MODA.
- La fast fashion. Il valore dell’heritage tra recupero dell’artigianato e moda etica. L’ascesa dell’e-commerce, i film di moda e il mecenatismo. Bibliografia
La fast fashion. – Una delle peculiarità della m. nel primo decennio del Duemila è stata la grande ascesa della fast fashion, così definita perché propone continuamente nuove collezioni. Tra le maggiori griffe della fast fashion di rilievo il gruppo svedese H&M Hennes & Mauritz AB, di cui fanno parte sei marchi indipendenti: H&M, COS, Monki, Weekday, Cheap Monday, & Other Stories. Nato nel 1947 a Västerås (Svezia), H&M Hennes & Mauritz AB nel 2015 conta 3600 punti vendita nel mondo. Un altro esempio è la spagnola Zara che fa parte del gruppo Inditex (fondato nel 1963), nel quale, oltre a Zara e Zara Home, sono compresi Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho e Uterqüe.
Questi marchi, che riproducono con alcune varianti i capi di maggiore successo delle grandi case di m., fanno spesso uso di un tipo di pubblicità simile a quella delle griffe di lusso, dimostrando così quanto quest’ultimo concetto sia ormai sempre più aleatorio. Che il lusso, e quindi il marchio, sia a portata ormai di tutti è reso evidente anche dalle frequenti collaborazioni di famosi stilisti con gruppi della fast fashion. È il caso di H&M che, nel 2004, ha cominciato a commissionare collezioni ‘capsula’ (termine che indica una collezione composta da pochi capi di abbigliamento, facilmente interscambiabili e abbinabili, ma anche la collaborazione tra le grandi griffe e le multinazionali dell’abbigliamento a basso costo) a grandi nomi internazionali – da Karl Lagerfeld a Roberto Cavalli, da Lanvin a Versace, da Marni ad Alexander Wang –, così come della catena inglese Topshop, che si è avvalsa della collaborazione di Celia Birtwell e Zandra Rhodes, o della giapponese Uniqlo, che tra il 2009 e il 2011 ha avuto una linea disegnata da Jil Sander.
Un concetto, quello della m. disponibile a prezzi contenuti, che negli anni Sessanta ha costituito la base del prêt-à-porter e che, in seguito, è divenuto l’anima delle seconde linee, come Emporio Armani di Giorgio Armani. Visti i prezzi bassissimi della fast fashion, le seconde linee di molti stilisti sono state messe in grande difficoltà. Questo è accaduto anche perché, in alcuni casi, noti designer hanno trascurato la qualità a favore della quantità, cercando di coniugare grandi numeri e creatività, cosa non sempre possibile.
Verso la fine del primo decennio del Duemila si sono cominciati ad avvertire anche i primi segni di cambiamento: ormai la fast fashion, pur continuando a esistere, non costituisce più l’unico modello.
Il valore dell’heritage tra recupero dell’artigianato e moda etica. – Per vincere la concorrenza della fast fashion, i grandi marchi hanno puntato sulla riscoperta della tradizione e sui concetti di personalizzazione ed esclusività del prodotto. Nel contesto del recupero della tradizione si colloca anche il concetto di heritage, ossia dell’‘eredità culturale’ di un marchio, da non confondere con il semplice revival. Secondo la studiosa di m. Maria Luisa Frisa, «in un processo in continuo movimento come la moda guardare al passato è inevitabile. Basti pensare al Rinascimento, un’epoca creativamente tra le più feconde della nostra storia e nata con la nostalgia per l’antichità classica: è iniziato come celebrazione del passato, diventando qualcosa di completamente diverso e nuovo» (Tibaldi 2015).
Il concetto di heritage, legato anche all’artigianalità, nel secondo decennio del Duemila sta diventando sempre più attuale. È nata proprio in questo contesto l’iniziativa di Prada made to measure, un servizio dedicato alla clientela maschile che offre la possibilità di ordinare un guardaroba su misura. Le opzioni sono parecchie: solo per una camicia si può scegliere tra 180 tessuti, 6 modelli di collo, 5 di polsi e 6 colori per le cifre. Una strategia condivisa da molti, come Fendi con la linea Selleria o Zegna con l’abbigliamento su misura maschile.
