MOCHI
– Famiglia di scultori attiva nei primi decenni del Seicento alla corte granducale di Firenze, documentati, oltre che per il restauro di statue antiche facenti parte delle collezioni medicee, soprattutto come modellatori in cera per opere poi realizzate in pietre dure presso la cappella dei Principi.
Il capostipite Orazio, nato a Firenze il 4 genn. 1571 da Francesco di Giovambattista (Pizzorusso, 1986, p. 69 n. 15), è stato identificato fino agli anni Venti del Novecento con il padre del celebre scultore Francesco, il quale in realtà è di Montevarchi e figlio di Lorenzo (Dami). Scarse sono le notizie documentarie relative alla sua biografia in generale, e in particolare riguardo alla formazione. Baldinucci riferiva di un suo alunnato presso Giovan Battista Caccini, ampiamente documentato a Firenze e stipendiato dalla Guardaroba medicea già nel nono decennio del Cinquecento. La notizia sembra confermata dal fatto che le prime informazioni su Orazio si trovano a Pisa, nel cantiere per le porte della facciata occidentale del duomo, in sostituzione delle più antiche andate distrutte dall’incendio dell’ottobre del 1595. L’impresa, realizzata sotto il controllo dei Deputati della cattedrale su disegno dell’architetto granducale Raffaele Pagni, vide all’opera un cospicuo numero di scultori, per lo più attivi a Firenze e tra cui lo stesso Caccini, impegnati nell’esecuzione dei modelli per la fusione in bronzo, affidata a Domenico Portigiani. Orazio, immatricolato fin dal gennaio 1593 nell’Accademia del disegno (Pizzorusso, 1986, p. 69 n. 15), risulta pagato per aver fornito alcuni modelli in cera destinati a rilievi delle porte centrali: tra il 1598 e il 1599 per alcune figure delle cornici ornamentali in altorilievo (gli apostoli Tommaso, Giacomo, Filippo e Bartolomeo) e in bassorilievo (un Cane e lupo e una Tartaruga); nel 1601 per l’Incoronazione della Vergine, uno degli otto pannelli narrativi dei battenti.
Nel 1603, dal matrimonio con Lucrezia di Piero Triboli, nasceva il figlio Francesco. Compare di battesimo figura Riccardo di Giovanni Riccardi, esponente illustre del nobile casato fiorentino e iniziatore della raccolta di famiglia. Raccolta di antichità, in primo luogo, conservata, prima dell’acquisto del palazzo mediceo in via Larga nel 1659, nel palazzo e nel giardino di Gualfonda (o Valfonda). Qui – come emerge dall’inventario redatto all’indomani della morte (1612) di corredo al fidecommesso con il quale, nel testamento rogato l’anno precedente (V. Gelli, Documenti riccardiani: diario di un progetto di archiviazione informatica, in Studi di Memofonte, 2009, n. 3 [www.memofonte.it]), Riccardo aveva vincolato gli oggetti d’arte – uno «stanzone» risulta affittato «per scudi sei di moneta l’anno» a Orazio Mochi, che «sene serve per lavorarvi di scultura» (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Riccardi 258, Libro d’inventari di Riccardo Romolo Riccardi, 1612, cc. 1-2). Non è escluso, dunque, che le prime prove fiorentine di Orazio debbano rintracciarsi nell’ambito delle attività collezionistiche di un tale importante mecenate, magari nel restauro di statue antiche per il quale Orazio è documentato già dal 1606 presso la galleria medicea (pagamento del 14 settembre per una testa di Giove e per un torso di un Ercole: Collezionismo mediceo, I.2, p. 135 n. 496).
