sottoporre agevolmente a verifica sistemi anche complessi di ipotesi. Sul piano teorico, Goldthorpe abbandona la rappresentazione della società in strati a favore di una struttura in classi, differenziate tra loro in base alle diverse situazioni di mercato e alle diverse condizioni di esercizio dell'occupazione. Le modificazioni della struttura sociale, infatti, non sono solo determinate dallo sviluppo tecnologico e dalla conseguente modificazione nelle forme della divisione del lavoro, ma sono anche influenzate dai comportamenti dei singoli attori, individui o famiglie, nonché dall'agire delle classi, intese come attori collettivi che, utilizzando posizioni di mercato e insiemi di risorse, si adoperano per mutare o lasciare inalterato il sistema di redistribuzione delle ricompense materiali e simboliche.
L'analisi condotta da Goldthorpe sui dati di una vasta ricerca relativa alla Gran Bretagna lo porta a rilevare che sebbene i flussi ascendenti siano in aumento, la mobilità relativa mostra una forte tendenza alla stabilità. Sebbene la numerosità delle classi superiori sia raddoppiata e quella della classe operaia si sia ridotta, i movimenti degli individui tra le varie classi sono comunque di breve raggio. Questi risultati portano Goldthorpe a elaborare la tesi della fluidità sociale costante (v. Erikson e Goldthorpe, The constant..., 1992), secondo la quale la società britannica è caratterizzata da mutamenti strutturali anche di rilievo, ma non mostra miglioramenti per quanto riguarda le opportunità differenziali di ascesa per le diverse classi sociali. L'espansione delle classi superiori è stata garantita, per quanto possibile, dall'autoreclutamento e, per il resto, da azioni di cooptazione di coloro che si mostravano socializzati ai valori e alle norme delle classi privilegiate. La riduzione quantitativa della classe operaia ha, invece, prodotto un consolidamento quanto a sistemi di valori, stili di vita e solidarietà. La conclusione alla quale perviene Goldthorpe è che i processi di mobilità producono stabilità e integrazione. Da questo punto di vista la politica delle riforme non serve a rendere più egualitaria la società, ma è solo il conflitto tra gruppi portatori di interessi diversi che può modificare in modo significativo il sistema delle disuguaglianze.
Nel nostro paese le ricerche sulla mobilità sociale sono state assai scarse. Dopo gli studi pionieristici di Chessa (v., 1911), che si muovevano nell'ambito della 'demografia sociale', e qualche altra indagine condotta su campioni limitati numericamente e territorialmente, la prima ricerca che ha consentito anche significative comparazioni internazionali è stata quella condotta da Lopreato e Hazelrigg (v., 1972) su un campione di 1.300 maschi adulti. Il sociologo statunitense osservò l'esistenza in Italia di un sistema di classe duale, con una parte superiore unica e una bipartizione ai livelli inferiori: da un lato contadini e braccianti, e dall'altro proletariato e sottoproletariato. La parte superiore della struttura di classe era occupata da quella che Lopreato chiamò 'classe dominante', costituita da leaders politici, grandi imprenditori e grandi proprietari, alti dirigenti e professionisti. Questa élite, pari a circa il 3% della popolazione, mostrava un certo tasso di circolazione, ma limitata alla classe immediatamente inferiore, la 'borghesia', composta da imprenditori e proprietari medi, da dirigenti e funzionari e pari a circa il 14% del totale. Complessivamente il tasso di stabilità intergenerazionale era del 51%, ma nettamente differenziato tra parte alta della struttura sociale italiana (che mostrava un tasso di stabilità del 40%) e parte bassa (con un tasso del 63%). Anche se la mobilità verticale, ascendente e discendente, era piuttosto cospicua (pari al 49%), si trattava comunque di percorsi a breve raggio.