Con lo stesso intento sono state concepite anche le campagne pubblicitarie di molte griffe. Se, per es., Gucci ha scelto le immagini dei suoi laboratori di un tempo con artigiani in camice bianco, Tod’s ha prodotto un film in cui ha messo in relazione gli artigiani del cuoio con un balletto al Teatro alla Scala di Milano. Il colosso del lusso LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy), invece, ha avviato un’operazione battezzata Les journées particulières, che consiste nell’aprire periodicamente al pubblico i propri atelier affinché tutti possano verificare dal vivo come gli artigiani realizzano i prodotti.
Un altro aspetto del revival della tradizione è costituito dalla tendenza al recupero degli archivi storici che, nei primi anni del Duemila, si sono moltiplicati. Oltre a Ferragamo, pioniere del genere, che creò il proprio museo già nel 1995 a Firenze, nel 2011, nella stessa città, è stata la volta del Museo Gucci. Del tutto innovativo è anche il museo virtuale in 3D inaugurato nel 2011 da Valentino. Sempre in questa direzione si collocano varie mostre retrospettive. PPR (Pinault Printemps Redoute; nel 2013 ha cambiato ragione sociale in Kering), la multinazionale francese di cui facevano parte griffe come Gucci, Yves Saint Laurent e Alexander McQueen, nel 2011 ha sponsorizzato la mostra del Metropolitan Museum of art di New York (582.000 visitatori in tre mesi) dedicata a McQueen. Visto il successo, nel 2015 l’esposizione su McQueen è stata portata al Victoria and Albert Museum di Londra. Nel 2012 LVMH ha promosso al Musée des arts décoratifs di Parigi una mostra dedicata a Louis Vuitton e al suo allora direttore artistico, Marc Jacobs. E mentre Max Mara ha celebrato con Coats! (2011-12) allo State historial museum di Mosca il suo 60° anniversario, Jean Paul Gaultier ha illustrato 35 anni di attività al Dallas museum of art (2011-12).
Come si è accennato, uno degli aspetti più importanti dell’heritage è legato alla valorizzazione dell’artigianalità. Questo concetto è già stato messo in luce dal sociologo statunitense Richard Sennett che nel 2008 ha pubblicato un libro dal titolo emblematico, The kraftsman (trad. it. L’uomo artigiano, 2008), esaltando il valore della piccola impresa come luogo in cui le cose sono fatte a regola d’arte. Ispirandosi al saggio di Sennett, il Museo Ferragamo di Firenze ha organizzato nel 2010 la mostra A regola d’arte. Che il futuro sia nelle mani di chi sa fare è anche la tesi di Stefano Micelli in Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani (2011), un inno alla manualità che ha in Italia una delle sue terre di elezione. Quando si parla di valore dell’artigianalità non bisogna però ricondurre il concetto a quanto descritto, per es., nell’inchiesta di Report (programma televisivo di Milena Gabanelli trasmesso su RAI 3 il 2 dicembre 2007) dedicata al made in Italy, dalla quale si evince che spesso gli artigiani sono lavoratori in nero sottopagati, attraverso subappalti dislocati in diversi laboratori clandestini. Oltre alle strategie di comunicazione di vari marchi del lusso, il fascino dell’artigianato può essere ricondotto sia al fenomeno dei designer indipendenti, sorta di artigiani intesi in senso classico, sia – come ha notato Simona Segre Reinach (2011, p. 81) – al lavoro artigianale vero e proprio nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo.
L’artigianato inteso in questo modo è collegato alla ‘m. etica’ o slow fashion, così definita in contrapposizione alle produzioni su larga scala della fast fashion. Si colloca in questa direzione l’iniziativa di Brunello Cucinelli, imprenditore-stilista famoso per la maglieria di cashmere, che nel 2013 ha creato la Scuola di Solomeo (dal nome dell’omonimo borgo in provincia di Perugia che ha restaurato facendone il proprio quartier generale) dove, accanto a materie come il marketing, vengono insegnate le varie tecniche artigianali della realizzazione dei capi.
