MODA
(XXIII, p. 503)
Costume, moda, avanguardie. − Dal secondo dopoguerra e più ancora dagli anni Settanta il fenomeno m. ha assunto un rilievo e un peso diversi nel contesto della cultura europea. Il problema non è legato soltanto, come potrebbe sembrare, al fortissimo impatto delle esportazioni sulla bilancia dei pagamenti di alcuni paesi industrializzati (Francia, Italia, Germania, USA), e ai rapporti, anche di dipendenza e di colonizzazione, che questi paesi finiscono per stabilire, proprio a livello di cultura della m., con le altre nazioni in quanto o esecutrici di progetti, o esportatrici dei materiali finiti, oppure consumatrici del ''prodotto moda''. Il problema appare assai più complesso in quanto è venuta emergendo una nuova visione del fenomeno moda. Per capire, converrà tenere presente l'ambiguità stessa del termine m., il cui variabile significato nasce dalle prospettive critiche attraverso cui conveniamo definirlo. Il termine ha via via assunto significati tanto diversi da generare fraintendimenti e giudizi volta a volta totalmente negativi, oppure attenti e articolatamente motivati, su un sistema complesso come quello della moda. Una riconsiderazione del problema si rende necessaria, perché le nuove prospettive della critica hanno ridisegnato l'ambito della m. assegnandole una funzione non marginale nell'insieme della moderna comunicazione. Sarà quindi opportuno ripercorrere il dibattito sulla moda.
Nelle più note enciclopedie della storia del costume (e dunque della m.) delle età passate, si riscontra una convenzione terminologica e narrativa assolutamente indiscussa, ma non per questo meno discutibile, secondo cui costume sarebbe storia del passato modo di vestire, moda invece sarebbe analisi del presente, dell'oggi, del contemporaneo: costume è storia, m. è cronaca, per riprendere la distinzione crociana che implicitamente presiede a questa partizione. Un primo importante punto è se sia possibile scindere m. e costume dal momento che ogni analista del fenomeno m. si confronta continuamente proprio con la m. come fatto storico, e cioè con i rapporti fra i fenomeni della m. di oggi e quelli della m. del passato. Si potrebbe eccepire che l'analisi della storia del costume viene condotta su materiali diversi da quelli della m. di oggi perché la ricerca sui costumi si fa, nella grandissima parte dei casi, su immagini come dipinti e incisioni e quasi mai su originali, che ovviamente sono andati quasi tutti distrutti. Mediante il confronto e l'incrocio di testi grafici e di testi letterari si è costruita così una vicenda del costume che è ormai largamente stabilizzata e che tende anzitutto a fornirci notizie sui modelli del vestire, e solo indirettamente sui comportamenti del passato. La critica delle fonti, in queste storie del costume, appare assai poco sviluppata, quantomeno confrontandola coi progressi del moderno metodo storico, tanto che può accadere che si assumano le immagini dipinte, oppure incise, come testimonianze veritiere e inconfutabili degli antichi modi di vestire e non come sistemi simbolici da correlare storicamente alle ragioni che hanno indotto il pittore o l'incisore a mettere in scena proprio quel gruppo di persone, in quel contesto, con quegli specifici abiti. Comunque sia, il problema storico della m., una volta riconsiderato come sistema di ''trascrizioni'', di ''scritture'' delle modalità di vestire, potrà utilmente essere collegato alla moderna cultura della m. senza stacchi netti e senza fratture, operazione che solo adesso appare possibile compiere, alla luce di una differente impostazione della critica.
Il conflitto più grave per chiunque intenda porsi dalla parte della storia della m. sta proprio nella netta contrapposizione fra la struttura stessa del fare storia di coloro che attendono alle vicende del costume nelle passate età − che comunque attiene alla storia dell'arte o, quantomeno, all'iconografia della tradizionale storia dell'arte − e le procedure narrative di coloro che, oggi, fanno analisi della m. sia nelle riviste specializzate e settoriali, sia nei volumi pubblicati in occasione di rassegne monografiche o di esposizioni museali. Esiste infatti un contrasto nettissimo fra le trattazioni sulla vicenda del costume e le moderne analisi della m. che in genere appaiono fondate su convenzioni narrative direttamente assunte dalla tradizione della fiaba, oppure su narrazioni pubblicitarie di una non sempre raffinata e spesso ripetitiva costruzione (Bianchino, Quintavalle 1989). In tal senso i lettori delle riviste prevalentemente rivolte a un pubblico femminile (le sole comunque che forniscano informazioni sui fatti della m., e che servano per proporre i nuovi modelli) si trovano costantemente di fronte a pochi schemi fabulistici, elaborati già negli anni Trenta su Vogue e poi su Vanity Fair negli USA, e che furono fatti rapidamente propri dalla pubblicistica europea. Di qui l'immagine del singolo stilista come self made man, come un romantico ispirato artefice, che rimodella e propone la m., e con essa la forma e i gesti delle figure femminili, così come avevano fatto Coco Chanel (1883-1971) fra il primo e il secondo decennio del Novecento, o C. Dior (1905-1957) nell'immediato secondo dopoguerra. Il peso prevalente che su questo genere di costruzione narrativa hanno avuto i pubblicitari rispetto a ogni possibile accertamento della realtà storica, ha finito per rendere estremamente difficile l'analisi delle vicende, diseducando almeno due generazioni di possibili studiosi del fenomeno m. e lasciando loro semplicemente delle formule, delle definizioni astratte al posto di un qualsiasi metodo di analisi.
In realtà, per comprendere il fenomeno della m. va messo in gioco anche un altro quasi automatico versante di studi e di ricerche: quello dell'indagine antropologica sulle culture cosiddette primitive. Culture primitive che, riscoperte per proprio conto dalle avanguardie artistiche già nel primo Novecento, sono state riconsiderate e analizzate anche dal punto di vista del costume grazie soprattutto alla divulgazione dei risultati delle esplorazioni geografiche, ai libri illustrati editi in genere in Inghilterra e in Francia, nonché attraverso l'apertura del Musée de l'Homme al Palais du Trocadéro a Parigi e di apposite sezioni etnografiche nei musei di Londra e di Berlino. In questo caso l'indagine appare tuttavia condotta con una diversa metodologia rispetto alla tradizionale storia del costume dall'antichità all'età moderna: metodologia in cui l'idea dominante è quella di ''primitivo'', nell'accezione di ''semplificato'' e ''originario'', e in cui le modalità del vestire sono sempre ricondotte a funzioni direttamente legate alla struttura e alle necessità dell'ambiente mentre, in genere, nella storia del costume l'interpretazione dell'abito è collegata prevalentemente a funzioni diverse e simboliche.
La cesura storica, la netta conflittualità fra passato e presente, fra mondo del ''primitivo'' e vicenda storica del costume, si pone a partire dal momento in cui alcune avanguardie artistiche (dagli espressionisti ai cubisti, dal Blaue Reiter ai costruttivisti) recuperano il primitivo escludendo invece come privo d'interesse l'intero periodo intermedio, dalla tradizione antica a quella dell'età moderna.
La parte avuta dalle avanguardie artistiche nella pubblicità della m. viene assunta, di norma, come fatto del tutto marginale. Eppure, a guardar bene, il modo in cui la cultura dell'Art Nouveau e dello Jugendstjil o del Liberty, come poi dell'espressionismo tedesco, recuperano la tradizione della civiltà romanica e soprattutto gotica, e dunque i loro costumi, in quanto espressione di un mondo inteso come originario, apre per la prima volta una prospettiva di ricerca del passato che fino allora non era mai stata consapevolmente posta. Il ritrovare nelle origini medievali le radici nazionali delle diverse culture è uno dei più evidenti filoni della cultura internazionale dell'Art Nouveau: continuità dunque con un passato che la grande civiltà del Rinascimento occidentale aveva separato, rimosso. Porre in evidenza collegamenti fra questa prospettiva culturale propria delle avanguardie, e gli esiti della Scuola viennese di storia dell'arte (si pensi soprattutto ad A. Riegl e J. von Schlosser) è questione suscettibile di esiti fruttuosi. Certo è che la civiltà della m. che si viene elaborando a Vienna nell'ambito della cultura Jugend e che vede un programmato ritorno a una globale integrazione di modelli, dall'architettura al design degli abiti, pone notevoli problemi alla moderna ricerca storica.
Oltre le attenzioni neogotiche del Die Brücke, altre avanguardie, come quelle cubiste, recuperano il ''primitivo'', e questa volta non identificato con il mondo medievale soltanto, come pure è evidente in Picasso, ma allargato alla cultura delle maschere negre che del resto erano collezionate prima che da Picasso anche da Matisse. Questo recupero del ''primitivo'' e dei modelli del costume come evocazione di un tempo originario (che trova riscontro anche nel teatro e persino nei costumi di Parade, il balletto andato in scena a Parigi nel 1917 allo Châtelet, ma pensato a lungo da Picasso in Italia), propone una continuità storica fino allora ignota alla storia della m. occidentale e che inciderà fortemente anche nelle vicende della progettazione dei vari ateliers, soprattutto parigini, da P. Poiret (1879-1944) in avanti. D'altro canto dal secondo decennio del Novecento in avanti i futuristi, e soprattutto G. Balla (1871-1958), vengono proponendo nuovi modelli del vestire, modelli che intendono rivoluzionare proprio la struttura dell'abito tradizionale codificato. La posizione dei futuristi punta dunque contro la stabilizzazione canonica degli abiti rituali, punta contro la funzione di classe della m. vestiaria e suggerisce un insieme di abiti legati al trasferimento di diversi costumi da un'area all'altra, da una cultura all'altra. La m. futurista, che assumerà un peso rilevante nella critica recente e soprattutto in quella dagli anni Cinquanta in poi in Italia, pesa fortemente sulla progettazione di abiti e di stoffe da parte di S. Delaunay (1885-1979), già in piena art déco, negli anni Venti, e finisce per determinare un ripensamento globale, questa volta sulla scena parigina, anche attraverso un ampliarsi della produzione industriale dell'abito, della stoffa e delle loro funzioni. La riflessione sulle avanguardie e sul loro peso non fu però contemporanea agli eventi; essa si deve alla critica più recente, e il recupero del loro significato deve pertanto essere considerato come un importante anzi irrinunciabile capitolo del moderno dibattito.
La riflessione successiva alla seconda guerra mondiale, e soprattutto quella degli anni Settanta e Ottanta, hanno potuto mettere a frutto un'area culturale per lunghi decenni esclusa per mancanza di accesso diretto alle fonti, e cioé quella della Russia, del movimento costruttivista e della sua progettazione rivoluzionaria. L'abito, per E. Tatlin, per N. Gončarova, per E. Mejerchol'd e V. Majakovskij è strumento del confronto rivoluzionario. Alla fine degli anni Dieci e soprattutto nel corso dei primi anni Venti, le avanguardie sovietiche e il movimento costruttivista ripensano la funzione sociale dell'abito e suggeriscono modelli non rituali, anzi profondamente eversivi. Le fonti di questa rivoluzione sono da individuare nella cultura cubista, nel recupero delle arti primitive e delle tradizioni popolari, nel movimento futurista vivacemente discusso proprio a Mosca anche grazie alla presenza di F.T. Marinetti. Tutte queste matrici vengono comunque integrate e trasformate nell'ottica rivoluzionaria del confronto fra le classi, in cui il rifiuto dell'abito borghese e della m. tradizionale vengono identificati con nuovi comportamenti, con nuove funzioni ed esperienze. La critica che muove da questi modelli ovviamente respinge la ''cultura del costume'' e, dunque, la m. intesa in senso storico, accettando soltanto la creazione di abiti eversivi, simbolicamente rivoluzionari. Un'ulteriore ripresa di quei modelli, che vedevano l'assunzione della tuta operaia come segno di trasformazione, si è avuta nella Cina maoista in cui il modello di abito identico per tutti (che solo adesso appare venir perdendo l'originario significato) doveva assumere valore eversivo.
Sono dunque le avanguardie che compiono, proprio nel sistema della critica della m., un'importante operazione. In primo luogo esse contribuiscono a rendere evidente lo stacco fra due periodi, quello antecedente e quello successivo ai movimenti rivoluzionari, contribuendo con ciò a determinare quella frattura fra modelli − storia del costume e storia della m., storia del passato e storia dell'oggi − con cui ancora ci veniamo confrontando e dalla quale siamo partiti. In secondo luogo, il versante più ideologizzato delle avanguardie sta alla base della riflessione sulla m. in termini di conflitto sociale: è infatti dal secondo e terzo decennio del Novecento che a una m. elitaria e ''alta'', a una m. dai caratteri fortemente simbolici in senso borghese, finirà per contrapporsi l'idea di un modo di vestire del tutto diverso, un modo che di per sé significhi trasformazione, cambiamento, rapporti sociali differenti. La lettura sociologica dei fenomeni della m. prende le mosse da riflessioni sul problema così come fu impostato dalle avanguardie sovietiche, e in parte anche dalle avanguardie rivoluzionarie nel contesto berlinese al tempo di R. Luxembourg e K. Liebknecht: tale interpretazione permane come un'alternativa possibile, come un contraltare sempre rimosso nella critica ufficiale della m. in Occidente. Tale versante è stato riscoperto nel secondo dopoguerra, e soprattutto in questi ultimi due decenni, dalla critica storica.
L'indagine sulle avanguardie sarebbe tuttavia assolutamente incompleta se non si mettesse in gioco un'altra area di riflessione ed elaborazione dei modelli: quella del Bauhaus che, dal 1919 a Weimar e quindi a Dessau, dunque soprattutto negli anni Venti, propone una nuova progettazione anche dell'abito, programmaticamente legata a una differente ideologia. La riforma proposta da W. Gropius (1883-1969) è volta a una progettazione globale, nella quale il progetto dell'abito, come in fondo accadeva alla scuola vienense di K. Moser (1868-1918) e di J. Hoffmann (1870-1956), rientra nell'analisi della casa e delle sue funzioni. Il modo di leggere il rapporto forma-funzione per la realizzazione dei mobili, e in genere degli arredi, viene esteso anche all'abito, il che appare evidente soprattutto nelle messe in scena e in particolare nei costumi di O. Schlemmer (1888-1943). Il manichino, la figura meccanica non è altro che una nuova versione di quell'immagine dell'uomo-macchina che altri, come F. Léger (1881-1955) e, prima, F. Picabia (1879-1953) a Parigi, avevano saputo elaborare. Il riflesso di queste progettazioni sull'abito appare importante perché propone una partecipazione degli artisti, e dunque di una élite, al generale ripensamento delle funzioni della m. e del suo racconto; tuttavia la difficoltà di collegare tra loro produzione industriale e progetto per pochi finirà per mettere ai margini della reale progettazione degli abiti le idee del Bauhaus. Idee che, ancora una volta, verranno riprese e criticamente riscoperte nel secondo dopoguerra, soprattutto nelle proposte del prêt-à-porter milanese degli anni Settanta, ma che saranno comprese e analizzate a fondo solo dalla critica degli ultimi anni.
La grande frattura fra storia del costume e storia della m. e, ancora, fra analisi delle civiltà primitive e mondo contemporaneo, non ha dunque molta ragione di esistere; e proprio alle avanguardie si deve un'imponente azione di recupero di modelli, di analisi del passato, di riflessione sul presente e di progettazione di un diverso futuro. Il recupero critico di queste avanguardie, l'indagine sulle correlazioni fra i diversi poli e, soprattutto, la serie delle mostre sui vari movimenti e delle ricerche ad esse seguite (su Futurismo, Cubismo, Costruttivismo, Bauhaus) hanno finito per estendersi anche ad ambiti, come quello della m., altrimenti esclusi. Per questo la moderna critica non considera più come universi distinti la storia del costume antico, medievale e moderno, la storia delle civiltà primitive, e la storia della m. contemporanea. Certo, la storia della m. quale oggi si legge sulle riviste specializzate, o attraverso le disparate forme della comunicazione proposte dagli stilisti, appare del tutto estranea a questa tradizione critica, ma vi sono segni di una rapida trasformazione.