Fin dal 1604 è attestata la presenza di Orazio presso le botteghe granducali. Il suo nome compare già da quell’anno, e poi nel seguente, nella «listra del stribuzione del Santo Giovanni», una regalia festiva offerta alle maestranze della Galleria (ibid., p. 592); mentre in aprile è registrato un pagamento per quattro modelli in cera di vasi «per deliberare a uno vaso di gioia che a fare messere istefano milanese»: i primi tre presentavano tre diverse «inventioni» ciascuno, utili a decidere cosa raffigurare e come farlo; l’ultimo, «tondo prefeto in somita del orlo chavato interzo tre labri cho tre manichi in terzo», doveva servire per la scelta dei manici, modellati ciascuno secondo una foggia diversa (in Fock, p. 112, n. 106). Risulta fin da qui dunque ben attestato il suo ruolo di modellatore, e nel caso specifico, poi, per un’opera di Stefano Caroni, della rinomata famiglia milanese di intagliatori, che con il fratello Ambrogio si era trasferito su invito di Francesco I a Firenze già nel 1572 a lavorare nelle officine granducali, rinforzate dall’arrivo appena qualche tempo dopo del lombardo Giorgio Gaffurri con i figli: tra di loro quel «Cristofano milanese» impegnato nell’esecuzione di un Noli me tangere da farsi «di gioie» per un «tabernacolo di cristallo orientale» per il quale lo stesso Orazio, in una nota di guardaroba del 2 apr. 1615, risulta aver realizzato «13 pezzi di modellini di cera e terra» (Collezionismo mediceo ..., I.2, p. 659). Con Stefano Caroni Orazio dovette essere legato anche da un rapporto simile al discepolato se in una lettera della Guardaroba dell’11 ag. 1605, nel definire le assegnazioni ai diversi artefici dei lavori per il ciborio che si stava allestendo nella cappella dei Principi in S. Lorenzo, si fa il nome di Orazio per eseguire due nicchie e le rispettive figurine di Evangelisti, tanto i modelli quanto la realizzazione finale in pietre dure: «et invero si vede esser molto afetato ediligente emasimo et sendo apresso a m. stefano si puo seno pensare che abbi ain camminar bene» (Giusti, in La cappella dei Principi ..., p. 263).
Orazio partecipò dunque a una delle imprese più interessanti uscite dalle officine granducali. L’allestimento del ciborio era già stato avviato prima della fondazione della cappella (1604) su un modello ligneo, perduto, di Bernardo Buontalenti, poi sostituito da quello di don Giovanni de’ Medici. Con la consegna di tre modelli in cera, l’esecuzione degli Evangelisti in pietre dure era stata in un primo tempo allogata a Cristofano Gaffurri che, impegnato in altri lavori più urgenti per la medesima opera, fu sostituito dunque da Orazio. Il ciborio rimase incompiuto presso la Galleria dei lavori fino a quando nel 1779 venne smontato; la maggior parte dei frammenti fu riutilizzata per tre nuovi altari, in S. Lorenzo (1786-87), nella cappella Palatina in palazzo Pitti (già in situ nel 1785), nella villa di Poggio Imperiale (dal 1789; questo altare venne poi smontato e i pezzi finirono nei magazzini della Galleria dei lavori). Non giunsero mai a compimento neanche le statuette di Orazio, che doveva aver comunque eseguito almeno in parte i modelli (Pizzorusso, 1988) delle statuine (Firenze, Museo degli argenti; le edicole sono conservate negli armadi della cappella delle Reliquie in S. Lorenzo): una prerogativa, quella dell’esecuzione dei modelli per il ciborio, che dovette rimanere in famiglia, se il 2 ag. 1639 il figlio di Orazio, Francesco, metteva in conto «un modello di cera di uno evangelista per esempio a chi lafare di diaspro che va al ciborio» (Giusti, in La cappella dei Principi ..., p. 264). Il ruolo di Orazio per questa impresa medicea non si dovette esaurire tuttavia con tale commissione: il rivestimento di pietre dure del ciborio prevedeva anche sei pannelli di rilievo con figurine di virtù per i quali, secondo la prassi, furono certamente approntati i modelli in cera. A Orazio, già coinvolto nei lavori, sembrano potersi attribuire i modelli per i rilievi, reimpiegati nell’altare maggiore della cappella Palatina, della Carità e della Fede, quest’ultima di un gusto caccinianamente retrò, al punto da essere fedele riproduzione del chiaroscuro affrescato da Andrea del Sarto nel chiostro dello Scalzo (Pizzorusso, 1986, p. 61).
