Moda
di Umberto Galimberti
Il simbolismo dell'abbigliamento
In una pagina delle Vorlesungen über die Ästhetik dedicata all'abbigliamento G.W.F. Hegel scrive che "vestire non è altro che un ricoprire", ricoprire la materialità del corpo, che, "in quanto semplicemente sensibile", è senza significato, perché ogni significato è raccolto nella libertà dello spirito, tanto più espressivo quanto più dimentico della "vergogna del corpo" (1836-1838; trad. it. 1963, pp. 982-83). Il corpo è un retaggio vergognoso quando il suo rapporto con il mondo si riduce all'inerzia della carne, in cui Hegel sembra risolvere ogni vicenda corporea. Ma, nonostante gli sforzi riduttivi di Hegel, le cose non stanno così. Il corpo, infatti, rappresenta il mondo non nascondendosi nelle vesti, ma esponendosi con una varietà di vesti che riproducono la varietà degli aspetti del mondo, per cui, più congruo diventa l'adeguamento, più chiara la corrispondenza corpo-mondo. Il sistema delle vesti, allora, assicura sì "il passaggio dal sensibile al senso" come vuole Hegel, ma non nascondendo il sensibile per liberare sensi spirituali, bensì esponendo il sensibile per sprigionare le sue possibilità simbolicamente diffuse dalle vesti, le quali, adeguando l'identità corporea alla varietà degli aspetti mondani, sono uno dei più interessanti veicoli in cui il corpo manifesta la sua intenzionalità nel mondo e per il mondo.
Ogni variazione delle vesti del corpo rinvia infatti a una variazione del mondo: quando 'l'accessorio fa primavera' o 'un mantello è indicato per la mezza stagione', quando 'di sera ci vuole l'abito scuro' o 'di pomeriggio può andare quello sportivo', quando 'certe scarpe sono ideali per camminare' mentre altre si impongono 'se la situazione esige eleganza', quando 'il collo aperto è giovanile' mentre 'la gonna pieghettata' entra in un rapporto di equivalenza con 'l'età delle signore mature', noi assistiamo, prima che a un gioco della m., a un costante rapporto tra il segno vestimentario e il mondo significato da quel segno, per cui, facendo variare l'indumento, il corpo che lo indossa fa variare il mondo. La m. si inserisce nel fissare e nel variare, dopo un certo periodo, quelle equivalenze per cui: l'accessorio sta per primavera, il mantello sta per mezza stagione, il collo aperto sta per giovanile; ma le equivalenze preesistono alla fissazione o alla variazione del potere della m., perché sono l'espressione di quell'originario rapporto del corpo con il mondo che ha nel segno vestimentario qualcosa di analogo a una cosmogonia. Le vesti, infatti, significano il mondo, la sua storia, la sua geografia, la sua natura, la sua arte.
Nella preistoria l'abbigliamento era uniforme perché il mondo non era differenziato; una pelle d'animale serviva per tutte le situazioni e per tutte le circostanze. La metamorfosi comincia quando il valore protettivo delle vesti cede il posto a quello simbolico distintivo. A questo proposito già H. Spencer (The study of sociology, 1873; trad. it. Introduzione alla scienza sociale, 1946) aveva riconosciuto il ruolo importante rappresentato dal trofeo, per cui chi uccideva il suo nemico gli tagliava certe parti del corpo e se le appendeva al collo per far sapere a tutti che era lui il vincitore. In questo modo egli prolungava nel tempo l'impresa di un giorno, e così otteneva i primi gradi di distinzione e di riconoscimento sociale.
I valori biologici ed etnici dell'abbigliamento
Per quanto arbitrari e artificiali possano sembrare i segni vestimentari, essi sono uno dei tratti biologici della specie umana con profondi legami con il mondo zoologico. Tutto quello che riguarda l'aggressività e la riproduzione, nonostante l'apparato delle morali, resta con molta naturalezza vicino alle origini; e se si vuole cercare una discontinuità, la si trova solo nella capacità che ha l'uomo di accumulare simboli di terrore e di seduzione, di introdurre nell'arte di uccidere e nell'arte di amare, che costituiscono i cardini della storia, una raffinatezza simbolica che è propria della nostra specie. La guerra, la conquista di una posizione gerarchica e l'amore, condizionano l'abbigliamento di tutti i popoli.
Alla valenza biologica del segno vestimentario si deve aggiungere il valore etnico che, nella foggia del vestito sancisce l'appartenenza a un gruppo. Scegliere di vestirsi all'europea, per es., è da un secolo il segno dell'avvio verso una civiltà considerata egemone, il simbolo dell'assimilazione della personalità sociale idealmente umana. L'evoluzione tecnico-economica della civiltà industriale ha notevolmente modificato il sistema tradizionale dei simboli, e di conseguenza, con l'aumento della permeabilità sociale, accompagnata dall'evoluzione ideologica diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, sono diminuiti i modelli etnici. La simbologia europea, infatti, ha sostituito un po' ovunque il tipo di abbigliamento regionale, provocando una sorta di disintegrazione etnica, che ha portato con sé la perdita di quei legami con la struttura di un gruppo all'interno del quale l'individuo era integrato.