Sociologia, semiotica, antropologia della moda vestiaria. − La considerazione critica della m. contemporanea, emersa soprattutto dai tardi anni Sessanta in avanti, tiene conto di tre distinti indirizzi critici che peraltro si confrontano sempre con la letteratura di m. proposta dalle riviste e dalla pubblicistica che si producono dall'interno degli ateliers.
La prima prospettiva critica è quella che considera i fenomeni della m. in un'ottica sociologica e non legge quindi la m. semplicemente nella sua struttura elitaria, ma come fenomeno complesso a due diversi livelli: da una parte la m. vestiaria ''alta'', in quanto produzione di atelier; dall'altra la produzione media, di massa, dei grandi magazzini e delle industrie, che è pure un capitolo determinante di questa vicenda e, in tempi recentissimi, il più complesso e stimolante. All'interno di questa prospettiva critica, al rifiuto della società del consumo teorizzato dalla Scuola di Francoforte, soprattutto da parte di M. Horkheimer e Th.W. Adorno, si contrappone una posizione diversa di H. Marcuse che accetta la produzione massificata, anche se posta in secondo piano rispetto alla ricerca di élite. È per questo che nei pochi cenni sulla m. che si ritrovano nei volumi della ''scuola'' il problema sembra posto nei termini di una ricerca elitaria, dimenticando il nesso esistente fra progetto e riforma dei rapporti sociali. Di contro a questo sistema comunque in continua trasformazione, e di cui Marcuse coglie l'usura, si pone la struttura fissa delle immagini delle cosiddette ''istituzioni totali'': le divise cioè dei militari, dei religiosi, dei medici, degli infermieri, dei portalettere, dei magistrati, di coloro cioè che per funzioni, rito o altro, indossano abiti non mutabili e fortemente caratterizzati in quanto simbolici delle rispettive funzioni. Il rapporto fra questi diversi sistemi − quello in rapido mutamento della m. alta, quello altrettanto mutevole della m. di massa sviluppatasi soprattutto nel secondo dopoguerra in Europa, e quello stabile delle istituzioni totali − deve dunque essere compiutamente analizzato.
Una seconda importante prospettiva critica è quella psicoanalitica, che ha trovato sviluppi soprattutto, e ancora una volta, nel secondo dopoguerra. Anche se la riflessione sul valore simbolico degli abiti e delle loro funzioni può utilmente essere dedotta da vari aspetti già della saggistica di S. Freud, il recupero critico della funzione simbolica dell'abito e della ''maschera'' − dunque del trucco e del modo di vestire femminile, della barba e dei baffi e di ogni altra modifica significante della m. maschile − lo si ha soltanto con la moderna ricerca dopo Freud. Essa tende a interpretare ogni dettaglio all'interno di un sistema unitario in cui l'accentuazione o rimozione dei caratteri contrapposti, appunto il maschile e il femminile, finisce per avere grande peso nel sistema dei rapporti interpersonali nella nostra società. La lettura degli abiti in termini di comunicazione è ormai moneta corrente nella più divulgata critica delle riviste di m., ma trova origine nelle ricerche freudiane sulla m. come comunicazione simbolica.
La terza prospettiva di ricerca, che ha comunque fornito contributi determinanti al ripensamento della m., è quella semiotica. Si deve infatti ai formalisti russi, e soprattutto alla scuola di Tartu che quelle indagini ha sviluppato dall'ambito letterario al sistema dell'icona − se si è potuto affrontare il problema dei rapporti con l'antico, e dunque della m. vestiaria in questo sistema significante. Dagli anni Venti, e soprattutto in Occidente, sulla base della grande saggistica di V.B. Sklovskij, J.N. Tinjanov, V.J. Propp e poi di B. Uspenski (anni Cinquanta-Sessanta) si è sviluppato un trend critico nuovo, che legge il problema dell'abito entro un sistema sincronico, e dunque un sistema articolato in un complesso gioco di correlazioni. L'abito diventa in tal modo confrontabile a una narrazione letteraria, in cui le singole parti hanno solo parziale autonomia rispetto al contesto globale. Proprio da questi modelli esce la ricerca di R. Barthes (1967) che, pur condotta non sulle immagini delle riviste di m. ma sulle loro didascalie, porta a individuare le diverse funzioni narrative di questi testi, la loro intercambiabilità, le possibili varianti, il sistema dei significati.
Dalla fine degli anni Sessanta emergono dunque nuovi problemi critici che vengono messi a fuoco ed evidenziati in Italia dalla ricerca e dall'azione di un gruppo facente capo all'università di Parma.
Nasce di qui l'esigenza di un'indagine sulla m. che riesca a tenere insieme sistemi apparentemente divisi come quelli che analizzano le vicende del primitivo, del costume e della m. di oggi. Un altro aspetto problematico appare quello del collegamento operato dalle indagini sociologiche fra m., società di massa, realtà della produzione e della distribuzione, insomma fra le diverse imprese commerciali in Europa, negli USA, in Italia e il mito della m. costruito negli ateliers. Un terzo problema è quello degli strumenti con cui affrontare la vicenda della m. che, dopo i formalisti russi, dopo la Scuola di Praga e dopo la Scuola di Tartu, potrà anche essere indagata nei termini proposti dall'analisi semiotica, ma che comunque impone un lettura anche diacronica delle medesime problematiche. Emerge di qui la questione dei significati storici degli abiti e delle loro funzioni, della durata cioè di questi segni e del loro impatto sul sistema della langue, dunque sul sistema della m. portata.
Moda, design, artigianato e industria. − Nel dibattito critico recente è emerso un ulteriore modello interpretativo dei fenomeni della m. che non abbiamo finora considerato perché appartiene, in apparenza, alla ''struttura'' o, per meglio dire, ai rapporti economici e alla più generale questione della correlazione tra produzione artigianale e produzione industriale, tra ''fatto a mano'' e ''fatto a macchina''. Il dibattito critico sulla m. e sulla sua storia tende infatti a esaltare oppure a deprimere, a seconda delle ideologie e delle prospettive storiche, un determinato prodotto sulla base dei metodi di produzione. Questi punti sono stati posti in discussione proprio negli ultimi due decenni anche col contributo, spesso determinante, della critica italiana. Un'altra questione che occorre prendere in considerazione è che non è possibile riflettere sulla storia della m. negli ultimi decenni senza analizzare un settore che con la m. e la sua produzione è direttamente collegato, quello del design. M. e design sono stati, volta a volta e con rapidi mutamenti nell'arco delle ultime tre generazioni, o strettamente integrati oppure nettamente divisi e quindi, a seconda dei casi, sono stati letti in termini contrapposti oppure collegati. Quanto alla riflessione più recente sul problema relativo al rapporto artigianato-industria cercheremo di tenere presenti i due versanti del dibattito, quello sulla m. e quello sulla progettazione degli oggetti.
Agli inizi del 20° secolo il problema della produzione, nell'ambito della cultura Jugend soprattutto a Vienna, ma anche in un'area liberty a Londra e dell'Art Nouveau a Parigi, si pone nei termini di un'organizzazione integrata delle progettazioni di oggetti e di abiti. Ciò che le ricerche più recenti hanno messo in evidenza è proprio questa rispondenza globale dell'organizzazione d'insieme delle strutture, e dunque degli arredi e della m. indossata da coloro che entro gli spazi delle casa vivono e operano. Il progetto architettonico viene quindi portato avanti a diversi livelli, da quello globale delle strutture all'esterno a quello della gestualità e degli spazi all'interno. Il problema della moltiplicazione dei manufatti progettati, e dunque della produzione industriale, viene affrontato a Vienna nel grande centro dove operano a diverso titolo J. Hoffmann, K. Moser, G. Klimt ed E. Flöge, E.J. Wimmer-Wisgrill, non come elemento di potenziale conflitto con la creazione dell'opera singola, ma come diretto portato della volontà di modificare le strutture della società. Per questo la produzione industriale di stoffe su progettazione degli architetti del gruppo viennese, come pure la produzione moltiplicata degli oggetti, vede iniziare in area Jugend un modello che si svilupperà in area germanica fino al Bauhaus e ai suoi progetti di riforma globale della cultura.
D'altro canto, poiché la rivoluzione del progetto riscatta anche l'artigianato, la produzione industriale non appare affatto contrapposta a quella artigianale, ma si configurano come integrazione di esigenze complesse che applicano la ricerca a livelli diversi. Così M. Thonet (1796-1871) e A. Loos (1870-1933) a Vienna, E. Gallé (1846-1904) ed H. Guimard (1867-1942) a Parigi, H. Van de Velde (1863-1957) in Belgio e Ch.R. Mackintosh (1868-1928) a Londra appaiono proporre in sostanza modelli analoghi, e persino F.Ll. Wright (1869-1959) nelle sue ville del primo periodo attorno a Chicago punta su una progettazione che dalle architetture va agli arredi e giunge fino agli abiti, e dunque ai gesti e ai comportamenti degli utenti di quegli spazi.
Il rapporto fra industria e artigianato, nei vari poli della cultura Jugend in Europa, non sembra dunque porsi in termini conflittuali, in quanto è proprio la continuità tra di essi che viene esaltata, anche tenendo conto dei livelli diversi di diffusione dei singoli prodotti. Questo modo di percepire il problema giunge, in certe aree, fino al tempo del Déco, ossia fino alla metà degli anni Venti e oltre. Ma in tempi più recenti il problema innegabilmente si pone in termini di frattura quando la contrapposizione tra ''fatto a mano'' e ''fatto a macchina'', ovvero fra prodotto in piccola e in grande serie, diventa in qualche modo un discorso politico che comporta un giudizio implicito nella stessa classificazione. Forse non si è riflettuto abbastanza sul fatto che, proprio nel periodo fra le due guerre, la questione della produzione, se industriale o artigianale, viene riproposta nei diversi paesi d'Europa in termini mutati rispetto al passato, nel momento in cui il modo della produzione diventa, di per sé, giudizio sul prodotto.
È accaduto infatti che, da una parte, si è proceduto a un'identificazione tra cultura della produzione industriale degli oggetti e progresso, e ciò è avvenuto in alcuni stati che sono rapidamente evoluti in regimi totalitari (così per l'Unione Sovietica nel corso degli anni Venti e soprattutto con i primi piani quinquennali degli anni Trenta, ma anche nella Germania nazista dal 1933 in poi); dall'altra, la produzione artigianale, di fatto, è diventata produzione elitaria proprio per il diffondersi dei modelli statunitensi della produzione di massa, e principalmente nella produzione degli abiti. Infatti sono i grandi magazzini statunitensi, già negli anni Trenta, a sfornare a decine di migliaia capi di vestiario strettamente conformi a dei modelli, abiti quindi che possono essere venduti a prezzi inapplicabili ai metodi di produzione artigianale del resto dell'Occidente, soprattutto di Francia o Inghilterra. Il fatto che in Europa esista già una produzione di massa degli abiti istituzionalizzati, degli abiti immutabili in quanto rituali − tute e divise − non muta il quadro generale della situazione, che solo in seguito, nel secondo dopoguerra, verrà a essere modificato. Mentre quindi per gli Stati Uniti il progettare gli oggetti e il progettare gli abiti appartengono ambedue alla cultura della produzione di serie, per l'Europa invece − salvo le aree delle dittature comunista e nazista e, con una posizione più articolata, di quella fascista in Italia − la contrapposizione fra produzione artigianale e produzione industriale diventa sempre più significante. Per effetto di tutto ciò, quindi, le due strade, del design e della m., cominciano a divergere nettamente anche dal punto di vista della storiografia di settore: il design viene così analizzato secondo un percorso diverso rispetto al modo precedente di far storia. La produzione degli oggetti viene analizzata come fosse per antonomasia legata alla produzione di serie e sarà proprio la riflessione del Bauhaus a imporre questo modello, ripreso poi dalla Scuola di Ulma e ancora dalle scuole del design in Italia dagli anni Quaranta-Cinquanta in avanti. Per quel che concerne invece l'abbigliamento, la produzione di massa e di serie, salvo appunto le uniformi, cioè gli abiti rituali cui prima si faceva riferimento, non viene accolta in termini positivi. Si viene anzi a determinare un preciso décalage di classe per cui, al culmine, sta l'artigianato della produzione di élite, al centro la produzione di piccola serie delle sartorie borghesi, alla base la produzione popolare e di massa che trova spazio nei grandi magazzini, e la cui diffusione, stentata in Italia, trova invece sviluppo in Francia, Germania e Inghilterra già negli anni Trenta, come negli Stati Uniti.
''Fatto a mano'' o ''fatto a macchina'', artigianato oppure industria, acquistano quindi, nel periodo fra le due guerre, una valenza politica e diventano di fatto sinonimo di giudizio positivo o negativo, ma con una differenza precisa: mentre per la produzione del design, fra le due guerre, ''fatto a mano'' è sinonimo di giudizio negativo in quanto sinonimo di artigianato, per la produzione degli abiti ''fatto a mano'' è invece sinonimo di giudizio positivo in quanto vuol dire prodotto di élite. La macchina è percepita quindi come metodo di produzione tipico degli oggetti di arredo, il singolo operaio che cuce è invece il protagonista della produzione della moda. Rapidamente, anche grazie al dominio esercitato sulla riflessione europea di questi anni dall'idealismo, il fatto a mano diventa sinonimo di creatività e di invenzione, e ciò si riflette in un giudizio positivo sui creatori di m. di quell'epoca, mentre il fatto a macchina è accettato solo e soltanto per la realizzazione degli oggetti moltiplicati del design. Le due storie, del design e della m., da questo momento si dividono, anche se in URSS le due aree presentano ancora zone comuni per le ragioni ideologiche precedentemente illustrate.
Il conflitto tra ''fatto a mano'' e ''fatto a macchina'' si ripropone nettamente quando nel secondo dopoguerra la grande produzione di m. comincia a dover essere giudicata su due versanti, quello elitario riservato a pochi e quello di massa dei grandi magazzini, anche se i progettisti sono ormai divenuti gli stessi per ambedue le produzioni. Dunque, soprattutto nella Parigi degli anni Cinquanta e Sessanta, non sarà più possibile sostenere che l'invenzione, l'arte della m. sono concentrate nei pochi abiti delle grandi sfilate e che la produzione di massa è di scarso valore inventivo. Il progetto di m. si pone quindi di nuovo in relazione, agli inizi soltanto potenzialmente, con la progettazione degli oggetti di design. Questi ultimi, peraltro, nel corso dei decenni del secondo dopoguerra e avendo come grande polo inventivo e produttivo l'Italia, godono di uno status ambiguo, di oggetti appunto ''inventati'' ma poi moltiplicati, e che nel contesto della nostra cultura idealistica continuano a sollecitare la discussione sulla loro eventuale artisticità. La produzione della m. invece, negli anni Cinquanta e nei primi Settanta in Italia, appare o elitaria, e quindi artigianale, oppure di massa, con abiti di serie su cui ancora non incide affatto la progettazione degli stilisti.