Nel 1986 un gruppo di ricercatori di varie università italiane condusse la prima ricerca nazionale su un campione consistente (oltre 5.000 soggetti) e rappresentativo della popolazione maschile e femminile tra i 18 e i 65 anni di età (v. Cobalti e Schizzerotto, 1994). L'introduzione delle donne nel campione ha rappresentato una innovazione nei tradizionali studi sulla mobilità, che rilevavano la posizione sociale a partire dall'occupazione del maschio capofamiglia. Ciò ha consentito di considerare come unità di analisi non i singoli individui ma le famiglie, aggregate, poi, in classi definite in base non solo alla occupazione ma anche all'insieme di risorse, materiali e simboliche, di cui il nucleo familiare stesso può disporre. La scelta di fare riferimento alla famiglia, collocata in una struttura di classe, è giustificata dal convincimento che "la strutturazione della società in classi non influisce solo su coloro che svolgono un'occupazione e che, attraverso questa, seguono percorsi di promozione o demozione sociale. Chi non esercita un mestiere occupa pur sempre un posto nello spazio sociale e tale collocazione gli deriva anche da quei membri della sua famiglia che sono, invece, presenti in modo attivo sul mercato del lavoro. Del resto nessuno, nel compiere le proprie scelte lavorative (o non lavorative), agisce come elemento isolato e avulso dal suo contesto familiare. Quest'ultimo, al contrario, è fattore determinante nelle strategie del singolo e, dunque, nel parlare delle classi sociali si farà riferimento alle famiglie (anche se composte di un solo membro) come elementi costitutivi delle stesse" (v. De Lillo, 1988, pp. 26-27).
L'analisi della mobilità assoluta ha mostrato che l'Italia si caratterizza per un consistente flusso intergenerazionale: il 60% del campione appartiene a una classe diversa da quella della famiglia di origine e circa il 44% degli intervistati ha sperimentato forme di mobilità ascendente. Piuttosto scarsa, invece, è la mobilità intragenerazionale o di carriera, che ha interessato solo il 30% della popolazione. Per quasi i 3/4 degli italiani, dunque, la classe nella quale si entra all'inizio della carriera rimane la stessa per tutta la durata della vita lavorativa. Anche se, complessivamente, la società italiana ha visto notevoli spostamenti da una classe all'altra, tali spostamenti son dovuti più alle trasformazioni economiche e produttive che a una effettiva fluidità del sistema sociale. L'analisi della mobilità relativa, infatti, mostra il permanere di profonde disuguaglianze tra i cittadini, dipendenti dalle loro origini sociali. I figli di imprenditori, dirigenti e liberi professionisti sono decisamente avvantaggiati rispetto a coloro che provengono da altre origini sociali nella corsa alla conquista delle posizioni più elevate. L'analisi per coorti di nascita dimostra, inoltre, che l'intensità con la quale la classe familiare di origine influisce sul destino individuale è rimasta pressoché la stessa nell'arco di un quarantennio. Anche per quanto riguarda gli effetti dell'istruzione sulla mobilità sociale, il nostro paese mostra scarsa fluidità. Se è vero che negli ultimi cinquant'anni si è innalzato notevolmente il livello complessivo di scolarizzazione della popolazione italiana, è altrettanto vero che tale innalzamento ha investito in modo diseguale gli appartenenti alle diverse classi sociali. L'incidenza di laureati e diplomati, ad esempio, è tanto maggiore quanto più è elevata l'origine sociale degli individui. L'espansione della scolarità ha, invece, avuto qualche effetto nel ridurre le disparità tra i sessi e le differenze tra le aree del paese (v. Cobalti e Schizzerotto, 1994, pp. 157 ss.).
Dal confronto con i risultati delle ricerche sulla mobilità condotte in altri paesi emergono alcune caratteristiche specifiche della situazione italiana, che si distingue per una maggiore presenza della piccola borghesia urbana (artigiani, commercianti, lavoratori in proprio nel settore dei servizi) e per una percentuale più elevata, specie al Sud, di membri della classe operaia agricola. I flussi di mobilità assoluta sono leggermente più alti della media europea (68% contro il 65%), ma la mobilità relativa mostra ancora il persistere, in misura superiore che altrove, di meccanismi di chiusura sociale che fanno sì che l'Italia sia "la nazione europea in cui il principio delle pari opportunità trova minore applicazione" (ibid., p. 226).
(V. anche Classi e stratificazione sociale; Classi medie; Élites, teoria delle; Mutamento socioculturale; Prestigio).
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