Il vivere nell'uniforme umana standardizzata fa pensare a una larga intercambiabilità degli individui come elementi di un macro-organismo universale, all'acquisizione di una coscienza planetaria con la conseguente perdita dell'indipendenza relativa della personalità etnica, alla riduzione dell'umanità a un solo tipo d'uomo adatto in maniera ideale alla sua funzione unica di cellula produttrice. Per A. Leroi-Gourhan questo progressivo uniformarsi dell'abbigliamento conferma quel processo di esteriorizzazione del corpo per cui: "L'uomo non interpreta più attivamente la parte di protagonista della propria avventura etnica, ma guarda recitare alcuni rappresentanti convenzionali per soddisfare il suo bisogno naturale d'appartenenza" (Le geste et la parole, 2° vol., La mémoire et les rythmes, 1965; trad. it. 1977, p. 410).
La valenza sociale dell'abbigliamento
Alla riduzione della valenza biologica ed etnica del segno vestimentario fa riscontro un incremento della sua valenza sociale, che fa dell'indumento l'espressione di una funzione oppure l'asserzione di un valore che rinviano al mondo istituzionalizzato in cui l'individuo è inserito. È l'omaggio che un sistema dell'essere, sempre più in estinzione, porge a un sistema del fare, che si espande man mano che si passa da uno stadio di natura a uno di cultura, e che il corpo interpreta rovesciando il suo significato nelle vesti che lo ricoprono e lo espongono.
Si assiste così alla trasformazione dell'ordine vestimentario in un sistema rigoroso di segni, i quali sanciscono quella gerarchia sociale che il corpo nudo non potrebbe esprimere. L'uniforme, per es., manifesta il senso del comportamento 'uniforme' di coloro che si riconoscono, e dall'esterno si fanno riconoscere, come appartenenti a un gruppo o svolgenti una determinata funzione sociale. Il ritmo di evoluzione di questi abiti è lentissimo. La divisa del guerriero, invece, si evolve al ritmo delle guerre, e dall'una all'altra ostenta un conservatorismo che l'arricchisce di una tradizione di prestigio. Questo conservatorismo è ancora più evidente nella divisa delle istituzioni, dove un buon secolo di scarto è il minimo per l'abbigliamento dei rappresentanti dell'autorità politica, diplomatica, giuridica o delle autorità accademiche. Per quanto riguarda il costume religioso, la tradizione è onnipotente, perché la religione corrisponde al dominio del tempo. Idealmente le vesti del sacerdote devono essere invariabili per ispirare l'eternità delle forme e la continuità dei contenuti.
Il dominio dell'identificazione sociale sta nel rifiuto dei segni di riconoscimento personale e sessuale, per cui l'autorità veste 'pesante', valorizzando nel suo indumento, che 'cade' senza varianti in tutte le direzioni, l'imparzialità del suo operare; il militare veste 'rigido' significando nell'armatura, nell'inamidatura e nella perfetta simmetria, che non concede spazio all'inserimento di varianti, l'ordine rigoroso della sua disciplina. Il giovane veste 'tutto' in una sola volta per esprimere la sua libertà da ogni ordine istituzionalizzato.
L'unità del significante 'un vestito per tutte le occasioni' rimanda a un'universalità di significati che al giovane si offrono come ancora possibili. L'adozione dell'unico indumento, che ordinariamente si conosce soltanto nelle società più diseredate dove, per la grande povertà, non si dispone che di un unico vestito, quando è indossato dal giovane passa da indizio della miseria assoluta a segno dell'assoluto dominio di tutti gli usi. Raccogliendo in un solo indumento tutte le funzioni possibili, il giovane non cancella le differenze, ma, rispetto alla generazione che lo precede, afferma il campo della sua infinita libertà, e con un sistema vestimentario semplice rappresenta un mondo ricco di tempi, di luoghi, di circostanze e di caratteri che gli si offrono come ancora possibili.
Fra le barriere infrante dall'indumento giovanile la più significativa è senz'altro quella che divide il maschile dal femminile. L'abbigliamento femminile può assorbire quasi tutto quello maschile, mentre quello maschile respinge certi tratti di quello femminile, perché sulla femminilizzazione dell'uomo c'è ancora un divieto sociale. Il tabù dell'altro sesso non ha invece la stessa forza sul giovane che, a livello di abbigliamento, tende all'androgino. Questo perché il giovane può cancellare il sesso a vantaggio dell'età, offrendo così alla retorica della m. quelle espressioni: 'ancora giovane', 'sempre giovane' che servono a conferire all'età, più che al sesso, i valori di prestigio e seduzione.