La vicenda del design nei tardi anni Sessanta, e soprattutto negli anni Sessanta e Ottanta, sempre a partire dal polo progettuale italiano (E. Sottsass, in seguito A. Mendini, M. Zanini, A. Branzi e molti altri), subisce una netta svolta: si contesta la produzione di serie secondo il modello post-Bauhaus, che correla una forma a un'ipotetica funzione, e si dimostra l'assoluta non funzionalità di quelle forme e quindi la loro storicità. Se non esiste un design ''funzionale'', se ne deduce che non esiste neppure un abito funzionale. Per questo si recupera il momento della progettazione artigianale come essenziale non alla realizzazione di oggetti in piccola serie, ma in quanto momento di elaborazione, e come luogo, come laboratorio di ricerca. La rivoluzione del design ha come sua naturale conseguenza la messa in crisi della grande produzione di massa degli oggetti e, soprattutto, ne usura l'immagine con la proposta di modelli alternativi, carichi di storia e di allusioni, legati al gioco e dunque a un modo nuovo di vivere lo spazio e i gesti. In questa direzione, che recupera anche le avanguardie, soprattutto futuriste e dadaiste, la questione degli abiti e della m. viene di fatto a essere indirettamente riproposta.
La produzione di serie della m. diviene, nel corso degli anni Settanta, un fatto di portata internazionale e per almeno tre lustri permette all'industria italiana di diventare l'industria leader della produzione di m. in Europa. Questa situazione, che è venuta tuttavia mutando nei tardi anni Ottanta con la ripresa dell'industrializzazione produttiva dell'abito incentrata sulle officine progettuali e sugli ateliers parigini, finisce per ripresentare anche a proposito dell'abito il problema del ''fatto a mano'' e ''fatto a macchina''. Da circa venti anni, dunque, si è assistito a una singolare inversione di tendenza rispetto ai decenni fra le due guerre: il ''fatto a macchina'' è divenuto la caratteristica portante e anche teoricamente accettata della m., il ''fatto a mano'' è divenuto il luogo della sperimentazione anche teoricamente accettata del design. Sicché le due storie, rimaste per tanto tempo divise, tendono oggi di nuovo a coincidere.
D'altro canto, a livello di metodo, anche grazie alle ricerche più recenti (Quintavalle 1991; Bianchino 1991), si viene diffondendo la consapevolezza della globalità dei problemi progettuali, siano essi di m. oppure di oggetti. La questione non può essere dunque posta in termini di distinzioni fittizie fra oggetti da portare, gli abiti, e oggetti che formano l'arredo: nel paesaggio della casa, come del resto nello spazio urbano è infatti il sistema antropologico degli spazi quello che caratterizza la nostra esperienza. Inoltre, come è evidente, molti sono gli ''oggetti da portare'' che non sono abiti e che provengono, tutti, dalla progettazione del design. Per questa via, il problema della m. e quello del design ritrovano quella storica coincidenza di modelli interpretativi che era stata la caratteristica più evidente delle grandi officine progettuali della cultura Jugend. Per questo non esiste oggi possibilità alcuna di distinguere, sulla base della falsa alternativa tra fatto a mano e fatto a macchina, la produzione della m. e quella del design.
La moda e le sue ''scritture'': il disegno. − Un problema che lo storico della m. deve porsi a questo punto è quello dei modelli di analisi. Sarebbe quantomeno semplicistico ripetere i vecchi schemi che, della m., elencavano solo le vicende esteriori, e dunque i dati delle sfilate e delle presentazioni, oppure le notizie sui mutamenti di altezza dal suolo delle gonne, negli anni che vanno da C. Dior a J. Fath o, ancora, le indicazioni sui colori dei tessuti preferiti da G. Armani piuttosto che da Krizia (M. Mandelli) negli anni Ottanta. Converrà quindi, prima di proporre una rapida sintesi degli sviluppi storici della m., in particolare dal secondo dopoguerra, porre il problema concreto delle trasformazioni storiche dei modi di progettare, di rappresentare la m. e di riprodurla. Ma non è pensabile oggi, anche in relazione a più recenti contributi metodologici (Quintavalle 1981, 1985, 1988), considerare il disegno di m., la fotografia di m., le riviste di m., le sfilate di m., come sistemi separati, momenti divisi di una vicenda; essi invece andranno tutti di necessità interpretati come ''trascrizioni'' o, se si preferisce, come ''scritture'' della moda. Analizzando storicamente queste ''trascrizioni'' si potranno capire meglio i rapporti storici, le vicende e le trasformazioni della m. occidentale dal secondo dopoguerra a oggi.
Ogni quadro storico della m. non avrebbe senso senza una precisa conoscenza del come si sono trasformati nel tempo i modi del raccontare la m. stessa. Cambia nel tempo la progettazione, e dunque il disegno di m., fino all'attuale annullamento anche fisico, nel momento in cui è diventato tracciato elettronico sullo schermo del computer; ma cambiano anche il rituale della m. e le immagini che di esso si vengono pubblicizzando. Insomma il trasformarsi delle scritture della m. è soprattutto il segno di un mutamento profondo dei modelli culturali e, dunque, della collocazione storica del ''sistema'' della m. nella nostra società. Mutamento nettissimo negli ultimi due decenni.
La vicenda del disegno di m. è un tema tanto importante quanto poco analizzato e studiato, salvo rare eccezioni, anche perché il disegno è stato in genere considerato per decenni semplicemente un punto di partenza per un percorso che si conclude di necessità nella produzione dell'abito. Ma è il solo tema e il solo fatto su cui si deve appuntare l'attenzione della critica. Il disegno, anche per circostanze esterne (quali l'esigenza di tenere celati i modelli onde evitare riproduzioni, come accade soprattutto negli anni Trenta e poi negli anni Cinquanta e Sessanta) è stato fatto oggetto di precise attenzioni anzitutto da parte dei produttori e solo in seguito, negli anni Settanta e Ottanta, da parte della critica (Quintavalle 1981, Giordani Aragno 1982, Bianchino 1984). Questa circostanza non ha finora certamente contribuito a far comprendere il significato del disegno progettuale e le sue trasformazioni e tantomeno ha consentito al disegno degli abiti e dei loro accessori di recuperare una posizione nel contesto del progetto e, ancor meno, in senso più generale, in quello del disegno caratterizzato da dignità artistica. Per capire queste contraddizioni converrà una breve ricapitolazione storica.
In primo luogo si deve rilevare che i disegni degli abiti (o degli stessi costumi teatrali, anche se questi hanno sempre avuto una vicenda a parte e una singolare e maggiore dignità), che furono sempre al centro delle attenzioni dei regnanti e dei principi e che venivano spesso conservati nei ''guardaroba'' come memoria rituale per ulteriori riprese e trasformazioni dei modelli, hanno finito raramente per essere conservati, come del resto tutti i disegni per gli apparati per cerimonie di corte prodotti in età moderna fra Quattrocento e Settecento, né hanno riscosso la dovuta attenzione da parte della critica.
Nel periodo Jugend i modelli per gli abiti mantengono una loro tradizione e dignità nell'area sia della cultura Jugend, sia di quella dell'Art Nouveau e di quella Liberty, ma sono proprio le avanguardie, futuriste, costruttiviste, cubiste, di De Stijl e del Bauhaus, a fare tramontare il disegno come progetto accettato dell'abito. Da una parte l'abito antico, quello ottocentesco, viene rifiutato insieme al suo progetto, dall'altra anche la tradizione Jugend viene respinta in quanto slegata dalle nuove sintesi e culture ma, soprattutto, in quanto il progetto appare troppo tradizionale, il disegno troppo accademico. Così si propone o un disegno di rottura, eversivo, legato alle nuove scritture, oppure negli ateliers un progetto di tipo differente, condotto direttamente sulle figure e cioè sulle modelle. Una figura dominante in questa direzione è Poiret a Parigi, che verrà seguito da molti altri ateliers. Del resto per realizzare le complesse strutture degli abiti Jugend era necessario un progetto minuzioso e attento anche alla scrittura dei ricami, delle appliques, alla progettazione dei movimenti e delle complesse linee delle stoffe tante volte evocatrici dei modelli medievali. Nelle proposte della nuova moda parigina, di Poiret appunto, e in seguito di Coco Chanel, la rivoluzione è realizzata o disegnando in modo assai più schematico oppure operando direttamente sulle modelle. Il disegno viene riservato, anche nel periodo déco, per la progettazione di abiti di grande significato, mentre risulta meno considerato, anche se sempre utilizzato, dagli altri progettisti; questa minore considerazione del disegno, o meglio questa idea che esso sia uno strumento e non un fine, ha determinato spesso la perdita dei materiali, o quantomeno una minore attenzione per la loro − del resto rarissima − conservazione.
Naturalmente bisogna distinguere tra diversi tipi di disegno; vi è infatti una netta frattura fra il disegno per gli abiti di élite e il disegno-progetto, come per es. i ''cartamodelli'', che vengono diffusi dalle maggiori riviste di m. francesi e statunitensi fra le due guerre, secondo uno schema che poi ritroviamo anche in Italia. Il disegno, in questi casi, propone abiti da confezionare in casa ritagliando direttamente le stoffe sulla base delle forme stampate su velina o, addirittura, su carta con adesivo o con imprimitura che passa direttamente sulla stoffa. La distinzione fra alta m. e bassa m., e dunque tra rispettive funzioni del disegno, appare importante e si presta a numerose altre considerazioni, per es. la funzione che questi modelli vengono assumendo in Italia nel periodo fra le due guerre. Qui in età fascista si propongono abiti che siano insieme ''pratici'' e funzionali, come suggeriscono le nuove presenze delle donne nell'organizzazione del lavoro del regime, ma abiti che siano insieme legati alla tradizione nazionale: esiste certo, ed è importante, la ripresa dei costumi regionali; ma esiste, e pesa ancora di più, l'immagine corporativa degli abiti in stretta relazione con le funzioni dei singoli nel sistema sociale.
Nell'Italia fascista, dunque, e partendo dalle classi sociali subalterne, esiste appunto per le donne l'uso del cartamodello, da integrarsi però con l'uso di divise ufficiali per i rituali collettivi: divise che, per quanto concerne gli uomini, appaiono rigidamente fissate e irrinunciabili (divise di balilla, di avanguardista, ecc.). Non manca anche per gli uomini una tradizione di abito borghese, ma la sua fissità, la sua stabilità, e la produzione di massa per soddisfare la domanda non elitaria, non permettono certo l'utilizzo di una progettazione grafica degna di nota. Restano, in alcune grandi sartorie, piccoli nuclei di progetti, memorie di rapporti con gruppi di clienti di élite, ma che poco giocano nel sistema della progettazione generale.
Eppure il disegno, nel periodo fra le due guerre e lungo l'asse Parigi-New York, sembra assumere un'enorme importanza. Esso assume cioè la funzione di strumento di trascrizione e, potremmo anche dire, di analisi critica dei modelli. La produzione di élite in Francia fra le due guerre, vale a dire quella dell'alta m. femminile, mantiene, come del resto accade dagli inizi del 20° secolo, un grandissimo peso a livello internazionale. Non meraviglia dunque che la produzione industriale negli USA, che distribuisce i prodotti attraverso le reti dei grandi magazzini, intenda riprendere quella m. per proporla alle donne americane. Sul filo di questa tendenza va interpretata la creazione di riviste come Vogue, che hanno larghissima diffusione soprattutto negli anni Trenta, e che specializzano l'informazione attraverso l'uso della fotografia, come del resto accade, sempre negli anni Trenta e in USA, con la creazione delle riviste di cronaca basate sulla fotografia come Life e Look.
Se è la m. parigina a proporre ogni modello, o comunque i modelli dominanti, è parimenti irrinunciabile l'esigenza negli USA di essere informati sulla produzione presentata dagli ateliers di Parigi. Perciò fin dagli anni Trenta, e poi con grande evidenza negli anni Quaranta e Cinquanta, si pone il problema del come ottenere i disegni originali degli abiti di alta m. prodotti in Francia. Esso viene variamente risolto: o acquistando i modelli, cioè gli schizzi o anche i modelli di produzione veri e priori, le ''tele'', che sono una forma più avanzata e in scala 1:1 dei progetti degli abiti, oppure provando a copiare durante le sfilate i modelli stessi. Accade così che i disegnatori dei grandi acquirenti statunitensi nell'abbozzare gli schizzi degli abiti durante la sfilata non possano che porre in evidenza i punti critici più importanti, e in tal modo propongono il disegno come strumento di analisi consapevole. Del resto cosa fanno le analiste della m. se non ''scrivere'' con ironico segno, con graffiante arguzia le immagini degli abiti per le illustrazioni delle riviste? Sulle riviste di m., le fotografie delle sfilate, spesso limitate per evitare riprese e plagi, vengono dunque in parte sostituite nella loro funzione critica dal disegno.
Un ulteriore aspetto da considerare è quello dell'autografia ovvero della produzione d'impresa del disegno stesso. Anche se è evidente l'importanza del singolo progettista o stilista, sono da rilevare due fatti: che a volte il progettista è a capo di un'impresa e che non sempre è lui a disegnare gli abiti (anche se è certamente lui che ne accetta la linea e la rende funzionale al progetto globale che intende proporre prima delle sfilate); e che in molti casi la produzione dei singoli progettisti, specie se rivolta alla grande serie, non può che essere funzionale alla domanda e non può quindi rispondere a quelle sempre troppo mitizzate esigenze d'individuale originalità e di creatività, che sono invece alla base dell'interpretazione più tradizionale della progettazione di m. nelle storie settoriali.
Consideriamo due esempi relativi al periodo fra le due guerre e al secondo dopoguerra: negli USA, già negli anni Trenta, la produzione dei grandi distributori non può assolutamente essere legata a un singolo progettista; e quindi, se da una parte lo stock degli abiti per l'élite viene pensato tenendo conto delle invenzioni parigine, la produzione media e bassa viene realizzata tenendo conto della domanda differenziata, e comunque utilizzando progettisti diversi, spesso decine di disegnatori, per prodotti e livelli di consumo differenti. L'altro caso, quello della produzione di alta m. a Roma, appare egualmente significativo. La ditta Carosa (G. Caracciolo), il cui importante archivio di disegni è andato purtroppo disperso, a partire dal secondo dopoguerra prese a servirsi non di un singolo disegnatore ma − come del resto facevano molti altri, fra cui le Sorelle Fontana (Giovanna, Micol e Zoe) − utilizzava diversi progettisti dai quali acquistava gruppi di disegni. Questi progettisti, che di fatto erano disegnatori di figurini di m., passavano da un atelier all'altro vendendo blocchi di disegni, mentre alcuni lavoravano in esclusiva per una singola casa di moda. Da quegli schizzi il cui acquisto poteva essere di prima, seconda o terza scelta, i singoli ateliers ricavavano i modelli, sviluppando ma anche trasformando le idee abbozzate dai disegnatori. Sicché il rapporto fra progetto iniziale e risultato finale, fra gli anni Quaranta e i Sessanta, poteva essere anche assai labile o comunque contrassegnato da nette distinzioni fra il primo disegno e il risultato finale della ricerca.
Nei primi due decenni del dopoguerra Parigi resta, comunque, il centro dell'invenzione dei modelli come è anche vero che se Dior, il cui atelier modifica sostanzialmente e per dieci anni l'alta m. non solo in Francia ma in tutto l'Occidente, si distacca dagli usi precedenti, è anche perché recupera la funzione progettuale del disegno. Mostre recenti e i contributi critici prodotti in occasione delle stesse hanno provato come la funzione progettuale del disegno dello stilista stia alla base dell'unitaria invenzione della Casa: un disegno inconfondibile, dal segno veloce e intenso, un disegno che pur se sviluppato dagli esecutori, appare comunque innovatore nel panorama contemporaneo. L'invenzione degli altri stilisti parigini, da J. Fath (1895-1972) a C. Balenciaga (1912-1954), non sempre è legata a una fase progettuale così precisa e a un'attenzione alla creazione grafica del progettista-guida che, nel caso di Dior, ha peraltro favorito la conservazione di molti schizzi originali. Certo anche a Parigi livello e qualità di molti disegni appaiono in genere non alti; si viene così costruendo un'iconografia del figurino di m.- del resto evidente anche nelle illustrazioni delle riviste femminili negli anni Trenta − che determina un ulteriore declassamento e un corrispondente ulteriore disinteresse della critica per quei prodotti. I figurini infatti non sono propriamente progetti ma, nella gran parte dei casi, sono illustrazioni a posteriori, a volte ricavate direttamente dall'abito confezionato senza un preciso progetto grafico, e da utilizzare per pubblicità o per illustrazione sulle riviste specializzate.