Negli stessi anni in cui si andava edificando la cappella dei Principi sotto la direzione di Matteo Nigetti, si procedeva alla ricostruzione del convento e della chiesa dei Ss. Michele e Gaetano dei chierici regolari teatini: i lavori, secondo un progetto iniziale di Buontalenti, furono affidati, di certo tra 1605 e 1611, allo stesso Nigetti che fornì disegni agli artefici anche per gli arredi architettonici. Tra questi, sicuramente per quel piccolo capolavoro che è il lavabo della sagrestia, costruita tra il 1604 e il 1611 e poi trasformata in epoca tardobarocca, per il quale un «m(aest)ro Oratio scultore», che si identifica a buona ragione con Orazio Mochi, compare nei registri della fabbrica alla data del 12 ott. 1611 (Chini, pp. 178, 277 doc. 12).
La breve stagione di Cosimo II, successo nel 1609 a Ferdinando I, fu molto intensa per la città di Firenze che vide, tra l’altro, mettere a punto un progetto di grande raffinatezza intellettuale per il giardino di Boboli, dove fu attivo anche Orazio.
Secondo una rete di corrispondenze di natura mitologica e filosofica, oltre che celebrativa della famiglia, un complesso sistema di percorsi fu pensato per creare fughe prospettiche spettacolari, una per tutte quella verso l’Isola, con la fontana del 1620, di cui ben presto si perse memoria – fu sostituita dalla fontana dell’Oceano del Giambologna (Jean Boulogne) –, che doveva sostenere una Venere al bagno con corteggio di amori, naiadi e tritoni e per la quale Orazio risulta incaricato di fornire «spunti di riflessione»: il 23 ott. 1619 gli fu dato ordine affinché gettasse in gesso «quell’Angelo che formò in Siena da uno del Naccherino» (con riferimento agli otto angeli di Domenico Beccafumi per il presbiterio del duomo senese realizzati tra il 1548 e il 1550: Capecchi, p. 69, doc. p. 132). Nei viali si alternavano gruppi scultorei allusivi ai miti eroici e ai giochi campestri e plebei. In quest’ambito si deve porre l’originario progetto di collocazione delle statue del «viottolone dei cipressi» che scende verso l’isola: per «statue in pietra serena» si registrano pagamenti tra il maggio e il giugno del 1615 a Orazio (ibid., p. 127), che fu soprattutto coinvolto nell’impresa con il Gioco del Saccomazzone. Del gruppo eseguì solo il modello in cera, poi tradotto in piccoli bronzi da Giovan Francesco Susini, mentre la realizzazione in pietra a grandezza naturale venne affidata a Romolo Ferrucci del Tadda. Baldinucci (p. 424) riferiva che alla morte di Orazio si trovò nella sua «stanza» la statua incompiuta di un Aiace destinata al giardino di Boboli. Il figlio Francesco riceveva poi nel 1625 pagamenti, forse ancora in conto del padre, per due statue in marmo ancora per Boboli: «un putto» o un «Amore» e un «Nano» (Capecchi, p. 154).
Alla committenza di Cosimo II si deve anche una delle più importanti opere uscite dalle fabbriche granducali: l’altare di S. Carlo Borromeo in oro e pietre dure per essere inviato come ex voto a Milano, dove, sebbene compiuto, non fu mai spedito, mentre rimase nel tesoro e quindi fu smembrato e in parte fuso.