La valenza seduttiva dell'abbigliamento
La seduzione si esercita lasciando vedere il nascosto, o, come dice R. Barthes attraverso "l'evidenza del sotto" (Système de la mode, 1967; trad. it. 1970, p. 156). Sembra infatti che i capi di vestiario siano animati da una specie di forza centrifuga attraverso cui l'interno è costantemente sospinto verso l'esterno, mostrandosi, sia pure parzialmente, al collo, ai polsi, davanti al busto, in fondo alla gonna, creando quel misto sospeso di evidente e di nascosto in cui si intreccia il gioco estetico ed erotico, dove la regola è di far vedere il nascosto senza però distruggere il suo carattere segreto. Interprete rigoroso del principio freudiano: "Dove c'è tabù c'è desiderio" (Totem und Tabu, 1913; trad. it. in Opere, 7° vol., 1977, p. 43), il sistema delle vesti gioca sulla fondamentale ambivalenza degli indumenti, incaricati di indicare una nudità nel momento stesso in cui la nascondono, di sottolineare i caratteri sessuali primari e secondari che ricoprono. Questa constatazione ha consentito a K. Lorenz di parlare del sistema delle vesti come di una "addizione di stimoli" nel senso più stretto della parola, perché la combinazione di numerosi segnali, di cui ognuno esercita una certa azione, produce a livello visivo un'impressione straordinaria, che arriva a modificare il comportamento di coloro ai quali questi segnali sono diretti. Ciò è possibile, secondo Lorenz, perché "l'uomo è innanzi tutto un animale visivo e perciò i fattori scatenanti sono quelli della vista che, più degli altri, agiscono su di lui" (Über tierische und menschliches Verhalten, 1965, p. 82). Questa constatazione avvalora l'ipotesi di R. König secondo cui: "La moda non è che uno dei mezzi previsti dalla natura per la conservazione della specie, per cui il desiderio di mutare seguendo la moda agisce con la stessa forza cieca con cui agirebbe qualsiasi altro impulso diretto allo stesso fine" (Macht und Reiz der Mode, 1971; trad. it. 1976, p. 95).Eppure niente meglio del gioco erotico della m. distoglie l'istinto sessuale dal suo fine naturale, che è l'unione dei sessi, per trattenerlo in quel gioco estetico che si alimenta e si esaurisce nell'esibizione del nascosto, nella sottolineatura paradossale del segreto. Per il fatto stesso che il vestito copre, esso suscita il desiderio irresistibile di scoprire. Questa curiosità spinge la donna a rinnovare incessantemente i suoi mezzi per coprirsi e scoprirsi, affinché la tentazione, che tende sempre più a riassorbire nel suo attimo l'episodio sessuale, non si affievolisca.
Dividere e ricongiungere non sono più azioni dei corpi, ma giochi delle vesti che, simulando la sessualità, la risolvono nel fantastico sottraendola al reale. Il vestito 'senza cuciture' simula nell'indumento un corpo entrato senza aver lasciato tracce del suo passaggio. Le varianti di continuità intervengono pesantemente nel gioco della simulazione, dove dividono o non dividono, ricompongono o lasciano disgiunto, creando quella discontinuità dell'indumento dove il corpo si mostra o si schiva, e dove l, attraverso il gioco delle rotture e delle saldature, si lascia disintegrare qua e là, assentandosi parzialmente, per tornare a giocare con le nudità di un corpo che sempre più si sottrae, per consegnarsi irrimediabilmente al sistema della moda.
L'onnipotenza della moda
La m. è una dea creatrice che può permettersi di parlare di corpi mal fatti perché ha l'onnipotenza di rettificarli, attraverso quella serie di artifici che allungano, assottigliano, gonfiano, ingrossano, diminuiscono, affinano, fino a trasformare il corpo reale nel corpo ideale della cover girl, che non esprime il corpo di nessuno, ma quella forma pura, quella sorta di tautologia dove il corpo non dice di sé, ma dell'indumento che indossa. Questa onnipotenza della m. diffonde, in chi la segue, un senso di potenza illimitata e di euforia, perché immerge in uno stato di innocenza in cui tutto è per il meglio e nel migliore dei modi. Con il suo sistema di varianti, l'indumento adatta i tratti somatici ai valori morfologici del tempo, a quelli storici dei valori e a quelli psicologici dell'identità personale. Nell'indumento, infatti, il corpo sembra ritrovare quella coppia antichissima che Platone illustra là dove connette la cosa leggera alla memoria, alla voce, al vivo, e quella pesante all'oscuro, all'oblio, al freddo (Parmenide, 130e-131d). Come sostituto del corpo, l'indumento partecipa in questo modo alle immagini archetipiche che rinviano al cielo, alla caverna, alla sepoltura, al sonno, per cui con il suo peso si fa ala o sudario, seduzione o autorità, mobilità o morte, mentre con la sua leggerezza e vaporosità festeggia il matrimonio, la nascita, la vita, la festa, la felicità dell'evento. Aderendo al corpo, l'indumento, a seconda dei casi, dà la sensazione della protezione o della prigione, mentre può ingrandire il corpo e renderlo impreciso in ossequio a un'etica della personalità e dell'autorità, come può seguirlo e segnarlo per renderlo più rispondente a un'etica dell'erotismo.
Come centro di riferimento di tutte le varianti, il corpo è l'origine di tutte le simmetrie, e siccome, come notava B. Pascal, "non c'è simmetria in altezza o in profondità, ma solo in larghezza" (Pensées, 1670; trad. it. 1993, n. 50), tra destra e sinistra c'è quella perfetta corrispondenza che non c'è tra l'alto (la testa) e il basso (le gambe). Inserendosi in quest'ordine di simmetria e asimmetria, l'indumento esprime autentiche "forze vestimentari", come le chiama Barthes (1967; trad. it. 1970, p. 245), slanciando corpi tarchiati, accorciando corpi troppo alti, e riducendo quelli troppo larghi, in modo che in nessun caso si oltrepassino le frontiere del tabù estetico. Giocando con dei particolari sull'alternativa della destra e della sinistra, l'indumento richiama inconsciamente quella serie di significati sessuali, etnici, rituali e politici che C. Lévi-Strauss ha riscontrato nel pensiero selvaggio (La pensée sauvage, 1962; trad. it. 1970, pp. 151-78). Questa opposizione produce sensi così forti perché, essendo il corpo sul piano orizzontale perfettamente simmetrico, è assolutamente immotivata la collocazione di un elemento sulla destra o sulla sinistra, per cui, come in ogni fatto non sostenuto da natura, l'arbitrarietà e la mancanza di motivazione rafforzano il segno, perché lo connettono alla libertà e quindi alla scelta e al rischio. Forse l'antica distinzione religiosa tra 'destra' e 'sinistra' non è stata che un modo di esorcizzare il vuoto naturale di questi due segni, la libertà vertiginosa di senso che essi emanano.