La distinzione fra progetti e figurini di m. è dunque da tenere ben presente nella storia della grafica legata alla moda. Non solo perché nasce dalle esigenze dirette della stampa e dunque dell'informazione giornalistica, ma perché rappresenta due livelli diversi di analisi critica: nel caso dei disegni o schizzi originali siamo comunque di fronte al progetto per l'abito; nel caso di buoni figurini siamo davanti a delle repliche, a delle invenzioni di immagini funzionali a campagne pubblicitarie e, dunque, a criteri e convenzioni di raffigurazione molto diversi. Nei disegni progettuali il colore, in genere, è del tutto assente (da Dior a Ferrè ad Armani) mentre nei figurini il colore non manca mai; nei progetti lo schizzo è accennato, le forme alluse, il progettista non si occupa di associare alle strutture dell'abito volti, gambe o altro, si interessa al nodo progettuale; mentre l'opposto accade nei modelli per le illustrazioni. Da qui la necessità di analizzare in modo distinto questi due percorsi e questi due livelli di produzione grafica.
La fase più recente della produzione progettuale della m., che copre gli anni Settanta e Ottanta, vede un mutamento dei punti di riferimento e dei poli produttivi. Per una serie di complesse ragioni, tra cui soprattutto il trasferimento da Roma a Milano di un gruppo di imprese e di progettisti e grazie alla stretta correlazione fra imprese stesse e produttori di tessuti, si ha un inatteso boom della m. italiana e di alcuni stilisti. La m. in Italia, per quel che concerne il disegno e la realizzazione dei prodotti, era stata fino allora legata agli ateliers romani che, peraltro, nonostante qualche tentativo di produzione di serie (Sorelle Fontana), non erano riusciti a ottenere uno spazio di fronte alla grande fortuna del prêt-à-porter parigino. Quanto all'alta m., come vedremo, essa è rimasta subalterna al mondo del cinema e ai grandi attori del film statunitense e anche italiano, né ha costruito comunque un'immagine rilevante fuori dei nostri confini. La situazione muta rapidamente quando a Milano alcuni progettisti iniziano una loro significativa attività, primo fra tutti W. Albini (1942-1983) con un disegno sottilmente liberty, quindi G. Armani (n. 1934) e G. Ferrè (n. 1944).
Armani disegna in modo sottile, sensibile, efficace, a matita nera, su piccoli fogli che poi l'atelier si incarica di sviluppare; Ferrè disegna a tratti assai più nitidi, su fogli di maggiore dimensione, e struttura le forme degli abiti secondo linee architettoniche precise. Esistono altri grandi ateliers come Krizia, che organizzano una grande produzione di serie, servendosi di numerosi progettisti coordinati dalla progettista guida e che utilizzano, fra l'altro, anche l'analisi computerizzata per la progettazione delle varianti dei tessuti. I Missoni utilizzano anch'essi il computer per l'invenzione delle loro nuove stoffe, tenendo conto di radici locali, ma rielaborate entro la cultura dell'Informale in pittura, oppure delle più antiche matrici della cultura delle stoffe messicane o peruviane o delle grandi manifatture dei tessuti settecenteschi e ottocenteschi di Lione. In tutti questi casi il disegno viene assumendo funzioni diversissime, si correla alla tradizione e da ultimo viene talvolta sostituito, in particolare per la progettazione dei tessuti a maglia, dalla progettazione col computer, che muove comunque da programmi precisi pensati dai progettisti di atelier. Non è un caso che utilizzino il computer, oggi, molti progettisti di oggetti di design e soprattutto di architettura.
Il disegno, nei diversi contesti storici che abbiamo analizzato, assume dunque funzioni via via differenti. Dapprima disegno a priori e, perciò, disegno progettuale: progetto su carta oppure su ''tela'' secondo le indicazioni fornite dall'atelier; poi disegno a schizzo come illustrazione e come ironica registrazione: è questo il caso di molte collaboratrici di riviste prima e dopo la guerra, sia inglesi sia statunitensi, oppure della nostra raffinatissima Brunetta (B. Mateldi) nel dopoguerra; disegno come illustrazione a posteriori, figurino insomma; infine progettazione col computer e quindi trasformazione o, se si preferisce, abolizione del disegno tradizionale. Forse anche per il prevalere dell'immagine del figurino, finora, nella moderna cultura della grafica il disegno di m. non ha avuto attenzione critica, o non l'ha avuta come avrebbe meritato e come insegna sia la tradizione storica della progettazione degli abiti presso le corti dei principi e fuori di esse, sia comunque la conservazione di importanti nuclei di antichi disegni di abiti e costumi presso i Gabinetti di disegni e stampe in Occidente.
La moda e le sue scritture: la fotografia. − Nel racconto di m. la fotografia ha svolto e svolge ancora un ruolo molto importante, e attualmente, insieme al videotape, è la più conosciuta forma di ''trascrizione'' dell'abito. Sarebbe tuttavia un errore ritenere la fotografia una ''scrittura'' realistica della m., e le sue immagini, quindi, un documento oggettivo della realtà. Analizzando la storia del rapporto tra fotografia e m., emerge infatti come esso sia sempre regolato dalla convenzione, e cioè della possibilità di costruire un racconto secondo modelli volta a volta differenti (Quintavalle 1984, 1985, 1991).
Per comprendere le due possibili strade dell'immagine fotografica degli abiti, e dunque della m., va ricordato il punto da cui prese avvio la sua storia, nella Parigi del grande Poiret, lo stilista che di fatto rifiutò la cultura Jugend proponendo modelli diversi.
Di fronte al problema di come fotografare gli abiti, una soluzione che avesse voluto tenere conto delle immagini contemporanee avrebbe richiesto che le modelle fossero messe in posa dentro una struttura architettonica, un salone, un sistema ad arcate, uno spazio comunque ricco di decorazioni e orpelli ed essere qui analizzate con una messa a fuoco netta, tagliente, realistica; oppure, seguendo la tendenza del pictorialism, utilizzare grafie diverse, nebulose, indefinite nei contorni. Poiret sceglie invece un giovane fotografo statunitense, Man Ray (1890-1976), appena giunto in Europa, amico dei dadaisti, di M. Duchamp e di F. Picabia, il quale inventa modi del tutto diversi di ripresa. Fotografa le modelle lungo le scale dell'atelier, elimina ogni dimensione decorativa, di contorno, punta sull'abito e insieme sui contrasti ombre-luci. Le forme sono descritte con evidenza, lo spazio è concentrato sul modello. Il risultato è una rivoluzione rispetto alle immagini precedenti: l'abito racconta se stesso al di fuori di un contesto. Per tutti gli anni Venti-Trenta Man Ray produce immagini di m. dove la tecnica di solarizzazione trasforma, a volte, le figure, inventando una dimensione del tutto astratta. Intanto, negli anni Trenta, la ricerca sulla fotografia in bianco e nero si fa sempre più attenta, anche perché le riviste di m. richiedono ampi servizi. Il disegno, lo schizzo di m. un tempo unico possibile riferimento mnemonico per l'abito, viene progressivamente sostituito dalla fotografia. Ed ecco che l'inglese C. Beaton (1904-1980), proprio su Vogue, propone un nuovo modo di raccontare l'abito. Si tratta di una messa in scena delle modelle come su un piccolo palcoscenico; le figure sono accostate con ironia, poste a ''recitare'' dentro uno spazio e una dimensione attentamente organizzati. La foto di m., con Beaton, esce dal rituale precedente in cui le modelle erano figure inespressive, semplici manichini, ma esce anche dalle immagini spesso fortemente contrastate, vivacemente inventive a livello di luci e di ombre di Man Ray, realizzando così una scrittura diversissima, trasparente, appunto, come un palcoscenico uniformemente illuminato, sul quale si devono leggere i personaggi e i loro costumi, ma anche i loro gesti e i comportamenti. Un'ulteriore profonda trasformazione delle immagini della m. si ha nel secondo dopoguerra, quando gli statunitensi R. Avedon (n. 1923) e I. Penn (n. 1917) propongono due diversi modi di racconto dalle pagine di Vogue e di Harper's Bazaar, le due maggiori riviste del settore. Le invenzioni di Avedon modificano la precedente tradizione fotografica e puntano su una riduzione delle forme e una loro riorganizzazione secondo precise geometrie. Anche la stampa delle immagini è volutamente contrastata e le figure sono ridotte a silhouettes raffinate che operano in un spazio e in un tempo sospeso. Ben note sono le sue foto, fuori o dentro l'atelier non importa, con le figure sospese nello spazio, in atto di saltare o correre, in cui è evidente la ripresa di idee della ricerca surrealista. Diverso il caso di Penn, che inizia come pubblicitario e come grafico e quindi, dopo una serie di copertine per Vogue, propone una fotografia di lunga durata, con immagini caratterizzate da tempi lunghissimi e con stampe al platino − secondo una tecnica arcaica appositamente recuperata − che danno un'eccezionale resa dei neri e delle loro modulazioni. Penn non è solo fotografo di m., ma la rivoluzione che egli propone dentro il ''genere'' trasforma di fatto la foto di m. da documento di eventi, sfilate e simili, e dunque da foto di cronaca, in immagine che, attraverso la m., propone una riflessione sul mondo.
Negli anni Sessanta, in Italia, U. Mulas (1928-1973) propone una nuova idea della foto di m. puntando su una stretta relazione fra due modelli di racconto: la foto di cronaca, con la sua attenzione al personaggio e dunque all'evento, e la foto analitica, riflessa, carica delle tensioni della ricerca di un Man Ray e di un Avedon. Ne risultano servizi di grande novità che modificano la tradizionale tendenza descrittiva delle immagini di m. suggerendo anche relazioni stimolanti fra fotografia e arte, da quella negra allo spazialismo di L. Fontana (1899-1968), alle invenzioni surreali di F. Melotti (1901-1986).
Naturalmente la fotografia di m. nella sua pluridecennale storia ha proposto, e propone ancora oggi, nuovi modi di racconto. Ma i mutamenti che si sono indicati, legati ad alcune personalità eminenti, fanno intendere quali sono stati i principali momenti della trasformazione: l'immagine-quadro, l'immagine sostanzialmente bloccata delle prime fotografie avanti la rivoluzione di Man Ray; l'immagine fortemente connotata, anche politicamente, delle fotografie della m. ufficiale delle dittature fascista e nazista, cui fa riscontro l'immagine d'élite, elaborata per le riviste specializzate soprattutto in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Le immagini del secondo dopoguerra puntano invece sempre più su servizi a carattere narrativo e, dunque, sull'organizzazione di una vera e propria storia, trasferendo quelle che, negli anni Trenta, erano state le scoperte narrative di Look e soprattutto di Life, nella foto di cronaca, nella narrazione appunto della moda.
Di qui nascono le fotografie che fondono narrazioni di viaggio e m., in cui le nuove linee della m. vengono presentate nei luoghi mitici di viaggio degli anni del secondo dopoguerra, in isole lontane, prima le Hawaii, poi le Seychelles, oppure, nel caso delle riviste italiane, si tratta di foto di m. scattate nella campagna romana o a Fontana di Trevi o, per quelle francesi, scattate a Parigi sotto la Tour Eiffel o la Nike di Samotracia al Louvre. Ma questi ''luoghi comuni'' dell'immagine fotografica finiscono per trovare un contrappunto netto nelle nuove invenzioni cui prima abbiamo fatto riferimento, che mettono la sordina sui vecchi modelli. E quando, negli anni fra il 1968-70 e il 1977, la contestazione rivoluziona comportamenti e attenzioni del passato, la fotografia appare essa pure diversa, attenta ai comportamenti giovanili e alla m. di massa e sempre più disattenta alla m. di élite.
Oggi la fotografia di m., che sconta una grande recessione e generale rallentamento del settore, appare comunque concentrata sul modello e funzionale al prodotto; ma − ricordiamolo − alla foto si viene sempre più sostituendo il video che rappresenta, anche in relazione alla videomusic, un'innovazione notevolissima nel settore. Insomma la foto di m., dopo due generazioni, appare uno strumento importante ma non più determinante per la comunicazione dell'immagine della m. e che progressivamente si troverà confinato nell'insieme delle ''scritture'' arcaiche, come il disegno d'illustrazione. Del resto l'uso in alcuni servizi di riviste di una stampa che imita le vecchie foto all'albumina con un viraggio bruno finisce già per dare a queste foto un'aurea rétro, la stessa che certe illustrazioni su Vanity Fair offrivano utilizzando arcaiche grafie del disegno per ottenere lo stesso risultato: fornire una dignità d'immagine storica all'illustrazione della moda.
Scritture della moda: la sfilata, la rivista. − Fra le scritture di m., la sfilata è quella che ha la storia più complessa e più ricca di invenzioni. Il rapporto evidente è con il teatro e, per come fino a qualche anno fa erano configurate le sfilate, viene in mente la finale passerella degli attori nei cafés-chantants parigini. Ma per capire le origini dobbiamo andare indietro nel tempo fino a Coco Chanel e agli anni Venti quando nell'atelier della stilista − che con il tailleur propone una presenza della donna nella società degli uomini, perché ormai anche la donna lavora − si organizzano sfilate confrontabili con quelle del secondo dopoguerra. Lo spazio della sfilata è quello di un atelier che non evoca il palazzo e propone una dimensione diversa, senza particolare aura, dell'abito e delle sue funzioni. I gesti delle sfilate, in parte ricostruibili dai documenti fotografici del tempo, agli inizi non appaiono affatto ritualizzati come saranno invece nel secondo dopoguerra. Rispetto alle modelle del tempo di Poiret, che sono riprese appoggiate alle cortine, di fronte a finestre, lo sguardo perso nel vuoto, rispetto dunque a una presentazione di modelli che in qualche modo imita le messe in scena dei drammi ottocenteschi o dei film del muto, bloccati nella fissità di una posa, la sfilata diventa un discorso del tutto diverso. Le donne percorrono con i loro nuovi modelli una ''strada'', sia pure in mezzo a degli spettatori, e recuperano in tal modo una dimensione di vita quotidiana allora non consueta. Di contro a queste sfilate di m. negli ateliers parigini, altrove la m. viene rappresentata secondo rituali diversi.
In Italia le sartorie di alta m. non fanno propriamente sfilate, mantenendo con la clientela un rapporto privato, personale. Presentazioni pubbliche di modelli vengono fatte invece dal regime fascista negli anni Venti e soprattutto Trenta: si tratta dei modelli degli abiti rituali propri delle ''strutture totalizzanti'', delle divise delle giovani e dei giovani fascisti. Nel paese si costruisce rapidamente una gerarchia, le divise sono al culmine; l'abito maschile borghese, pur prodotto in serie, appare emarginato; le sartorie fanno abiti per una ristretta élite, riecheggiando spesso, nei modi che si è detto, modelli parigini. L'Europa delle dittature (quella nazista più di ogni altra) finisce per privilegiare un rituale di comportamenti molto più complesso, quello delle sfilate paramilitari e militari, e un sistema di riti collettivi che non trova confronti nei decenni precedenti. Il rifiuto, da parte delle dittature nazista e fascista, dell'abito e della m. borghese, che in area fascista si coniuga anche col recupero forzato dei costumi e dell'abbigliamento tradizionale regionale, finisce per porre la m. d'élite e i suoi rituali in un'area a parte che non giova alla sua diffusione, o, per meglio dire, prevede la diffusione di abiti e, quindi, di comportamenti molto diversi rispetto alle invenzioni dei grandi ateliers parigini.