Realizzato su disegno di Giulio Parigi tra il 1617 e il 1624 da Cosimo Merlini, orefice della Galleria, presentava la fronte chiusa in alto e in basso da un bordo in lapislazzuli e divisa in tre parti da quattro pilastri: nei pannelli laterali trovavano luogo le armi dei Medici, mentre il centrale, racchiuso da una elaborata cornice, aveva uno sfondo in pietre dure, da attribuirsi ai pietristi di Galleria Michele Castrucci e Gualtiero Cecchi, e la figura in rilievo di Cosimo inginocchiato, in oro, opera di Jona Falchi. A proposito del prezioso manufatto, di cui oggi si conserva solo il paliotto al Museo degli argenti, Zobi riferiva i nomi degli artisti coinvolti nell’impresa: Matteo Nigetti, cui attribuiva il progetto (esiste un suo disegno che, in quanto distante dalla realizzazione finale, dovette essere scartato e sostituito dall’idea di Parigi: Aschengreen Piacenti); Giovanni Bilivert per il disegno della figura del granduca (e ciò in accordo con il ruolo di autore dei disegni dei lavori di oreficeria e intaglio eseguiti nelle officine granducali); Orazio Mochi, che «lo modellò e ne diresse l’esecuzione». Orazio si trovò dunque a compiere ciò per cui risulta ampiamente attestato: i modelli per la figura da gettare poi in oro. Gli si possono dunque attribuire quasi con certezza i due rilievi preparatori per il pannello centrale (ripr. in Langedijk, n. 28.125 b-c, p. 586), in cartapesta colorata il primo (Firenze, Museo dell’opificio delle pietre dure), in stucco dipinto il secondo (Londra, Victoria and Albert Museum).
Nel 1615 nasceva il figlio Stefano. Compare di battesimo fu il già apprezzato pittore gravitante nell’orbita della corte granducale Cristofano di Alessandro Allori: ciò a testimonianza di uno status che a quella data doveva essere già di una certa rilevanza, confermato dalla presenza di Orazio nel 1621 all’allestimento degli apparati per le esequie di Cosimo II. Secondo il Resoconto della Compagnia dell’arcangelo Raffaello detta La Scala a Orazio si deve infatti la Fortezza, una delle quattro statue «di terra di rilievo intero finte di marmo» poste ai quattro angoli del mausoleo (in Giglioli, p. 181).
Durante questo periodo Orazio eseguì in marmo un busto di Galileo (Firenze, Palazzo Pitti), commissionato nel 1612 da Cosimo II; i modelli di Ercole e Anteo e di Ercole e l’Idra per la serie delle Fatiche di Ercole (1614), cui collaborarono anche Pietro Tacca e Andrea Ferrucci, che Cosimo II voleva destinare in dono al re di Inghilterra (Brook, p. 128); nonché il modello per una coppia di Divinità fluviali per il viale di accesso alla villa del Poggio Imperiale, modello che fu però rifiutato in favore dei fratelli Pieratti da Giulio Parigi, sotto la cui direzione tra il 1620 e il 1622 si stavano svolgendo i lavori di rinnovamento del complesso mediceo. L’episodio è riferito da Baldinucci (p. 424), il quale cita anche «l’arme, che vedesi dentro la casa del marchese Corsi», e i modelli di due ritratti medicei realizzati in porfido, uno di Cosimo I a opera di Fabrizio Farina e l’altro di Cosimo II eseguito da Giovanni da Rovezzano, al secolo Raffaello Curradi. Circa quest’ultimo, è stato convincentemente riportato all’autografia di Tommaso di Baldo Fedeli e datato 1624: il che non esclude, naturalmente, la presenza di un modello di Orazio (Langedijk, pp. 191 n. 28.81, 560-562). Circa il primo, di cui non si ha traccia, si deve forse riferire invece a Ferdinando I e ancora a Fedeli, depositario di un processo di lavorazione, quello del porfido, del tutto particolare (ibid., p. 192). A Orazio si attribuiscono, come riferisce Baldinucci (p. 423), le due statue, poste ai lati del coro della chiesa, del S. Simeone e del S. Giuda, che rivela ancora un atteggiamento di riflessione sugli esempi eccellenti dell’arte fiorentina, rendendo omaggio, nella testa, al Donatello insieme dello Zuccone e dell’Imberbe (Pizzorusso, 1986, p. 61).
Orazio morì a Firenze il 20 maggio 1625 (Baldinucci, p. 424). In ragione dei debiti accumulati con Nigetti, i figli Francesco e Stefano furono costretti a cedergli nel 1631 la casa di famiglia in via Valfonda (Berti).