Su questa libertà vertiginosa giocano la m. e il suo potere illimitato di seduzione. Seguendo rigorosamente la sua dialettica, che è a un tempo quella del conformismo e del cambiamento, alla m. basta 'un particolare per dare una personalità', 'un piccolo nulla per cambiare tutto', e così, rincarando la dose sul 'niente', assottigliandolo fino all''ineffabile', che per Barthes è "la metafora stessa della vita" (1967; trad. it. 1970, p. 245), la m. conferisce al nulla un potere semantico che si irradia a distanza fino a significare tutto, fino a trasformare il fuori-senso in senso, il fuori-moda in moda. Così la m. coglie l'occasione di offrirsi come democratica perché il particolare 'non costa niente', e al tempo stesso partecipa alla dignità dell'idea, consacrando l'uguaglianza delle borse nel rispetto di un'aristocrazia dei gusti.
La moda e i giochi di società
Giocando poi sulla psicologia dei ruoli, la m. trasforma il lavoro in ozio, la tuta dell'operaio nei jeans dello sfaccendato, risolve problemi di identità: "se volete esser questo, vestitevi nel dato modo". E così, senza la fatica dell'azione, compie il miracolo per cui non è più necessario agire, ma è sufficiente vestirsi per ostentare l'essere dell'azione senza assumerne la realtà.
'Vestirsi a festa' significa avere l'occasione di partecipare al mito di una vita senza lavoro che viene dalla notte dei tempi. 'Attrezzarsi per il week-end' segnala quei valori di ricchezza di chi non dispone solo di quel giorno triviale e popolare che è la domenica, ma di qualcosa di più, per sfiorare la campagna nei suoi segni più affascinanti come le camminate, i fuochi di legna, le vecchie case, senza trattenersi nell'opacità faticosa della monotonia contadina.
I luoghi sfiorati dalla m., siano essi la città, la campagna, il mare, la montagna sono sempre luoghi assoluti, sono quell''altrove' di cui si deve afferrare di colpo l'essenza diversa che facilita il gioco del sogno. A sostegno del sogno la m. mette a disposizione quel fare incessante che allontana alienazione, noia, incertezza, impossibilità economica, come per es. 'fare dello shopping', che, oltre a non essere impossibile, né, se si vuole, particolarmente costoso, dà la sensazione di un potere illimitato d'acquisto, la promessa d'esser bella, il godimento della città, la gioia di una superattività perfettamente oziosa.
La moda e i giochi di identità
In una nota alle Questions de méthode (Critique de la raison dialectique, 1960; trad. it. 1963, p. 103), J.-P. Sartre osserva che come la persona produce l'indumento, nel senso che si esprime attraverso di esso, così l'indumento produce magicamente la persona, per cui al limite, trasformando l'indumento, si trasforma il proprio essere. 'Giocando' con la blusa, con la cravatta, con la cintura si partecipa a quel tema ludico per eccellenza che gli antichi avevano mitizzato in Giano bifronte. Grossi problemi di identità si possono ludicamente risolvere componendo diversamente i tratti vestimentari, in modo da apparire contemporaneamente 'dolci e fieri', 'rigidi e teneri', 'severi e disinvolti'. Questi paradossi psicologici hanno un valore nostalgico, testimoniano un sogno di totalità dove non è necessario scegliere, perché si può essere tutto contemporaneamente.
La m. non respinge nulla. Si offre sia a chi vuole sfuggire alla ripetizione ossessiva, sia a chi la ricerca perché da tempo insegue un sogno di identità: dolci, siete voi; rigide, siete ancora voi; fiere, siete sempre voi. Moltiplicando le persone in un solo essere, la m. dà un saggio della sua onnipotenza, recupera il tema ancestrale della maschera, attributo essenziale degli dèi, e la offre agli uomini. Moltiplicando le persone senza rischio, perché il gioco delle vesti non è il gioco dell'essere, la m. scherza con il tema più grave della coscienza umana, il tema dell'identità, incessantemente proposto dall'interrogativo: 'Chi sono?'. È questa la domanda della Sfinge, la domanda dell'antica tragedia, a cui la m. risponde con la sua tastiera di segni fra cui una persona sceglie il divertimento di un giorno.
Come sempre accade si gioca a quello che non si osa essere; e attraverso la m. si può giocare al potere politico perché la m. è monarca, a quello religioso perché i suoi imperativi hanno il tocco del decalogo, si gioca alla follia perché la m. è irresistibile, alla guerra perché è offensiva, aggressiva, e alla fine vincitrice. I suoi decreti non hanno una causa, ma non per questo sono privi di volontà, la sua tirannia produce un universo autarchico in cui i pantaloni scelgono da sé la propria giacca e le gonne la propria lunghezza per dei corpi ridotti a manichini d'appoggio.
La moda e la frantumazione del tempo
Rifiutando dogmaticamente la m. che l'ha preceduta, la nuova m. rifiuta categoricamente il proprio passato; chiama senza scrupoli angolosità e fratture quelle che ieri erano linee ben disegnate; non eredita, ma sovverte l'ordine appena affermato, e, facendosi gioco del tempo, afferma il diritto assoluto del presente, dell'eterno presente, che è prerogativa degli dèi. Nutrendosi di infedeltà a sé stessa e al proprio passato, la m., per sfuggire alla carica colpevolizzante di questo sentimento, aggredisce il tempo con il ritmo delle vendette, affondando ogni anno l'intero presente nel nulla del passato.