Nel secondo dopoguerra la Parigi dell'alta m. recupera rapidamente, fin dagli anni 1947-50, la sua funzione di guida a livello internazionale. I compratori statunitensi non imitano soltanto i modelli ma ripropongono, nei loro grandi magazzini, alcuni elementi guida delle sfilate. Negli ateliers di Dior, di Fath e in tutti gli altri, la presentazione dei modelli viene completamente riorganizzata rispetto al periodo fra le due guerre. Prima di tutto gli spazi sono più simili a quelli dei saloni di un palazzo, che non ai luoghi spesso senza orpelli delle sfilate degli anni Venti e Trenta; inoltre, fra specchiere e forti luci, una parte notevole del pubblico è composta da fotografi e anche cronisti dei cinegiornali; tra gli spettatori certo non mancano anche singoli clienti ma, specie a Parigi, dominano i grandi compratori di modelli. La sfilata diventa non tanto l'illustrazione di singoli abiti quanto piuttosto il racconto di una sequenza di abiti per ogni uso o funzione, fino a diventare la presentazione di intere collezioni che, man mano, lievitano da alcune decine a molte decine e spesso, con le varianti, a centinaia di modelli (Quintavalle 1983, 1985). L'alta m. presenta al pubblico non solo i singoli prodotti, ma anche le rispettive alternative, che è un modo diverso di affermare che il modello è unico ma che, insieme, è un multiplo producibile in piccola serie. Per illustrare tutto questo le sfilate vengono organizzate in modo rigoroso, fissando comportamenti e gesti delle modelle, stabilendo i loro percorsi che, quasi sempre, sono in passerella, imponendo progressivamente un'inespressività dei volti a vantaggio della presentazione degli abiti che finirà per essere codice fisso per ogni sfilata in Occidente. Lo stesso accade nelle sfilate negli Stati Uniti che, peraltro, sono presentate soprattutto nei grandi magazzini e, in particolare, in quelli di più alto livello; anche qui si rispettano rituali fissi e gestualità prestabilita a priori in relazione al genere di abito esposto: da mattina, da pomeriggio, da sera.
Per quanto riguarda il fisico delle modelle, dai primi anni del dopoguerra agli anni Sessanta, a Parigi come a Londra, il genere di struttura corporea utilizzata per le sfilate cambia nettamente. Le modelle degli anni Quaranta e Cinquanta erano ben diverse da quelle degli anni Sessanta e oltre, che devono essere sottilissime, altissime, e che assumono un modo di percorrere gli spazi della sfilata rapido, scattante, veloce, legato alla cultura nuova che si viene imponendo, dai Beatles in poi. Ma se questo è il generale trend europeo, e se questi sono i rituali di presentazione degli abiti, in Italia la situazione appare diversa. In Italia, nel secondo dopoguerra, alcune sartorie riescono a organizzarsi o a riprendere dagli antichi laboratori una nuova attività, e questo accade soprattutto a Roma. Carosa e G. Marucelli (1905-1983) continuano a operare, ma progressivamente sono E. F. Schubert (1904-1972) e le Sorelle Fontana a organizzare nuovi spazi e ad attirarvi una diversa clientela rispetto a quella alto-borghese del passato.
A Roma appunto, riprendendo il modello parigino, si costruiscono gli ateliers, peraltro sempre più prossimi al palazzo antico che alla struttura funzionale delle industrie. Specchi e cornici dorate, tappeti e tavolini con soprammobili sono l'armamentario consueto, che spesso sa un poco di pastiche, o di fondale di cartapesta di Cinecittà. Anche questo si spiega: la clientela guida, quella che sprovincializza la produzione romana, è quella appunto delle grandi attrici statunitensi che girano film a Roma. Spesso gli ateliers della capitale, oltre le consuete modelle, usano abilmente, come mannequins per le sfilate, giovani della nobiltà alle prime esperienze, che, dopo qualche prestazione, rientrano nel loro ambiente: perciò ben difficilmente il rituale parigino della sfilata diventa un modello stabile. Semmai le modelle nostrane vengono preferibilmente condotte nelle campagne davanti alle rovine dell'antica Roma o, in città, presso i monumenti della Roma barocca e, atteggiate dai fotografi, vengono riprese in pose legate alla tradizione pittorica del quadro o delle cartoline illustrate.
Le sfilate e le modelle internazionali, riprese dai grandi fotografi nella loro programmata gestualità, in Italia le troviamo soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, quando il prêt-à-porter milanese domina la scena nazionale. In questa fase, a New York come a Londra, a Parigi come a Milano, sono le stesse ''attrici'' che si trasferiscono mutando semplicemente ''costume di scena'', abito; attrici che, proprio per la loro capacità di adattarsi ai gesti richiesti dai costumi che indossano, proprio per la loro capacità mimica, oltreché per la loro nuova figura corporea, sono richiestissime e assai ben pagate. In quest'ultimo periodo l'immagine delle mannequins si trasforma ancora: sono figure longilinee, molto più alte della media delle potenziali clienti, e rappresentano una mitologia del femminile che fa presa sul pubblico. Diverso il caso delle sfilate negli USA che, pur proponendo anche gli abiti di alta m., illustrano, spesso nei grandi magazzini e sempre con sfilate, le immagini di donne comuni e dunque di taglie diverse da quelle mitiche delle modelle. Questo differenziarsi delle forme in USA si spiega con il rapporto tra produzione dell'abito e industria, come accade in parte anche a Parigi col prêt-à-porter e a Milano; la presentazione della m., di quella giovane e delle altre aree specializzate (non sempre per quella dei bambini), propone infatti gesti e comportamenti molto diversi da quelli ormai fissi dell'alta moda. Ma una rivoluzione è in atto: le sfilate di m., nei tardi anni Ottanta, appaiono a molti un rituale privo di senso. Diversi stilisti, tra i quali Armani, propongono soluzioni diverse, come la semplice esposizione di modelli sui manichini oppure l'uso di videotapes, che da tempo sono diffusi come documentazione visiva, ma in effetti costituiscono forme di pubblicità indiretta venduta come cronaca di attualità in televisione o nelle rubriche specializzate. La rivoluzione sta nel respingere le sfilate e nel puntare sui modelli soltanto.
Un altro modo di proporre la m., emerso soprattutto negli ultimi due decenni, è la pubblicità murale che presenta in particolare le linee del prêt-à-porter o dei prodotti di massa dei grandi stilisti. Molti hanno utilizzato questo canale d'informazione: la battaglia dei jeans, durante l'estate, è divenuta un racconto consueto scritto sui cartelloni murali esattamente come in autunno il confronto fra le diverse modepronte. A Parigi le catene dei magazzini e le pubblicità collegate costruiscono analoghi discorsi; negli USA, più che i manifesti, vengono utilizzati le riviste e i supplementi domenicali dei quotidiani.
Le riviste di m. sono ovviamente un importante canale d'informazione, un canale parallelo alle sfilate di m.; ma rispetto alle stesse sfilate di cui vogliono rendere conto, presentano un montaggio diverso. È su riviste di m. come Vogue e come Harper's Bazaar che s'inventa un montaggio globale in quanto specifico racconto legato alla m. (Calzona-Strukelj 1985; Bianchino 1983). Progressivamente, e soprattutto negli anni Trenta, la fotografia in bianco e nero diventa, rispetto al disegno e alla descrizione dei modelli, la vera protagonista. Fotografia, didascalia e un poco di cronaca sono i materiali base delle riviste a cui si aggiungono altri elementi, fra cui il più importante è la creazione di un vero e proprio racconto di moda.
La novità delle riviste statunitensi, rapidamente imitate o riprese nel dopoguerra anche in Francia, Inghilterra e Italia, non sta nell'emarginare le antiche e tradizionali riviste tecniche di m. funzionali alle sartorie e alle modisterie con le indicazioni precise per la produzione degli abiti: sta nell'idea di fondo che i grandi abiti di m., acquistabili solo da pochi, possano essere comunque fruiti dai più come un mito attraverso le pagine delle riviste. Costruite a opera di geniali fotografi specializzati, le fotografie delle modelle, le immagini dei singoli abiti e il loro diversificato ''racconto'' diventano lo schema di tutte le riviste, anche di produzione europea: uno schema che risponde a complesse esigenze e che prevede, come nel caso delle diverse edizioni nazionali di Vogue, adattamenti e trasformazioni a seconda dei paesi.
Nel secondo dopoguerra le riviste di m. hanno di fatto disegnato un nuovo genere, proponendo un particolare racconto di m. che i grafici delle riviste si sono incaricati, per loro parte, di costruire come una lunga sequenza narrativa, le cui singole sezioni e i servizi sono parte di un organico racconto che, negli anni Settanta e Ottanta, diverrà quello delle nuove m. stagionali nell'arco dell'intero anno. Le riviste di m. dunque sono diventate quel luogo dell'evasione che la critica più attenta ha analiticamente considerato. Proprio queste riviste, con la loro ritualizzazione attraverso le fotografie dei gesti delle modelle, con foto che dagli anni Sessanta in poi sono il più delle volte a colori, e con la standardizzazione simmetrica delle didascalie, pongono un grande problema di comunicazione. La ricerca sulla m. di R. Barthes (1967) considera non le immagini ma solo le didascalie, in quanto rispondenti a un sistema di significati altamente metaforico: eppure − al pari delle parole − anche le fotografie delle riviste di m. risultano ugualmente convenzionali e cariche di capacità astrattiva. Per caricare di sensi nuovi l'immagine non si usano più le immagini realistiche delle modelle nei luoghi di élite: bastano ormai alcuni gesti, alcuni allusivi dettagli o semplicemente il colore di qualche fondino tipografico. E il pubblico ha ormai imparato a decrittare anche questo sistema di segnali, per cui la m. delle riviste specializzate dovrà essere letta anche e proprio come un sistema convenzionale e ritualizzato di gesti e di comunicazione figurata. Le riviste di m. tuttavia, esattamente come le sfilate, sono in qualche modo una forma di comunicazione che appare oggi obsoleta, e non solo per ragioni, pur effettive, di crisi economica ma perché non sembrano più rispondere alle richieste del pubblico, che proprio quei rituali ritiene forse superati. Un'ipotesi è che la funzione delle riviste di m., l'uso e i modi delle mannequins e i loro significati vadano verso una profonda trasformazione.
Storia e mitologia degli ''stilisti'': Parigi, Roma, Milano. − Nel primo paragrafo si è posto il problema dei modelli, senza però analizzare i procedimenti narrativi che, per lanciare e pubblicizzare questi modelli, sono stati promossi ed elaborati o dagli stessi stilisti oppure dai loro staff, dagli agenti, dai pubblicitari. Si tratta del ''racconto di m.'' che non sempre è stato costruito come lo è attualmente, un racconto che ha una propria storia e che incide sulle narrazioni settoriali della moda.
Agli inizi del Novecento il racconto di m. non esisteva: nessuno avrebbe mai esposto gli abiti o i progetti di K. Moser costruendo una storia legata al mito del self-made man americano, nessuno avrebbe organizzato un'esposizione sulla vita e sul lavoro di un disegnatore di m. prendendo a prestito il modello postromantico dell'artista. Neppure dopo, al tempo di Coco Chanel, il discorso sulla m. a Parigi appare convivere con quello di oggi. Anzi, proprio la grande stilista propone della donna una funzione diversa nella società, inventa per questo abiti funzionali al proprio assunto, costruisce un sistema di racconto coerente con questa impostazione. Esiste una ragione storica per la quale il progetto della m. muta, e proprio in relazione all'arte e alle sue trasformazioni. Il luogo della trasformazione della moderna riflessione sulla m. non sono gli Stati Uniti, dove il racconto del progetto di m. appare agli inizi semplicemente legato a una fase preliminare, quella della produzione di serie. E neppure è l'Italia perché, dopo vaghi rapporti intrattenuti con la cultura viennese e in genere Jugend di area germanica, la nostra produzione si collega prevalentemente agli ateliers parigini, molto spesso assumendone disegni e modelli, ma producendoli a livello artigianale, un livello distinto dunque dalla cultura dell'arte. È a Parigi che avviene una netta trasformazione dell'immagine della m., dopo che diverse attenzioni al problema si erano avute altrove. Prima erano stati i futuristi e G. Balla a proporre un nuovo modo di vestire, un modo funzionale alla cultura dell'industrializzazione, alla cultura antagonista al mondo borghese. Nello stesso tempo, e su un medesimo piano, anche nella Russia dei soviet, artisti che entrano nell'orbita del Costruttivismo, da N. Gončarova a K. Malevic, da Vl. Tatlin a L. Popova, propongono non costumi di scena ma nuovi abiti per nuove funzioni e nuovi modi di rappresentare se stessi nella società. In ambedue i casi, però, il problema dell'abito come opera d'arte, a Parigi come a Mosca, non si pone; gli artisti progettano, in quanto intellettuali nuovi, modi nuovi e diversi di vita. L'idea postromantica dell'arte non sta a monte delle scelte proposte.
A Parigi invece, nel periodo fra le due guerre, e soprattutto nei tardi anni Venti e nei Trenta, la situazione appare molto diversa. Dopo le rivoluzioni cubista e fauve, dopo il netto rifiuto dadaista, il movimento dominante è il surrealismo che, dal 1924, viene proponendo un rapporto complesso fra immagine e simbolo. La posizione di S. Dalí sull'abito, sul costume, è diversa da quella del belga R. Magritte o del tedesco M. Ernst: per Dalí l'abito è segno simbolico, e dunque una collaborazione con il mondo della m. diventa significativa, anzi indispensabile. Da qui cappelli, bottoni, abiti disegnati per E. Schiaparelli (1890-1973), da qui la nuova funzione che, rapidamente, nel corso degli anni Venti e Trenta assumono gli ateliers parigini come luogo d'incontro di intellettuali. Ma se l'abito si fa arte, se il prodotto delle midinettes e degli stilisti si collega a quello artistico, allora mutano le basi del possibile racconto della moda. Certo, non siamo ancora alle fiabe del dopoguerra, e anzi a Parigi il problema della m., in questi anni, viene impostato in termini diversi da un'artista come S. Delaunay, che disegna centinaia di tipologie di stoffe, per abiti il cui disegno è in genere pensato da altri. La Delaunay inventa, nel corso degli anni Trenta, un nuovo modo di elaborare il tessuto, soprattutto quello stampato, inventa colori, grafie che muovono dalla ricerca futurista e cubista ma che, di fatto, integrano le diverse culture delle avanguardie. Spetta a lei, più che a Dalí, il merito di avere mostrato la possibilità degli artisti moderni d'integrarsi con l'industria. A Parigi, dadaisti e surrealisti, cubisti e postfuturisti vivono in stretto rapporto con il mondo dell'arte, che compra le loro opere: non è certo un caso che un grande sarto, J. Doucet (1853-1929), sia il primo compratore delle Demoiselles d'Avignon (1907) di Picasso, il che rende più chiare le basi del moderno mito che identifica artista e ''stilista''.
Ma di questa vicenda conviene esporre pochi altri passaggi chiave. Nel primo dopoguerra, Dior inventa una nuova linea, una nuova m. che segna il ritorno, com'è noto, alla cultura rétro, con il rifiuto dell'abito pratico, per tornare a un'immagine diversa, di una donna come non potrà ormai più essere, immagine mitica della bellezza staccata dalla realtà del quotidiano. La Francia nell'immediato dopoguerra ricostruisce dunque, e molto rapidamente, la propria industria della m. e diventa il punto di riferimento per la produzione di serie statunitense. Questo risultato si ottiene con un passaggio ulteriore rispetto al passato, suggerendo indirettamente che il progettista di m. crea, propone, scopre così come fa l'artista. Se si leggono le prime campagne pubblicitarie, gli annunci sui giornali femminili, le cronache soprattutto di quelle sfilate, di quegli eventi parigini, si scopre che la m. è il fulcro di un sistema di creazione intellettuale, che la sfilata non è molto diversa dall'inaugurazione di una grande mostra dei protagonisti dell'Ecole de Paris, come un Picasso, un Braque o un Matisse. La mitologia della m. come creazione artistica diventa un fatto evidente, non più rapporto fra ''stilisti'' di m. e artisti ma invenzione diretta dei protagonisti degli ateliers.