Il mestiere di Orazio fu ereditato dai figli Francesco e Stefano. Francesco, nato a Firenze il 14 luglio 1603, è più documentato del fratello, e sempre al servizio della cappella dei Principi e dei personaggi influenti che gravitavano nell'ambito delle officine granducali, in particolare di Matteo Nigetti. La sua produzione è nota a partire dalle notizie offerte da Baldinucci, che lo dicono attivo in principal modo come modellatore e restauratore di statue antiche. Ciò è confermato anche dai pagamenti che registrano una sua presenza in Galleria a partire dal terzo decennio del Seicento, impegnato anzitutto nel fornire modelli in cera destinati a essere tradotti in pietre dure: dal modello per la «caccia» fornito nel luglio del 1628 (Giusti, p. 264), a quelli per il ciborio della cappella dei Principi, il già citato Evangelista (1639), e un angelo (1644: ibid.), fino ai modelli per le statuette allegoriche a coronamento dello stipo di Ferdinando II, un altro dei capolavori usciti dalle manifatture medicee, da sempre nella Tribuna degli Uffizi.
Realizzato su modello di Nigetti, è una grandiosa struttura chiusa in alto da una balaustrata dalla quale si affacciano quattro figurette in bronzo dorato. Il 6 ag. 1646 Francesco presentava un conto per la fattura di «dua modelli di cera di figure, una femmina e uno maschio ... che uno rappresenta l'Onore, l'altra la Pena» (ibid., p. 289 n. 97).
Oltre che per la Galleria, Francesco risulta attivo a fianco di Nigetti anche per alcune delle opere che questi andava progettando e seguendo con ruolo di responsabile nella città di Firenze: la chiesa di S. Gaetano e la cappella Colloredo alla Nunziata.
Fino al 1630 Nigetti diresse la costruzione della chiesa di S. Gaetano, e per l'ornato del coro si avvalse tra il 1628 e il 1629 dell'opera di Francesco e di Sebastiano di Filippo Pettirossi: a loro fu affidata l'esecuzione dei più significativi partiti decorativi, e Francesco risulta pagato per i «riquadramenti dove sono e cherubini», dunque per due festoni e due cherubini (Chini, p. 284). Francesco sembra partecipare anche ai lavori per la cappella che in quegli stessi anni Neri di Piero Ardinghelli stava facendo erigere nella stessa chiesa. Al 1642 si datano invece i disegni preparatori e i modelli in legno per la cappella alla Nunziata del marchese Fabrizio Colloredo, gran conestabile dell'Ordine dei cavalieri di S. Stefano e maestro di camera di Ferdinando I e Cosimo II, nonché maggiordomo e consigliere di Stato di Ferdinando II. La costruzione venne avviata l'anno successivo e si protrasse fino al 1649. Nigetti, come di consueto, si occupò di fornire disegni per ogni particolare costruttivo e decorativo, per la cui realizzazione si avvalse della schiera di collaboratori, composta per lo più dagli anziani ed esperti artigiani scelti tra le maestranze attive in Galleria. Francesco era uno di questi, anzi è documentato come «maestro principale» (Un episodio del Seicento fiorentino ..., p. 47 n. 14), e a lui sembra legata l'esecuzione di gran parte delle opere lapidee: il suo nome compare fin dal primo contratto (22 luglio 1643), per la parete di fondo; in quello per le pareti laterali (1° nov. 1644) risulta «facitore» degli stemmi a intaglio sopra i depositi (ibid., p. 49 n. 18); e nel giugno del 1647 è documentata una lunga nota di lavori ancora da compiere per la cappella (ibid., p. 49 n. 19), che Francesco si impegnava a consegnare in gennaio. Nel maggio del 1649, morto Francesco, sarebbe spettato al fratello Stefano sottoscrivere un accomodamento per la serie di opere fatte per la cappella e ancora da pagarsi. Per la medesima chiesa e nello stesso periodo, tra il 1645 e il 1646, Francesco scolpì i monumenti di Alessandro e Vitale de' Medici, posti ai lati della porta della sagrestia, realizzata ancora su disegno di Nigetti nel 1635.
ti un pagamento per l'acquisto di marmi nel 1635.