Giocando sui limiti della memoria umana, la m. confonde continuamente il ricordo delle m. passate con l'orgia delle creazioni continue, che danno un senso di rigoglio incontenibile, di vitalità eterna, grazie all'euforia dei sinonimi che la m. finge di assumere, come se fossero sensi diversi, mentre sono solo i significati di un diverso significante. In questo modo congiunge magicamente l'intelligibilità, senza la quale gli uomini non potrebbero vivere, con l'imprevedibilità associata al mito della vita.
Prima che la memoria umana si riprenda dallo shock coscienziale che investe chi si trova di fronte all'indecifrabilità di un mistero, la m. ha già dissolto il mito dei significati innocenti nel momento stesso in cui li ha prodotti, e ha già sostituito il proprio fantasmagorico artificio alla vera natura delle cose, quasi per sfuggire a quel senso vago e minaccioso che Barthes lesse scolpito su una tomba di un cimitero di Parigi: "Ieri ero quello che sei, domani sarai quello che sono" (1967, trad. it. 1970, p. 275).
di Sofia Gnoli
Tra la fine degli anni Novanta del 20° sec. e l'inizio del 21° la m. ha subito profonde trasformazioni. La globalizzazione ha portato a una sempre maggiore internazionalizzazione del settore, sia per quanto concerne la parte commerciale sia per quanto riguarda i fattori di rilocalizzazione produttiva. Inoltre la concentrazione distributiva, i notevoli investimenti sull'immagine e, non ultima, l'aggregazione finanziaria e industriale hanno provocato lo sconvolgimento delle logiche tradizionali del 'sistema moda' determinando la progressiva scomparsa dei tradizionali atelier.
La crescente concentrazione di marchi e aziende ha dato luogo a colossi finanziari che, attraverso fusioni, acquisizioni e quotazioni in Borsa, gestiscono portafogli di marchi situati in campi competitivi anche molto distanti tra loro quali abbigliamento, accessori, profumi, gioielli e vari complementi di arredo: è il caso di LVMH Group (Louis Vuitton Moët Hennessy), Gucci, It Holding S.p.A., Mariella Burani Fashion Group e altri.
Se in passato il successo di un marchio era essenzialmente legato al prodotto, alle soglie del 21° sec. hanno assunto maggiore importanza altri fattori come il management strategico e il marketing. In questo contesto l'assoluta priorità del fatturato ha posto in termini nuovi l'attività creativa dello stilista, il cui compito è divenuto sempre più quello di orientare i mutamenti del gusto tenendo presenti le richieste del mercato. Per ottenere successo i vari marchi hanno dovuto mirare a un approccio globale, attento a ogni dettaglio, dagli abiti alla musica, dalle luci alle fragranze, fino all'arredamento e all'architettura dei punti vendita che hanno acquisito una sempre maggiore importanza. Ne sono espressione i numerosi negozi commissionati da stilisti e holdings del lusso ad architetti di fama internazionale.
Se M. Prada (n. 1950), per es., nel 2002 ha commissionato a R. Koolhaas la progettazione degli 'epicentri' (significativo appare il cambiamento del nome: da negozio a 'epicentro') di Soho a New York e di Rodeo Drive a Beverly Hills, G. Armani (n. 1934), sempre nel 2002, ha affidato l'architettura dell'Emporio Armani di Hong Kong a M. Fuksas. Diverso il caso di Gucci, il cui restyling è stato interamente coordinato dallo stilista texano T. Ford (n. 1962), direttore artistico della griffe dal 1994 al 2004. Lo stile Gucci, concepito da Ford, fatto di linee pulite, superfici eleganti, materiali preziosi, è stato divulgato in ogni città del mondo, attraverso un marketing aggressivo e sofisticato che ha permeato ogni aspetto: dalla pubblicità ai negozi, agli omaggi presfilata, fino all'arredamento. Come ha dichiarato lo stesso Ford in un'intervista rilasciata al Time il 9 aprile 2001: "I clienti acquistano il tuo sogno. È vero che un paio di pantaloni neri sono un paio di pantaloni neri, ma se un cliente preferisce il mondo Gucci per i suoi acquisti, significa che desidera un'atmosfera diversa da quella di Versace e per creare quella particolare atmosfera un designer deve dare tutta la sua anima e personalità. I negozi Gucci assomigliano a casa mia. I miei divani sono in tutti i negozi Gucci di tutto il mondo".
La frammentazione della moda
Negli ultimi anni del 20° sec., le distinzioni per stili di vita, che avevano caratterizzato la m. dell'epoca precedente, si sono affievolite, per divenire sempre più eclettiche e transitorie, dando luogo di conseguenza a una moltiplicazione degli stili di abbigliamento e dei modelli di consumo. Inoltre la m., per tradizione legata alla creazione stagionale, si è diversificata in maniera sempre più profonda anche in virtù della moltiplicazione delle nicchie di mercato: dagli outlets ai centri commerciali, alle vendite su Internet, fino ai saldi prolungati.