Del resto, circa un decennio dopo, è Hollywood a fornircene la corretta interpretazione, proponendo il confronto USA-Parigi con due film che potrebbero essere letti anche come il finale bilancio di un rapporto fra la capitale francese e la cultura statunitense della m., rapporto che dura almeno dagli anni Venti ma che, nel secondo dopoguerra, si è venuto ulteriormente trasformando. Nel film Sabrina (1954) di B. Wilder, A. Hepburn è veramente una Cenerentola, una figlia di autista trasformata dagli abiti della m., che sono quelli di H. de Givenchy (n. 1927), ma per l'occasione firmati da E. Head, costumista della Paramount. Ancora nel film Cenerentola a Parigi (1957), di S. Donen, la stessa Hepburn è una commessa di una libreria di New York che sogna da sempre di andare a Parigi e di entrare nei circoli esistenzialisti. Ingaggiata come indossatrice e completamente trasformata, accompagnata da un fotografo (F. Astaire) che non è altri che R. Avedon, e diventata principessa grazie anche agli abiti di Givenchy, scopre infine la Parigi delle midinettes e delle sfilate, delle clienti e degli ateliers. Della fiaba converrà ricordare anche la vicenda del compratore americano che opera per i grandi magazzini, e l'efficace, un poco estraniata descrizione del sistema della moda. A Roma la situazione è diversa: il problema dell'industria non si pone, restano gli ateliers tradizionali, rappresentati − per ricordare anche in questo caso un film − in Le ragazze di piazza di Spagna di L. Emmer (1953) dove sono messe in scena le Sorelle Fontana, con gli spazi aulici degli antichi palazzi, le grandi sale ricche di dorature e di specchi, e le modelle come comparse.
Il film statunitense degli anni Cinquanta propone di fatto un'interpretazione della m. e delle sue funzioni che non verranno più mutate per decenni (Campari 1983, 1985). A parte la situazione storicamente diversa degli ateliers di Parigi e di Roma, i personaggi che i due film di Hollywood mitizzano (lo stilista, la figura del progettista, del coordinatore dell'atelier insieme a molte altre, dalla direttrice alle modelle) saranno da quel momento in poi le parti fisse nella narrazione della moda.
Resta da chiarire come sia rinata in Italia la mitologia dello stilista-artista. Nella Roma del secondo dopoguerra le poche case di produzione, i pochi ateliers non vantano molto di più della vecchia clientela alto-borghese, ricostituitasi a fatica dopo la crisi; ma con l'impiantarsi a Cinecittà della produzione cinematografica dipendente in parte da Hollywood, la situazione si trasforma completamente. Di colpo, soprattutto negli anni Cinquanta, la capitale, fino allora ai margini del grande sistema dei rapporti internazionali, diventa un punto di riferimento indispensabile per decine di protagonisti, attori, registi, tecnici statunitensi, e il sistema delle antiche sartorie rapidamente muta. S'inventano ateliers più grandi, pensati e costruiti tenendo conto dei modelli parigini; Schubert e le Sorelle Fontana finiscono per ottenere una funzione guida, soprattutto vestendo le dive italiane il primo e le statunitensi le seconde. Poco a poco gli altri ateliers, pur importanti e magari con produzioni raffinate, come Carosa, passano in secondo piano. Si costruisce un modo diverso di far storia della moda. Con abilità, sono proprio gli ateliers a inventare storie di grandi amori per i settimanali di attualità, dove gli amori sono sempre collegati agli abiti, dando luogo così a un'invenzione pubblicitaria. Negli ateliers l'amore, da A. Gardner a L. Christian, nasce vestito, e vestito di abiti che sono programmaticamente rétro, carichi di capacità evocative della cultura ottocentesca, soprattutto quelli da sera (Bianchino 1989).
Per comprendere appieno lo sviluppo di una ''mitologia'' nel senso proposto da R. Barthes (1957) bisogna seguirla nelle sue trasformazioni ultime. Determinante, per il rinnovarsi del modello narrativo, appare il contributo degli stilisti italiani, anzi di quei disegnatori e progettisti di m. che, nel corso dei tardi anni Sessanta e soprattutto Settanta, si staccano da Roma e si trasferiscono a Milano.
Trasferimento e tempi sono significativi: ormai la Hollywood romana, industrialmente parlando, è finita; le grandi produzioni statunitensi si sono trasferite altrove, in paesi dove, diversamente dall'Italia, il boom economico non ha fatto lievitare i prezzi di produzione. Le attrici cinematografiche non praticano quasi più gli ateliers romani; tornano semmai a Parigi e cominciano, negli stessi USA, a servirsi di costumiste o costumisti che si vanno trasformando in ''stilisti''. A Roma, lo stilista Valentino (V. Garavani, n. 1932), sempre più isolato, sviluppa una propria ricerca sull'alta m. legata soprattutto a una sapiente evocazione della cultura art déco, ricerca che ancora oggi prosegue. L'arrivo a Milano di molti, dalla giovane Krizia a W. Albini, va collegato a una programmata esigenza dell'industria dei tessuti e delle confezioni che richiede un nuovo rapporto fra progettisti e industria. L'esigenza di vitalizzare i prodotti, le confezioni, di creare un efficace contraltare al rapporto costruito a Parigi fra alta m. e prêt-à-porter, induce a realizzare un sistema complesso, nel quale i singoli protagonisti degli anni Settanta e Ottanta diventano l'immagine esteriore più evidente, ma non la più importante.
Va ricordato al riguardo che già negli anni del secondo dopoguerra un'intensa collaborazione si era stabilita fra alcuni artisti milanesi, che fornivano disegni, e la produzione industriale di stoffe e di sete, a cominciare da L. Fontana (1899-1968). Mentre a Roma, riprendendo un costume parigino vecchio di una generazione, le Sorelle Fontana e altri ateliers inventavano premi di pittura, la situazione di Milano era molto diversa. Qui gli artisti disegnavano per l'industria, ma con una differenza rispetto a Parigi: quello che per S. Delaunay era un fatto positivo, da non nascondere (progettare per l'industria voleva dire mutare la funzione dell'arte), a Milano veniva nascosto; gli artisti progettano quasi in sordina per l'industria, non firmano i propri prodotti. Sempre a Milano, il raffinato W. Albini propone un progetto diverso riprendendo consapevolmente, nei suoi bei disegni progettuali, la cultura Jugend e inventa abiti che sono rimasti e rimangono nella storia dell'invenzione di m. come un importante ponte gettato verso la cultura artistica. Diverso il caso di R. Capucci (n. 1930), che, a Roma, evoca sapientemente le invenzioni dei futuristi, con abiti di geniale ideazione, ma senza mai porsi il problema della produzione di serie, al centro invece della ricerca di Albini.
La situazione milanese si rinnova negli anni Settanta quando Armani, Ferrè, Missoni, Versace, Krizia e diversi altri reinventano il rapporto con l'industria. Una produzione ''alta'', ma non tanto da non essere in grado di trasformare il modo di vita quotidiano. Armani propone il recupero critico della grande Coco Chanel e dei suoi tailleurs, con una scelta che muove dalla cultura postcubista, e comunque parigina, di tonalità spente, morbide, controllate. Ferrè punta su una progettazione degli abiti neocostruttivista a partire dal disegno, con una fortissima componente strutturale, architettonica, dell'immagine e con invenzioni che ricordano Malevic e Tatlin. I due Missoni, Rosita e Tai, inventano dapprima un abito-maglia aderente, e poi golf, pullover e ogni altro componibile del sistema, come se ne vedono nei mitici albi di fantascienza degli anni Trenta e, poi, nelle pellicole degli anni Sessanta dello stesso filone, ma con tonalità direttamente ispirate alla pittura dell'Informale. Krizia, evocando i rapporti arte-moda della Parigi degli anni Trenta, sceglie la tecnica della ''citazione'', proponendo intere collezioni collegate all'arte. Infine G. Versace (n. 1946) s'ispira a immagini dell'arte, intrecciando nella sua alta m. mitologie del costume teatrale e memorie d'ambito sette-ottocentesco.
Lo stilista milanese diventa dunque un creatore e assume tutti i tic, i vizi degli artisti, non come sono nella realtà ma come vengono raccontati nei romanzi, o nei film hollywoodiani. La pubblicità della m. e i narratori della vita degli stilisti finiscono per imbastire vicende che hanno tutti i requisiti di vere e proprie narrazioni di fiaba: inizi con i mestieri più diversi, scoperta, riconoscimento del ''genio'', consenso, successo. Venti anni di riviste di m. hanno usurato il modello e solo la crisi degli ultimi anni Ottanta ha permesso di capire che questa immagine non era più funzionale. Una critica netta a tal modo di proporre la m., è stata quella di Brunetta (grande disegnatrice formatasi alla lezione degli espressionisti tedeschi e all'Ecole de Paris) che per decenni, soprattutto sulle pagine de l'Espresso, ha analizzato con ironia, ma insieme con efficacia, la cultura della m. in Francia e in Italia (Quintavalle 1981).
Ulteriori sviluppi sono quelli avvenuti alla fine degli anni Ottanta. Nel maggio 1989, infatti, Ferrè, pur mantenendo il suo atelier milanese, assume a Parigi la direzione artistica della Maison Dior, per le collezioni donna. Nel contempo a Roma, dopo periodi di sempre più accentuata crisi, le sfilate sono quasi cessate, e anche quelle di Milano diminuiscono sempre più d'importanza rispetto alle presentazioni che si susseguono a Parigi e New York. La scelta di tutti i maggiori stilisti di Milano, e di Valentino a Roma, è quella di essere presenti nei luoghi degli scambi e degli incontri internazionali: Parigi, che è tornata a essere il centro della m. mondiale, ma anche New York, che sta prendendo rapidamente il sopravvento.
Va ricordato al riguardo che nel nostro paese, nel dopoguerra e per almeno una ventina di anni, le confezioni pronte, maschili e femminili, non hanno avuto grande peso, diversamente dalla Francia, dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra. A sollecitare l'attenzione del gruppo degli stilisti di Milano è l'introduzione di una m. giovane (dai jeans all'insieme degli altri elementi coordinati), che determina il crescere di catene collegate di negozi che propongono linee disegnate dalle maggiori case, ma per un grande pubblico. Nello stesso tempo si verifica un altro fatto nuovo: il diffondersi internazionale di alcune catene commerciali. Dall'Italia la catena Benetton si diffonde in quasi tutto il mondo esportando una moda giovane, che si confronta con quella prodotta dall'Inghilterra negli anni dei Beatles e imitata in tutta Europa e negli USA.
Il rapporto sempre più complesso fra progettazione e industria, insieme alla crisi dell'alta m. che si è riflessa anche nel crollo delle vendite delle riviste del settore, ha contribuito, in questi ultimi anni, a distruggere le antiche mitologie. Gli odierni stilisti, a Parigi come a New York o anche in Italia, sono ormai consapevoli dei problemi del sociale, attenti alla realtà della produzione e alle esigenze della società moderna, e soprattutto senza più interesse nei confronti di quell'antica, usurata immagine dello stilista-artista, che per almeno due generazioni è stata utilizzata.
Progetto, museo, storia. − Negli anni più recenti sta emergendo un diverso atteggiamento teorico nei confronti della m. e una diversa relazione fra m. e design. Nelle grandi strutture museali cominciano ad apparire esposizioni di m.: fatto, questo, che non è assimilabile con le tradizionali esposizioni del costume, divenute consuete fin dal 19° secolo e, ancora più, nel corso del 20°. La novità consiste nel fatto che si presentano non costumi d'epoca ma mostre di stilisti della moda. Grandi musei come il Louvre, il Metropolitan di New York, Palazzo Pitti a Firenze, anche la Pilotta a Parma espongono non una collezione ''storica'' ma la m. degli ultimi decenni, e talvolta si fanno rassegne monografiche su un singolo contemporaneo. A queste esposizioni corrisponde la crescita delle raccolte di collezioni di moda. Ve ne sono alcune di tipo tradizionale, quale quella del Musée de la mode et du costume Galliéra di Parigi, che mette insieme pezzi storici ma anche testi importantissimi dagli inizi del 20° secolo agli anni Sessanta-Settanta, passando per Coco Chanel e la cultura déco, la Delaunay e tutti gli altri. Altre, create più di recente, sono notevoli: la raccolta del Metropolitan di New York presenta migliaia di abiti, soprattutto grazie all'esperienza di D. Vreeland che ha coordinato negli USA la rivista Vogue e ha raccolto un complesso imponente, ben conservato e, per gli specialisti, facilmente consultabile. Importanti ancora le raccolte di storia del costume conservate a Londra, al Victoria and Albert Museum, e un poco ovunque nelle capitali, da Mosca a Vienna. Di minor entità le collezioni del Museo del Castello a Milano, mentre al CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) dell'università di Parma sono raccolti, oltre a centinaia di abiti, anche decine di migliaia di disegni progettuali che, per la storia degli ateliers italiani, appaiono un insieme unico.
Nell'ambito del dibattito storico sulla m. la creazione di strutture museali, la pubblicazione di cataloghi critici di rassegne non dipendenti direttamente dalla committenza mercantile e, dunque, non modellati sulla mitologia dello stilista-genio creatore, si collegano a una riflessione teorica che sembra poter portare all'elaborazione di nuovi modi di analisi. Prima di tutto, si sta costituendo una storiografia parallela, fra m. e design. Mentre nella cultura germanica il problema dell'abito, almeno a partire dal Bauhaus e quindi dalla Scuola di Ulma, non sembra interessare in modo particolare gli studiosi, in Italia, diversamente che a Parigi o a New York, il problema della m. e della sua progettazione interessa sia gli artisti sia i designers. Il mutevole rapporto fra m. e modelli culturali è stato esposto in occasioni diverse da G. Dorfles (1979, 1984) mentre A.C. Quintavalle (1982, 1985) punta sul problema della progettazione, sul nesso fra disegno e storia, sulla storiografia e i suoi problemi, e sulla riconsiderazione di singole personalità (Brunetta, Albini); a G. Bianchino (1984, 1985, 1987, 1989) si deve infine una più attenta riflessione critica sui fenomeni di m. e su temi specifici, fra cui quello del rapporto fra m. e design.
Il progetto di un design rinnovato in Italia vede come attori principali, soprattutto nel dopoguerra a Milano, alcune figure come L., A. e P.G. Castiglioni, e come B. Munari, legate direttamente all'invenzione dell'arte e alla cultura delle avanguardie. A. Castiglioni (n. 1918) muove dalla cultura dada e attraverso di essa, e le scomposizioni delle forme, riorganizza, ripensa la costruzione degli oggetti, che diventano così assemblaggi ironici di frammenti. B. Munari (n. 1907) è invece legato direttamente alla riflessione astratta degli anni Trenta e la confronta con la ricerca sulle textures della psicologia della ''forma'' e della ricerca optical sull'astrazione. Storia del design e della m. sono collegate non semplicemente da comuni esperienze artistiche ma dall'interazione tra personaggi attivi sulla stessa scena. Oltre a L. Fontana, si dovrebbero citare i ''nucleari'' e molti altri ''stilisti'' che si servono degli artisti per le loro invenzioni, da M. Schön (n. 1919) ai produttori di stoffe. Questi scambi non sono che un aspetto, tutto sommato marginale, di quanto invece accade a Milano e non altrove, per es. nella Parigi degli anni Venti-Trenta o in quella degli anni Cinquanta. Non importa che qualche stilista si serva del disegno di pittori o scultori per le proprie stoffe: il momento reale della trasformazione non può essere solo a questo livello, vi dev'essere una fase più complessa.