Francesco morì a Firenze il 14 marzo 1648 (Baldinucci, p. 425).
Di Stefano, nato a Firenze il 18 maggio 1615, si sa ben poco. Anche le notizie fornite da Baldinucci, che riferisce di un suo alunnato presso Nigetti (p. 425), sono scarne. A parte quanto già citato, risulta documentato anch'egli tra le maestranze di Galleria, in particolare come disegnatore e modellatore per realizzazioni in pietre dure e bronzo: nel Giornaletto di Galleria degli anni 1646-66, al 13 giugno 1646 si registra una nota relativa a un «cavallino nudo di bronzo» che venne fornito a Stefano «per disegniare» (Collezionismo mediceo ..., II.2, p. 729), mentre un inventario del 1664 lo registra tra gli orefici (ibid., II.1, p. 130). Se ne ignora la data di morte.
Fonti e Bibl.: Firenze, Archivio dell’Opera di S. Maria del Fiore, Registri battesimali, Battezzati, Maschi, reg. 14 (1° sett. 1561 - 30 apr. 1571), c. 86v (Orazio); reg. 24 (1° sett. 1602 - 31 ag. 1604), c. 24r (Francesco); reg. 30 (1° sett. 1614 - 31 ag. 1616), c. 56r (Stefano); F. Bocchi - G. Cinelli, Le bellezze della città di Firenze, Firenze 1677, p. 456; F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno … (1681-1728), a cura di F. Ranalli, IV, Firenze 1846, pp. 423-425; A. Zobi, Notizie storiche sull’origine e progresso dei lavori di commesso in pietre dure dell’I. e R. Stabilimento di Firenze, Firenze 1853, pp. 266-268; I.B. Supino, Le porte del duomo di Pisa, in L’arte, II (1899), pp. 373 s.; L. Dami, Francesco Mochi, in Dedalo, V (1924), 2, p. 131; O.H. Giglioli, Giovanni da San Giovanni, Firenze 1949, pp. 181, 184; L. Berti, Matteo Nigetti (I), in Rivista d’arte, XXVI (1950), p. 158 n. 3; K. Aschengreen Piacenti, Two jewellers of the grand ducal court of Florence around 1618, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XII (1965), pp. 107-124; C.W. Fock, Der Goldschmied Jaques Bylivelt aus Delft und sein Wirken in der Mediceischen Hofwerkstatt in Florenz, in Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, LXX (1974), p. 112; La cappella dei Principi e le pietre dure a Firenze, a cura di U. Baldini - A.M. Giusti - A. Pampaloni Martelli, Milano 1979, ad ind.; K. Langedijk, The portraits of the Medici, I, Firenze 1981, pp. 585 s.; Un episodio del Seicento fiorentino. L'architetto Matteo Nigetti e la cappella Colloreda: documenti e disegni (catal.), Firenze 1981; E. Chini, La chiesa e il convento dei Ss. Michele e Gaetano a Firenze, Firenze 1984, ad ind.; A. Brook, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III (catal.), Firenze 1986, I, Pittura, pp. 433 s.; III, Biografie, pp. 128 s.; C. Pizzorusso, ibid., I, Pittura, pp. 61, 69 n. 15; Id., in Splendori di pietre dure (catal.), a cura di A.M. Giusti, Firenze 1988, p. 134; Collezionismo mediceo e storia artistica, a cura di P. Barocchi - G. Gaeta Bertelà, I, Da Cosimo I a Cosimo II, 1540-1621, 2, Firenze 2002, ad ind.; II, Il cardinale Carlo, Maria Maddalena, don Lorenzo, Ferdinando II, Vittoria della Rovere, 1621-1666, ibid. 2005, ad ind.; G. Capecchi, Cosimo II e le arti di Boboli. Committenza, iconografia e scultura, Firenze 2008, ad ind.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, p. 602.