Nella medesima stagione hanno potuto convivere lo stile bon ton dalle vaghe reminescenze anni Quaranta lanciato da Prada (primavera-estate 2000), quello aggressivo di Gucci (primavera-estate 2000), quello ultra-sexy di R. Cavalli ecc. Di fronte a una tale moltitudine di tendenze l'uniformità della m. è stata progressivamente sostituita da una quantità di stili diversi che hanno lasciato maggiore indipendenza al consumatore e più spazio alla personalità. Come ha rilevato l'antropologo T. Polhemus, che nel 1994 ha curato la mostra Street style al Victoria and Albert Museum di Londra: "mentre prima la moda era uno strumento con cui ci si rendeva conto del passare del tempo, adesso [è divenuta] come la mappa di un esploratore che [consente] di localizzare i costumi di 'tribù' incredibilmente diverse" (2005, p. 359). Per descrivere il look associato a movimenti giovanili come i punk, i goths, i rappers, Polhemus ha usato l'espressione style tribes. Allo stesso modo dei giovani, anche gli adulti possono essere suddivisi in style tribes. Come ha rilevato V. Steele, storica della m. e, dal 1997, curatrice del museo del FIT (Fashion Institute of Technology) di New York: "I Modernisti (rappresentati da Jil Sander) sono un branco completamente diverso dai Sex Machine (Tom Ford per Gucci). I Ribelli (Alexander McQueen) possono facilmente essere distinti dai Romantici (John Galliano per Christian Dior). Non si tratta di stato socioeconomico o di età. I membri della tribù Status Symbol (Marc Jacobs per Louis Vuitton) non hanno né più né meno danaro dei membri dell'Avanguardia artistica (Rei Kawakubo per Comme des Garçons), ma hanno certamente diversi valori e stili di vita" (2000, p. 7). Una tale moltiplicazione di proposte creative ha dato vita a un panorama della m. estremamente frammentato. In questo contesto si è affermato quello che Polhemus ha definito style surfing (ossia surf dello stile) in base al quale la m. non si impone più rigidamente come prima, ma diventa di fatto facoltativa. Per chi fa il surf tra gli stili, tutto è possibile. Così, in un'unica mise, possono convivere gli indumenti più diversi. A questo proposito Polhemus ha introdotto il concetto di 'supermercato dello stile', una sorta di gigantesco contenitore all'interno del quale tutte le sottoculture del passato sono a disposizione, come fossero sugli scaffali di un supermercato, per essere assemblate le une con le altre.
I modelli femminili
Con la m. sono mutati anche i canoni di bellezza. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento, si è affermato il fenomeno delle top model, espressione usata per definire modelle particolarmente belle e slanciate quali C. Crawford, L. Evangelista, C. Turlington, C. Schiffer e N. Campbell, che hanno contribuito a dare all'industria del settore un'immagine molto glamorous. Tra gli stilisti che hanno sostenuto maggiormente il fenomeno si annoverano A. Alaïa (n. 1940 ca.), T. Mugler (n. 1946) e, soprattutto, G. Versace (1946-1997). Presto anche questo fenomeno è tramontato. Le top model si sono rivelate eccessivamente costose per un'industria tessile in crisi e troppo lontane dalla realtà della consumatrice media. Per tali ragioni, intorno alla metà del decennio, sono state sostituite da ragazze meno avvenenti. In armonia con l'affermarsi del gusto minimalista (v. oltre: Il minimalismo), si è imposta una nuova immagine di donna più naturale e casuale. In quello stesso periodo è salita alla ribalta una tipologia di modelle magre ed emaciate, dall'incedere ipnotico, che ha avuto tra le maggiori protagoniste K. Moss e quindi, sulla scia del suo successo, giovani efebiche e filiformi come S. Tennant o J. Kidd. Anche il trucco ha rispecchiato questa tendenza e si è diffusa la m. di make-up drammatici, di incarnati spenti e delle occhiaie che sono state addirittura riprodotte artificialmente. Questo look ha suscitato molte polemiche in quanto l'industria della m. è stata accusata di incoraggiare l'anoressia. È intervenuto su tale argomento anche l'allora presidente degli Stati Uniti, B. Clinton, che il 21 maggio 1997 ha condannato in un discorso tale stile, definito negli Stati Uniti heroin chic, dichiarando: "Non c'è bisogno di rendere glamour la tossicodipendenza per vendere abiti […] La glorificazione dell'eroina non è creativa, è distruttiva". A causa di queste polemiche, accanto allo stereotipo della 'trovatella', caratterizzato da un look trasandato, è andata emergendo un'altra tipologia femminile incarnata dall'androgina bionda platino N. Auermann. Alla fine degli anni Novanta, anche per quanto concerne i modelli di bellezza, il mondo della m. ha evitato di lasciarsi condizionare da un unico stile, riconoscendo nei concetti di ibridazione e fragilità due importanti elementi caratterizzanti l'epoca contemporanea. In questo contesto tra le modelle si sono imposti volti nuovi, sostituiti però velocemente. Bellezze voluttuose, come quella della brasiliana G. Bündchen, si sono alternate ad altre meno convenzionali, come quella della sudanese A. Wek o dell'androgina inglese E. O'Connor.