Nella cultura del dopoguerra a Milano emergono a tal proposito tendenze diverse sulla produzione industriale, una delle quali, per alcuni lustri, sembra essere prevalente, quella che vede in E. Rogers (n. 1946) il teorico di una continuità fra progettazione degli oggetti, delle strutture architettoniche e della città. È dunque in questa ricerca che ritroviamo le radici più prossime della continuità tra progetto di design e di quello degli abiti, anche se per quest'ultimo aspetto Rogers non si pronuncia esplicitamente.
Altri importanti teorici, in questi anni, puntano sul rapporto fra architettura, urbanistica e territorio, ponendo in subordine il problema del design che, spesso, viene letto in termini negativi, come fuga da una rivoluzione globale, proprio in quanto introduce modifiche secondarie a oggetti marginali, un genere di progettazione che, come quello Bauhaus, è per antonomasia riformista (Argan 1951, Quintavalle 1983). La progettazione e i suoi teorici stranieri non portano neppure loro grandi contributi al problema. La questione del design degli abiti, che tanto aveva stimolato i dibattiti agli inizi del 20° secolo (e che era stata considerata anche da F.L. Wright), dopo W. Gropius diventa un fatto marginale. Lo è ancora per M. van der Rohe e per la riflessione sull'architettura di molti paesi salvo, come si è visto, che nell'area del Costruttivismo sovietico, ma per un breve periodo. Quanto a Le Corbusier, egli mostra attenzione, per la riprogettazione delle funzioni e l'invenzione del modulor alle tradizioni formali postcubiste di Léger. Il moderno dibattito sul problema dell'abito sembra non possa legittimamente trovare spazio a livello di progettazione ''alta'', come quella architettonica, rimanendo confinato in ambiti minori, o ritenuti tali, come appunto quelli del design.
Un netto mutamento delle prospettive si ha con la nuova riflessione di A. Mendini e di E. Sottsass jr., che puntano prima di tutto su un recupero della cultura degli oggetti senza gerarchie preordinate, escludendo la mitologia del rapporto forma-funzione elaborata dal Bauhaus e tramontata insieme con l'architettura del Movimento Moderno. Progettare vuol dire evocare, recuperare un mondo di materiali e di forme spesso escluse o dimenticate, aggregare tenendo conto dei riflessi della memoria e degli intrecci degli eventi dell'esistenza: progettare insomma somiglia più ai Merzbau di K. Schwitters e alla cultura dada che disegnare accademicamente per la produzione di massa. Progettare vuole dire tuttavia uscire anche dai limiti stretti della produzione degli oggetti d'uso ed estendere l'ambito dell'attenzione critica a un'immagine globale, al rapporto con l'ambiente, anche quello storico, che è memoria del passato. Non si tratta di una rivoluzione formale: non a caso proprio a Milano alcuni progettisti di m. pronta, a cominciare da F. Moschino (n. 1950) utilizzano la cultura dadaista come punto di riferimento, e dunque come modello, per combinare insieme, unendo progetto di design e m., frammenti di oggetti, tracce che alludano e che siano cariche di storia.
Negli anni Settanta la progettazione di design vede profonde rivoluzioni, che coincidono con gli anni dell'imponente crescita dapprima dell'industria milanese del prêt-à-porter, seguita poi da quella dell'alta moda. La relazione fra designers e progettisti di m. appare evidente nella volontà di produrre funzioni piuttosto che oggetti, di organizzare rapporti piuttosto che il bell'arredo, il bell'abito. Se si analizzano le posizioni degli stilisti più consapevoli, non coinvolti nella mitologia dell'arte, come G. Armani o i Missoni, si scopre che il problema dell'abito e della m. vestiaria in genere, per loro, è una questione di contesto, di uso, di design.
La m., nella cultura di oggi, ha assunto una parte molto più significativa di un tempo. Lo indicano segnali diversi e solo in apparenza contrapposti: l'attenzione dell'industria della m. per il problema della produzione di piccola serie, per la confezione di abiti che, attraverso varianti, siano sempre personalizzati; l'integrazione negli ateliers di progettisti architetti e progettisti designers; la riflessione critica anche di studiosi della storia dell'arte e di storici dell'estetica sul fenomeno della m.; la ripresa di un collezionismo degli abiti che integra sia le esperienze delle avanguardie e quelle della m. portata, sia le raccolte di costume teatrale e quelle della progettazione artistica più elitaria; la nuova attenzione alla progettazione dell'abito e la distinzione fra progetto e figurino di m. che, in termini di architettura, equivale a distinguere fra progetto originale e prospettiva, cioè veduta disegnata in modo ''funzionale'' per il cliente.
A ciò deve aggiungersi la nuova attenzione della ricerca antropologica e psicoanalitica per la moda. Forse è proprio grazie a queste tradizioni di studi − che hanno trovato, la prima particolare sviluppo in Francia, la seconda, dopo la Vienna di Freud e la Zurigo di Jung, un poco ovunque nel mondo − che l'abito non appare più come una semplice appendice, come un fatto marginale. Nella moderna ricerca antropologica, l'abito è studiato oggi così come il tatuaggio è studiato in quanto sistema rituale nelle culture primitive (Quintavalle 1972). Il problema del rapporto interpersonale e quindi la simbologia ''analitica'' della m. è ormai un topos di molte ricerche specializzate.
È grazie al convergere di tutti questi fattori che il fenomeno della m. appare oggi in una prospettiva del tutto diversa da quella, un po' limitata e limitante, delle sfilate delle mannequins. Vedi tav. f.t.
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Industria dell'abbigliamento e della moda. - Il settore tessile-abbigliamento nel mondo. − Nel corso degli anni Sessanta il settore tessile-abbigliamento, che fino a quel momento aveva rappresentato una quota consistente della produzione industriale di molti paesi europei, subì una fase di arresto. Le industrie dei paesi avanzati dovettero infatti affrontare la crescente aggressività dei paesi in via di sviluppo in questo settore. In quegli anni il tessile-abbigliamento iniziò a essere considerato un settore maturo, fondamentale nella fase di prima industrializzazione ma destinato a perdere d'importanza via via che lo sviluppo economico procedeva. L'incidenza dell'occupazione nel settore sul totale dell'industria manifatturiera tendeva infatti a diminuire nei paesi sviluppati, mentre rimaneva estremamente elevata nei paesi in via d'industrializzazione.
Le limitate possibilità di espansione della domanda mondiale di prodotti dell'abbigliamento, che secondo la ''legge di Engel'' tende a crescere meno di quanto cresce il reddito, e inoltre un'evoluzione tecnologica particolarmente lenta, portarono a credere che l'industria tessile fosse poco adatta alle realtà estremamente dinamiche dei paesi avanzati. Si diffuse l'opinione che il fattore cruciale di competitività fosse sostanzialmente il costo del lavoro e quindi i nuovi paesi in via d'industrializzazione fossero i più adatti a specializzarsi nel settore.
Un'analisi della situazione del settore tessile-abbigliamento mondiale negli anni Settanta e Ottanta dimostra come le previsioni degli anni Sessanta si siano solo in parte avverate. È senz'altro vero che il mercato tessile fu negli anni Settanta il primo o principale mercato mondiale nel quale si fece sentire in modo considerevole la presenza dei NICs (Newly Industrializing Countries); tuttavia nello stesso periodo si verificò una forte ondata di innovazioni tecnologiche specifiche quali l'introduzione dei telai senza navetta e la massiccia diffusione delle fibre chimiche. L'intensificarsi delle innovazioni permise ai paesi sviluppati di mantenere la propria supremazia nel settore tessile, mentre il settore abbigliamento, decisamente più labour-intensive, subì effettivamente un forte arresto in quasi tutti i paesi avanzati. Inoltre, la dinamica della domanda cominciò a manifestare caratteristiche diverse da quelle previste dalla ''legge di Engel'': il consumo di abbigliamento nelle economie avanzate divenne un fatto propriamente di m., cioè culturale e di status sociale, e s'iniziò a registrare una relazione diretta tra livello di ricchezza e quota di consumo destinata all'abbigliamento.
L'impatto della crisi fu nettamente diverso nelle principali economie avanzate: a paesi come la Gran Bretagna e la Danimarca, che subirono un vero e proprio crollo tanto nel settore dell'abbigliamento che nel comparto tessile, fecero riscontro risposte nazionali più equilibrate, che riuscirono a compensare i deficit del comparto abbigliamento con modesti attivi nell'interscambio tessile (Stati Uniti, Germania, Giappone). L'Italia, unica tra i paesi avanzati, riuscì a mantenersi competitiva sul mercato mondiale sia nel settore tessile che in quello dell'abbigliamento. Le strategie di risposta alla crisi adottate dai paesi produttori di tessile-abbigliamento furono perciò estremamente diverse; nel caso tedesco, per es., l'introduzione di innovazioni tecnologiche e la rilocalizzazione delle fasi del ciclo produttivo più altamente labour-intensive verso paesi caratterizzati da un basso costo del lavoro, hanno condotto a un'intensa riorganizzazione del settore. Il risultato è stato un'industria decisamente ridimensionata ma rafforzata sotto il profilo competitivo e tecnologico, fortemente proiettata verso l'esterno e integrata a monte con un'industria del macchinario tessile molto dinamica. Nel caso italiano vedremo in seguito come una serie di fattori, tra i quali il rinnovamento tecnologico e organizzativo oltre a un forte impegno in termini di rafforzamento dell'immagine del made in Italy, hanno permesso al nostro paese di mantenere una posizione di leadership nel mercato mondiale. In sintesi le difficoltà degli anni Settanta non rappresentarono la dimostrazione di un'organica impossibilità di sopravvivenza del settore tessile-abbigliamento nei paesi avanzati, ma piuttosto fecero emergere le linee di un nuovo e più complesso modello di gestione.
Negli anni Ottanta e i primi anni Novanta il panorama mondiale, risultato dalla crisi degli anni Settanta, vede perciò tra i produttori leader sia paesi industrialmente avanzati sia alcuni paesi di nuova industrializzazione. Tra i paesi sviluppati, Germania, Giappone e Italia sono tra i maggiori esportatori mondiali di prodotti tessili, mentre solo l'Italia mantiene una posizione di leadership anche nel campo dell'abbigliamento. In particolare, la Germania è il maggiore esportatore mondiale di prodotti tessili (12% dell'export mondiale), mentre l'Italia è in principale esportatore di tessile-abbigliamento del mondo industrializzato, con il 10% del mercato mondiale.
Tra i paesi di nuova industrializzazione, Hong Kong, la Corea del Sud e Taiwan hanno raggiunto i vertici del mercato mondiale sia nel settore tessile che nell'abbigliamento (23% del mercato mondiale); in quest'ultimo settore anche la Turchia ha accresciuto notevolmente le sue esportazioni, passando dallo 0,1% del mercato mondiale agli inizi degli anni Ottanta al 3% alla fine del decennio.
Negli anni più recenti l'ascesa dei NICs nel settore sembra tuttavia essere contrastata dalla concorrenza di nuovi paesi emergenti. Un paese che sta assumendo un ruolo sempre più rilevante è la Cina, che ha in questo campo delle enormi potenzialità di espansione. Altri paesi che stanno crescendo d'importanza nel mercato mondiale sono l'India, la Malaysia, l'Indonesia, la Thailandia e, in Africa, la Tunisia e l'Egitto. Per tutti questi paesi il vantaggio competitivo sta essenzialmente nel basso costo del lavoro e di conseguenza i NICs reagiscono con una strategia molto simile a quella precedentemente adottata dai paesi avanzati per sostenere la loro stessa concorrenza negli anni Settanta e Ottanta: rilocalizzazione delle fasi produttive più labour-intensive, rinnovamento tecnologico e miglioramento della qualità dei prodotti.
L'immagine del settore che deriva dall'analisi della sua evoluzione negli ultimi 30 anni è quindi quella di un settore estremamente dinamico, in cui le strategie di rinnovamento tecnologico e organizzativo hanno un ruolo fondamentale, caratterizzato da un mercato mondiale in crescita e fortemente competitivo. Un'immagine perciò molto diversa da quella comunemente diffusa in tempi non molto lontani, secondo la quale il settore tessile poteva essere considerato in declino, tecnologicamente poco innovativo, destinato a trasferirsi interamente nei paesi in via di sviluppo.
Il settore tessile-abbigliamento in Italia. − L'industria del tessile e abbigliamento è senz'altro uno dei punti di forza della specializzazione italiana, il suo successo è stato ottenuto attraverso profondi cambiamenti nella struttura del settore e nelle strategie delle imprese, che hanno permesso di superare le difficoltà degli anni Settanta.
Volendo brevemente ripercorrere la storia più recente di questo settore, si vede come esso si sviluppi in Italia negli anni Cinquanta, basandosi su solide capacità artigianali, su una tradizione di grande creatività e su un vasto mercato del lavoro femminile da cui attingere manodopera a basso costo. Negli anni Sessanta consulenti stranieri introducono criteri d'industrializzazione che trasformano i laboratori in industrie. In questo periodo nascono i grandi colossi dell'abbigliamento, come il Gruppo Finanziario Tessile, la Marzotto, la Lebole. Agli inizi degli anni Settanta si sviluppano forme di decentramento e il settore viene a essere caratterizzato da alcune grandi imprese e da un numero elevatissimo di piccole e medie imprese. Negli ultimi anni, la strategia imprenditoriale italiana di ''adattamento-resistenza'' alla penetrazione dei paesi in via di sviluppo si è incentrata sull'innovazione tecnologica e organizzativa, e sull'estensione del ciclo produttivo alle fasi più vicine al prodotto finale e quindi a più alto valore aggiunto. Nell'abbigliamento si è puntato soprattutto sull'innovazione di prodotto, sulla qualità, sull'immagine e sulle politiche di commercializzazione. La capacità tecnologica e la conservazione di tutte le fasi del ciclo, anche di quelle meno nobili, unite alla creatività e all'imprenditorialità di alcune realtà locali hanno costituito la base di partenza per il successo dell'industria tessile italiana.
All'inizio degli anni Novanta, il tessile-abbigliamento è senz'altro uno dei più importanti settori industriali in Italia, con un fatturato che si avvicina al 14% del totale dell'industria manifatturiera; e la quota dell'abbigliamento sul totale del settore si aggira attorno al 28% del fatturato e al 30% delle esportazioni. Il settore appare caratterizzato da una prevalenza di imprese di piccola e media dimensione, con alcune importanti eccezioni (il Gruppo Finanziario Tessile, il Gruppo Tessile Miroglio, la Marzotto, la Benetton, la Lebole). Sembra inoltre ancora in atto la tendenza al decentramento produttivo, dimostrata dal notevole e crescente peso delle lavorazioni per conto terzi sul fatturato.
Per quanto riguarda la concentrazione territoriale, sia il tessile che, in misura minore, l'abbigliamento restano piuttosto concentrati dal punto di vista geografico. In cinque regioni tradizionalmente forti − Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana − si concentrano, secondo il censimento dell'industria del 1981, l'85% degli addetti tessili e il 65% di quelli dell'abbigliamento.
L'occupazione ha avuto un andamento decrescente durante gli anni Settanta e Ottanta, peraltro in linea con gli altri paesi CEE: il numero degli occupati è passato da 870.900 nel 1970 a 770.000 nel 1991. All'interno di questa tendenza alla decrescita dell'occupazione è stata riscontrata in Italia una crescita delle imprese di piccole dimensioni, mentre all'estero si è verificato il fenomeno opposto.