Il grunge
Tra i fili conduttori della m. degli anni Novanta del Novecento si ricorda il grunge, movimento culturale che ha coinvolto essenzialmente musica e m., esploso all'inizio del decennio. Il termine grunge si era diffuso intorno alla fine degli anni Ottanta, quando a Seattle, nel Nord-Ovest degli Stati Uniti, si erano affermati complessi musicali come i Nirvana, i Pearl Jam, i Mudhoney, i Soundgarden, la cui musica è una sorta di sintesi tra heavy metal, punk e rock and roll. Come la musica, anche l'abbigliamento ha espresso la tendenza alla fusione di stili apparentemente inconciliabili. Le peculiarità del look grunge consistono infatti nell'accostamento di vestitini dall'aspetto rétro a calzature pesanti e massicce come gli anfibi Dr. Martens, nelle T-shirt sfilacciate, nei jeans sgualciti e scoloriti, indossati sotto maglioni patchwork o camicie di flanella da boscaiolo americano. Inizialmente si è trattato di un look 'povero' - contraddistinto da capi indossati in maniera scoordinata - espressione di un'antimoda, come a suo tempo nel periodo degli hippies. In seguito è divenuto terreno di ispirazione per gli stilisti che lo hanno commercializzato decretando la fine dell'autenticità dello street style, da quel momento copiato e interpretato dall'industria della moda. Il 19 agosto 1992 il grunge è stato menzionato per la prima volta sulle pagine del Women's wear daily: "Tre look bollenti - rave, hip hop, e grunge - generati da quella musica che è popolare tra i minori di 21 anni, hanno fatto colpo per la strada e nei negozi". Di lì a poco articoli sul grunge sono comparsi su Vogue e Harper's bazaar. Questo look, nato sulle strade di Seattle, si è presto diffuso sia nel resto degli Stati Uniti sia in Europa. Interpretato da stilisti come P. Ellis (n. 1940), C. Klein (n. 1942), R. Cavalli (n. 1940), Dolce & Gabbana (D. Dolce, n. 1958, e S. Gabbana, n. 1962), A. Sui (n. 1955), Versace e altri, il grunge ha risposto largamente allo stato d'animo degli anni Novanta offrendo la possibilità di accostare liberamente, e in maniera del tutto personale, capi molto diversi, dall'abito usato all'accessorio o all'indumento griffato.
Il minimalismo
In contrapposizione allo stile vistoso degli anni Ottanta, intorno alla metà degli anni Novanta si è diffusa una m. minimalista, caratterizzata da abiti e accessori dalle linee semplici e pure e da un'assenza quasi totale di colori. Il minimalismo ha proposto un'idea della m. concettuale basata su un abbigliamento anonimo e standardizzato, in cui le differenze possono essere colte solo da esperti del settore, così come era accaduto negli anni Venti quando il design razionalista favorì la diffusione di un abbigliamento dalle linee sobrie e geometriche. Ne fu un emblema G. Chanel (detta Coco, 1883-1971), i cui piccoli abiti neri, per la loro praticità e linearità, in un articolo pubblicato nel 1926 su Vogue, vennero paragonati all'ultimo modello di automobile della Ford.
Negli anni Ottanta, tra i precursori del minimalismo vanno annoverati gli stilisti dell'avanguardia giapponese come I. Miyake (n. 1939), R. Kawakubo (n. 1942) e Y. Yamamoto (n. 1943), che hanno inaugurato un'estetica di tipo intimista e ascetica, e creatori quali Zoran (Z. Ladicorbic, n. 1947), Donna Karan (n. 1948), J. Sander (n. 1943) e R. Gigli (n. 1949). Negli anni Novanta i maggiori interpreti del minimalismo sono stati gli stilisti belgi (v. oltre: L'avanguardia belga), l'austriaco H. Lang (n. 1956) e Miuccia Prada. Quest'ultima, nipote di M. Prada - fondatore nel 1913 dell'omonimo marchio che produceva accessori in pelle - nel 1978 era subentrata alla guida dell'azienda di famiglia. Nel corso degli anni Ottanta, Prada ha affiancato alla tradizionale linea di pelletteria, collezioni di scarpe e di prêt-à-porter femminile alle quali, negli anni Novanta, si sono aggiunte la linea giovane Miu Miu, la linea uomo e la linea di sportswear PradaSport.
Stile sexy
A fianco del look monastico proposto dal minimalismo, alla fine del 1993 si è affermato uno stile sexy e aggressivo. Emblematico, a questo proposito, è il caso di Gucci. Azienda fondata nel 1921, specializzata originariamente in selleria e pelletteria, intorno alla metà degli anni Novanta Gucci ha goduto, grazie a T. Ford, di un forte rilancio stilistico, soprattutto per quanto concerne le linee di prêt-à-porter, che erano state fino a quel momento secondarie rispetto alle collezioni di accessori. Lo stile di Ford, in un'efficace fusione tra minimalismo e seduzione, essenzialità e glamour, si è distinto dalla moda spoglia e fintamente povera del decennio. Nella sua visione della m., Ford ha subito, per sua stessa ammissione, l'influenza di due grandi protagonisti della m. statunitense: C. Klein e R. Halston (1932-1990), a proposito del quale ha dichiarato: "Ho avuto la fortuna di visitare la sua casa all'inizio degli anni Ottanta, appena arrivato a New York; e ancora ricordo di essere stato completamente sopraffatto dalla sua bellezza: pulita, semplice, con linee perfette [...] Ha avuto davvero effetti incredibili su di me: da allora, in modi diversi, ho cercato di integrare questa filosofia di design nella mia vita" (Total living, a cura di L. Frisa, M. Lupano, S. Tonchi, 2002, p. 73).
Il vintage
Intorno alla metà degli anni Novanta, per soddisfare il crescente bisogno di 'individualità' come reazione alla globalizzazione, si è diffuso quel fenomeno culturale conosciuto come vintage, termine inglese che indica la vendemmia, nel senso di raccolta dell'uva e produzione del vino, specie d'annata, e, per estensione, passato nella m. a indicare l'usato d'autore. Antesignano del concetto di vintage era stato lo street style che aveva caricato di nuovi significati l'abbigliamento di seconda mano, definendo scelte antagoniste rispetto alla società dei consumi. Il vintage, che ha continuato a influenzare la m. fino ai primi anni del 21° sec., ha contato tra le sue seguaci anche dive e celebrità come K. Moss, la cantante Madonna, le attrici J. Roberts e N. Kidman. Quest'ultima, nel 2001, a New York, in occasione dell'anteprima del film di B. Luhrmann Moulin Rouge, ha indossato un abito in jersey di seta e frange realizzato nel 1972 da L. Azzaro (n. 1933). Precorritrice di questo fenomeno era stata la giornalista di m. A. Piaggi (n. 1931), fin dagli anni Sessanta: celebri i suoi accostamenti azzardati di tuniche di M. Fortuny (1871-1949) con sandali di M. Blahnik (n. 1942), così come quelli dei mantelli di velluto degli anni Venti di J. Lanvin (1867-1946) con abiti T-shirt di Missoni degli anni Settanta. Sintesi del suo stile è Anna-cronique, volume uscito nel 1986, scritto e disegnato a quattro mani dalla stessa Piaggi con K. Lagerfeld (n. 1938) che, nella prefazione, scrive: "Quando [Anna] indossa un abito di un altro periodo, lo porta con lo spirito di oggi […] Lei fa rivivere per noi un momento lontano che credevamo di conoscere, in un passato che non abbiamo vissuto ma pensiamo sia stato tale […] Anna inventa la moda. Nel vestirsi fa automaticamente quello che noi faremo domani" (1986, pp. 7-11). Approfittando del grande successo del vintage molti marchi e stilisti hanno proposto, accanto alle ultime novità di stagione, capi d'annata o riedizioni di classici. È il caso, per es., di Valentino (V. Garavani, n. 1932), che ha creato Riedizioni, una linea di accessori attraverso i quali ha rievocato i capi più preziosi del suo archivio storico, o di Ford per Gucci che ha rilanciato un modello degli anni Sessanta, ossia la famosa borsa Jackie O.
L'avanguardia belga
Risale ai primi anni Novanta la nascita di un'avanguardia europea, di cui il gruppo di stilisti formatosi alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa ha forse rappresentato la punta più avanzata, imponendo la ricerca di un'estetica della decostruzione e della sperimentazione in opposizione al consumismo e al glamour. Soprannominati dalla stampa internazionale 'I sei di Anversa', per il fatto di essersi tutti diplomati alla Royal Academy of Fine Arts alla fine degli anni Ottanta, M. Margiela (n. 1957), A. Demeulemeester (n. 1959), D. Van Noten (n. 1958), W. Van Beirendonck (n. 1957), D. Van Saene (n. 1959) e D. Bikkembergs (n. 1959) si sono distinti per uno stile anticonvenzionale e fortemente individuale.
Lo stile di Margiela, forse il più noto dei sei, si distingue essenzialmente per la costante ricerca condotta sui diversi aspetti che caratterizzano ogni indumento: dalla struttura - spesso il dritto di un capo ne diventa il rovescio - fino ai materiali inusuali. Altra singolare peculiarità di Margiela è il tentativo di sottrarsi alla logica della griffe utilizzando etichette bianche in sostituzione di quelle con il tradizionale logo. Van Noten è conosciuto per i riferimenti etnici e rétro. La Demeulemeester predilige uno stile romantico con una tavolozza di colori molto ridotta in cui si privilegiano per lo più il bianco e nero. Lo stile di Bikkembergs è contraddistinto da elementi sexy e, al tempo stesso, sportivi. Van Beirendonck si distingue per le scelte particolarmente eccentriche, mentre dalle creazioni di Van Saene emerge un grande amore per l'artigianato. Al di là delle varie preferenze stilistiche, il filo conduttore dell'avanguardia belga consiste in un perfetto equilibrio tra sobrietà e audacia, industria e artigianato, studio della forma e del contenuto.
Tra i maggiori rappresentanti della generazione di stilisti successiva a 'I sei di Anversa' vanno considerati R. Simons (n. 1968) che, attingendo alla cultura giovanile, alla musica gotica, al punk e all'architettura della Bauhaus, ha apportato interessanti novità alla m. maschile; V. Branquinho (n. 1973), in grado di combinare uno stile romantico con giacche dal taglio severo e maschile; il duo A. F. Vandevorst, costituito da A. Vandevorst (n. 1968) e P. Arickx (n. 1971), il cui lavoro è stato profondamente influenzato dall'arte contemporanea, in particolare dalle opere del tedesco J. Beuys. Nei primi anni del 21° sec., Anversa ha visto riuniti in un'unica struttura architettonica, appositamente progettata il Modenatie (nome che allude alla città di Anversa come centro portuale 'Natie'), che comprende importanti istituzioni della moda quali il MoMu (Mode Museum), il Flanders Fashion Institute (FFI) - formatosi nel 1997 - e il dipartimento di moda e design della nota Royal Academy of Fine Arts.
Per approfondimenti relativi allo sportswear e all'abbigliamento high tech v. la voce abbigliamento.
Per lo stile esotico, invece, v. la voce esotismo.
V. Steele, Fifty years of fashion. New look to now, New Haven-London 1997.
F. Sozzani, Diario minimoda, in Pelle di donna. Moda e bellezza, a cura di A. Moltedo, 5° vol., Roma 1998.
N. Chahine, C. Jazdzewski, M.-P. Lannelongue et al., Beauté du siècle, Paris 2000 (trad. it. La bellezza, immagine e stile, Modena 2001, pp. 204-20).
V. Steele, Fashion: yesterday, today & tomorrow, in The fashion business. Theory, practice, image, ed N. White, J. Griffiths, Oxford-New York 2000, pp. 7-20.
T. Polhemus, Style surfing, in Enciclopedia della moda. Universo Moda, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, pp. 359-63.