I dati sul valore aggiunto indicano una crescita negli anni Settanta e un rallentamento negli anni Ottanta, con un'accelerazione negli anni più recenti. In particolare, il valore aggiunto al costo dei fattori (prezzi correnti) è cresciuto da 2267 miliardi di lire nel 1970 a 38.352 miliardi nel 1991. La crescita del valore aggiunto, associata alla diminuzione dell'occupazione, ha condotto a un aumento della produttività del lavoro. Inoltre, la crescita del fatturato in termini reali è risultata superiore a quella della produzione in quantità, indice di un fenomeno di miglioramento qualitativo in atto che porta le imprese italiane a enfatizzare i fattori di competitività diversi dal prezzo.
Tutti gli indicatori considerati sembrano perciò concordare sulla buona performance del settore tessile-abbigliamento italiano negli ultimi 20 anni e quindi affermare il successo della strategia di rinnovamento adottata dalla nostra industria.
La strategia di rinnovamento dell'industria italiana. − Il settore tessile-abbigliamento è caratterizzato da fluttuazioni cicliche considerevoli e imprevedibili e da un elevato grado d'incertezza, dovuti alla variabilità della domanda e alla complessità delle relazioni tra produzione, distribuzione e consumo. La produzione è poco standardizzata, data la varietà delle fibre naturali e sintetiche disponibili e dei prodotti finali; il ciclo produttivo, d'altro canto, è estremamente lungo e fortemente frammentato in numerose fasi di produzioni sequenziali e tecnologicamente separabili fra loro. La divisibilità del ciclo favorisce la proliferazione di numerose piccole imprese monofase che caratterizzano i contesti produttivi delle aree a specializzazione tessile. La lunghezza del ciclo e la partecipazione di numerosi operatori con obiettivi economici diversi sono fattori di grande instabilità nel settore. La turbolenza ambientale è poi accresciuta dall'elevata elasticità del prodotto al prezzo e dal fatto che il comportamento del consumatore è influenzato da fatti esogeni di tipo socio-culturale. All'interno di questa realtà la strategia di rinnovamento dell'industria italiana si è basata principalmente sull'introduzione di innovazioni tecnologiche nei processi produttivi, su innovazioni organizzative e su un approccio fortemente market-oriented dal punto di vista del prodotto.
Per quanto riguarda il ruolo della tecnologia, dal 1950 a oggi l'industria tessile è stata attraversata da due importanti ondate di mutamento tecnologico: negli anni Cinquanta e Sessanta sono state introdotte innovazioni rilevanti nel campo delle fibre chimiche, mentre negli anni Settanta le innovazioni sono avvenute soprattutto in campo elettronico. Le tecnologie elettroniche si adattano effettivamente molto bene alla variabilità e differenziazione interna del settore tessile. Nelle imprese italiane più avanzate l'introduzione delle tecnologie elettroniche interessa in modo più o meno consistente ogni fase del ciclo produttivo. Tra le tecnologie più consolidate rientrano sicuramente i sistemi CAD (Computer Aided Design), CAD-CAM (Computer Aided Manufacturing), i robot e la gestione automatica di magazzino (tab. 1).
L'introduzione di queste innovazioni ha permesso alle imprese che le hanno adottate di ottenere un incremento della flessibilità produttiva, della capacità di passare rapidamente da un prodotto all'altro e di trattare lotti di produzione molto ridotti; una riduzione dei costi di produzione e infine una maggiore e più completa conoscenza dell'andamento del ciclo produttivo. Le nuove tecnologie dell'informazione assumono un ruolo centrale anche nell'attività di gestione delle imprese e nell'integrazione di queste con i propri fornitori e con il mercato. Alcune grandi imprese italiane (Benetton, Gruppo Finanziario Tessile, Gruppo Tessile Miroglio) e alcuni distretti industriali specializzati nella produzione di tessile-abbigliamento (Prato, Como) hanno adottato delle reti telematiche che permettono un immediato collegamento tra le diverse unità di produzione e tra queste e il mercato.
Dal punto di vista organizzativo, negli anni Settanta la crisi della grande impresa ha spinto il settore verso forme di decentramento produttivo. Questo fenomeno ha favorito lo sviluppo di distretti industriali come Prato e Biella per la lana, Como per la seta e Carpi per la maglieria. I fattori che hanno favorito l'affermazione di soluzioni organizzative vicine al mercato sono i differenziali di costo correlati alle dimensioni aziendali, la flessibilità delle strutture d'impresa, la divisione del lavoro fra imprese secondo criteri di specializzazione per fasi e per prodotto e, infine, lo sviluppo di economie esterne e di agglomerazione legate alla concentrazione localizzativa.
Il caso di Prato è da questo punto di vista assai emblematico: una strategia di disintegrazione verticale dell'industria della lana è stata infatti adottata spontaneamente nell'area, all'insorgere di una profonda crisi dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta. Il modello verticalmente integrato, che fino ad allora aveva caratterizzato il comportamento produttivo, è stato sostituito da un insieme di imprese di piccola e media dimensione, specializzate in fasi specifiche del ciclo produttivo. Il sistema economico del distretto industriale pratese è organizzato attorno alla figura degli impannatori, intermediari commerciali che svolgono un ruolo di connessione tra il mercato e le imprese di produzione, in quanto vendono il tessuto e ne organizzano anche la produzione, utilizzando le capacità produttive e le specializzazioni delle imprese terziste e degli artigiani. Intorno al sistema produttivo vero e proprio si trovano le banche, le assicurazioni, gli spedizionieri, i trasportatori, i rappresentanti, i fornitori, la dogana, l'Unione industriale e le Associazioni artigiane.
Dopo la tendenza all'integrazione verticale degli anni Sessanta e quella alla disintegrazione degli anni Settanta, attualmente si sta realizzando una sempre maggiore diffusione di forme intermedie di accordo che costituiscono un continuum di organizzazioni alternative tra il mercato e l'impresa verticalmente integrata (tab. 2). Sempre più numerose sono infatti, per es., le joint ventures tra imprese di confezioni e grandi creatori di m. in cui i servizi creativi forniti dagli stilisti e la possibilità di usare un nome conosciuto per i prodotti si associano alle capacità produttive e alla disponibilità di una rete commerciale delle imprese confezioniste. Altri casi di accordi tra imprese sono quelli di partecipazione finanziaria di un partner dominante all'acquisto di tecnologia da parte di imprese sub-contraenti, con l'obiettivo di garantire un adeguamento della qualità del prodotto e dei livelli di produttività a quelli dell'impresa principale.
Inoltre vi sono vere e proprie forme di controllo dell'impresa dominante sui partners, gli accordi cioè di produzione per conto terzi. Esistono vari tipi di contratti di sub-fornitura: talvolta sono fornite solamente le specifiche di produzione, talaltra vengono dati i modelli da realizzare e in alcuni casi sono fornite anche le materie prime. I vantaggi che derivano per il cliente da accordi di questo tipo sono la stabilità dei rapporti, il basso rischio di violazione degli accordi e la flessibilità della relazione con il sub-contraente. Per quest'ultimo i vantaggi sono la possibilità di sfruttare economie di scala, di ridurre i costi amministrativi, di marketing e del lavoro, oltre i vantaggi di specializzazione derivanti dalla divisione del lavoro.
La tendenza in atto nel settore è quindi verso queste forme intermedie di organizzazione che favoriscono lo sviluppo di sinergie e complementarietà tra le imprese. Tuttavia si sta verificando anche una tendenza verso la centralizzazione del processo decisionale riguardo agli aspetti strategici, quali le politiche commerciali, la pianificazione, la progettazione dei prodotti e l'adozione di innovazioni tecnologiche. Tale fenomeno è reso possibile dalla qualità e quantità di informazioni accessibili alle funzioni gerarchiche più elevate, grazie all'adozione di tecnologie informatiche. Per il futuro sembra perciò possibile immaginare una tendenza verso l'integrazione verticale per quanto riguarda le funzioni strategiche e di controllo, e contemporaneamente una sempre maggiore diffusione di forme intermedie di quasi-organizzazione per quanto riguarda il ricorso a servizi e a produzioni esterne.
Accanto all'innovazione tecnologica e a quella organizzativa, un ruolo estremamente importante nella strategia di rinnovamento dell'industria tessile-abbigliamento italiana è stato svolto dalle innovazioni di prodotto e delle politiche di commercializzazione.
Per ciò che concerne la qualità del prodotto, l'introduzione di tecnologie informatiche ha consentito notevoli progressi in termini sia di omogeneità che di varietà. Una più elevata omogeneità delle caratteristiche dei prodotti è garantita dai sofisticati sistemi per il controllo di qualità e dall'automazione di fasi di produzione quali la tintura e la stampa, il taglio e il cucito. La maggiore varietà dei disegni e delle composizioni cromatiche dei tessuti, nonché dei modelli dei capi confezionati, è invece la conseguenza dell'introduzione di sistemi come il CAD e il CAD-CAM, che consentono una maggiore creatività e permettono di produrre un campionario più ampio, a costi contenuti.
Notevoli miglioramenti sono intervenuti anche in termini di qualità del servizio grazie alla più ampia disponibilità di informazioni sul mercato che ha reso possibile l'offerta di prodotti maggiormente rispondenti ai gusti del consumatore. L'industria infatti sempre più si adatta alla domanda, che peraltro tende a essere sempre più fashion-oriented, ovvero sempre meno interessata a prodotti di lunga durata, ma piuttosto a prodotti di media qualità, d'immagine e non troppo costosi in modo da poter essere sostituiti in conseguenza del rapido mutare della moda.
Le imprese italiane hanno saputo inoltre sfruttare uno degli aspetti a cui più è legata la fama del made in Italy: l'alta moda. Attraverso accordi di vario tipo con i grandi creatori di m., alcune imprese di confezione hanno lanciato collezioni ''firmate'' ma accessibili al grande pubblico. Sono state così create una serie di nuove linee che uniscono al nome di stilisti di prestigio e al modello originale un prezzo abbastanza contenuto, alla portata del consumatore medio.
Infine, per quanto riguarda la commercializzazione, una distribuzione più capillare e un servizio di qualità uniforme sono garantiti da nuove forme di accordo commerciale adottate soprattutto dalle imprese di confezioni, quali per es. il franchising. La formula del franchising, senz'altro una delle strategie vincenti della Benetton, permette infatti alle imprese la costruzione a basso costo di una rete commerciale molto estesa, omogenea in termini di immagine.
In conclusione, il successo del settore tessile-abbigliamento italiano sembra attribuibile a una strategia di rinnovamento basata su una felice sintesi tra tecnologia e creatività della m., sulla flessibilità come criterio cardine dell'organizzazione e su una politica di specializzazione nelle produzioni di qualità.
Prospettive e tendenze. − La buona performance dell'industria tessile-abbigliamento italiana dipende fortemente dalla sua capacità di penetrazione sui mercati esteri. Le esportazioni rappresentano un terzo del fatturato totale e di esse il 32% è rappresentato da prodotti di maglieria, il 27% da abbigliamento, il 24% da tessuti, l'11% da filati e il rimanente 6% da tessuti per l'arredamento e da altri prodotti tessili. Per quanto riguarda la destinazione delle nostre esportazioni, circa il 60% è diretto verso paesi della CEE e in particolare verso la Germania (26%) e la Francia (13%); verso gli Stati Uniti si dirige il 13% delle esportazioni mentre verso il Giappone il 5%.
Il principale mercato italiano è rappresentato perciò dall'Europa, anche se quello giapponese è certamente un mercato in forte crescita, con notevoli possibilità di espansione. La tenuta dell'industria italiana nel mercato europeo è stata facilitata dalla concentrazione delle esportazioni asiatiche sul mercato statunitense, specie nel caso dell'abbigliamento (l'80% delle importazioni USA di abbigliamento proviene dai paesi in via di sviluppo). L'Europa è rimasta relativamente al riparo dall'invasione dei prodotti asiatici, presumibilmente perché è un mercato (anzi un insieme di mercati assai diversi) difficile per gusti del consumatore, per caratteristiche organizzative e perché le valute europee non si sono apprezzate nei confronti delle divise dei paesi in via di sviluppo nella stessa misura del dollaro.
La posizione di leadership italiana nel mercato europeo non sembra perciò essere in pericolo, almeno nel breve periodo. Tuttavia, è necessario segnalare alcuni elementi di cautela. In primo luogo, la probabile abolizione nel prossimo futuro dell'accordo Multifibre che finora aveva fornito al mercato tessile un ombrello protettivo capace di contenere o graduare la penetrazione delle importazioni a basso costo. La recente trattativa per l'estensione del GATT ai prodotti tessili fa prevedere nei prossimi anni un aumento della competizione. Inoltre, dal fronte dei paesi emergenti si enucleano economie industriali di livello tecnologico comparabile a quello dei paesi europei. Paesi come la Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan stanno iniziando a investire su fattori strategici come la tecnologia, il design e il decentramento, proprio come hanno fatto i paesi europei negli anni Settanta. Questo significa che anche con questi paesi la competizione avverrà sempre più su fattori diversi dal prezzo, cioè esattamente sui fattori di maggiore forza dell'industria italiana, quali la qualità e la varietà del prodotto, l'immagine e la capillarità della distribuzione.
L'industria italiana deve quindi concentrarsi al fine di rafforzare ulteriormente i suoi punti di forza, in modo da poter sostenere l'aumento della competizione che è possibile prevedere nel mercato mondiale. In primo luogo, è importante che essa riesca a conservare una posizione di leadership a livello mondiale in tutta la filiera tessile-abbigliamento. Il mantenimento di tutte le fasi del ciclo di produzione rappresenta infatti un importante fattore strategico per l'industria italiana che può inoltre disporre di un avanzato settore meccano-tessile in grado di soddisfare le sue esigenze tecnologiche e di uno sviluppato settore di servizi di commercializzazione e d'informazione che facilita il collegamento con il mercato. La buona performance della filiera dipende quindi fortemente dalla sopravvivenza di tutti gli elementi che la compongono. In secondo luogo, l'industria italiana deve impegnarsi con ogni mezzo nella sfida tecnologica con i nuovi paesi in via d'industrializzazione che, come abbiamo visto, stanno investendo molto in questa direzione. A questo riguardo è importante sottolineare che spesso le piccole e medie imprese sono poco disponibili a investire in innovazioni tecnologiche sempre più complesse e costose; l'industria italiana, che è dominata da imprese di piccola dimensione, deve perciò essere molto attenta a non trascurare gli aspetti di rinnovamento tecnologico. Le forme organizzative intermedie, quali gli accordi tra imprese per sviluppare tecnologie in comune o gli accordi con i produttori di tecnologie, sembrano perciò le soluzioni da incoraggiare per stimolare l'attività innovativa anche tra le imprese di dimensione minore.
In conclusione, il modello tradizionale della grande impresa verticalmente integrata e della piccola impresa autonoma, specializzata in una fase del ciclo, deve essere gradualmente sostituito da un nuovo tipo di impresa a rete, in cui vi è una centralizzazione del sistema decisionale strategico ma anche una forte integrazione con l'ambiente esterno, e da un nuovo tipo di piccola impresa inserita in un sistema di rete locale per poter sfruttare al massimo i vantaggi e le sinergie che derivano dall'esistenza di una filiera così complessa e sviluppata, qual è quella italiana.
Bibl.: S. Mariotti, Efficienza e struttura economica: il caso tessile-abbigliamento, Milano 1982; K. Hoffman, Clothing, chips and competitive advantage: the impact of microelectronics on trade and production in the garment industry, in World Development, 13, 3 (1985), pp. 371-92; R. Camagni, R. Rabellotti, Informatica e innovazione: il caso del settore tessile-abbigliamento, in Quaderni di informatica, 3 (1988), pp. 5-14; Istituto per la ricerca sociale-federtessile, Rapporto sul settore tessile-abbigliamento in Italia, quad. 1, Milano 1989; Economist Intelligence Unit, Textile outlook, Londra, anni diversi.