Nel primo decennio del Duemila la m. etica è diventata molto attuale anche se, in alcuni casi, il suo messaggio è stato vanificato, com’è accaduto, per es., con la borsa I’m NOT a plastic bag, creata nel 2007 da Anya Hind march per incoraggiare le consumatrici a non utilizzare la plastica. La stilista è stata in seguito criticata perché la borsa è risultata prodotta in Cina da lavoratori sottopagati. Si colloca in questa direzione To die for. Is fashion wearing out of the world? (2011), il saggio in cui Lucy Siegle biasima il modo in cui molte aziende aggirano la questione dei diritti dei lavoratori e auspica una m. sostenibile e realizzata nel rispetto del lavoro. Una questione, quella del lavo ro e della sostenibilità, che, secondo Siegle, i grandi marchi dovrebbero affrontare correggendo il proprio modello di business rispettando i diritti dei lavoratori e l’ecosistema del pianeta.
Al potenziamento della m. etica, rispettosa dell’ambiente e dei lavoratori, la Francia ha dedicato fin dal 2004 una fiera annuale, Ethical fashion show. Nella stessa direzione sono nate anche campagne pubblicitarie di diffusione internazionale come Clean clothes (http://www.arpnet.it/mente/dignity/welcome.htm) e Made in dignity (http://www.cleanclothes.org/). I diversi aspetti che compongono la m. etica sono stati classificati da Carla Lunghi ed Eugenia Montagnini nel saggio La moda della responsabilità (2007), nel quale le due autrici mettono in luce i tre aspetti fondamentali, e strettamente correlati, della m. etica: la m. ‘biologica’, che s’impegna nell’ecosostenibilità; la
m. ‘solidale’, attenta alle condizioni dei lavoratori; la m. dell’usato, concentrata sull’importanza del riciclo.
L’ecosostenibilità e l’efficienza ambientale hanno coinvolto nel secondo decennio del Duemila sempre più aziende. Si pensi a Gucci, che nel 2013 ha introdotto un sistema di conciatura della pelle a base di agenti organici che garantisce l’assenza di metalli pesanti nelle acque di scarico, o a Luisa Spagnoli che, nello stesso periodo, ha iniziato a richiedere specifici certificati che garantissero l’estraneità delle aziende fornitrici da pratiche di crudeltà nei confronti dei conigli da cui viene ricavata l’angora. Un tema, quello della crudeltà nei confronti degli animali, nello specifico sull’illegalità della spiumatura delle oche per realizzare piumini, cui il 2 novembre 2014 ancora Milena Gabanelli ha dedicato un’intera puntata di Report.
L’ascesa dell’e-commerce, i film di moda e il mecenatismo. – Se un tempo per fare acquisti si passeggiava per via Montenapoleone a Milano o per rue du Faubourg-Saint-Honoré a Parigi, al principio del secondo millennio, sulla base dei dati forniti da Altagamma (fondazione che riunisce dal 1992 le imprese che rappresentano l’alta industria culturale e creativa italiana), sempre più persone fanno uso del web. Nel 2011, prendendo in considerazione 187 aziende internazionali che operano nel settore, intervistando 1500 consumatori e analizzando 450 siti web e 150 milioni di messaggi tra social media e blog, Altagamma ha condotto un’indagine (Digital luxury experience - Altagamma observatory) dalla quale risulta che la vendita online è destinata ad aumentare del 20% all’anno.
Non bisogna però pensare che il web abbia messo in ombra il potere seduttivo del negozio vero e proprio.
Anzi, quello che accade sempre più spesso è che si scelga in negozio, dal vivo, che cosa comprare, per poi acquistare on-line. Infatti, i negozi reali stanno acquisendo sempre più importanza nell’economia di un marchio: danno la possibilità di vedere, toccare, provare un prodotto che poi verrà comprato più vantaggiosamente su Internet. In questo modo la funzione del negozio è sempre più spesso quella di un ‘camerino’ di prova.
Dopo il lavoro pionieristico del fotografo inglese Nick Knight, che nel 1998 (Tibaldi 2014) fu il primo a intuire come la m., con il diffondersi di Internet, si stesse evolvendo verso un nuovo linguaggio visivo (quello dei film), negli anni Dieci del Duemila il film di m., visibile su personal computer, tablet e smartphone, è diventato una delle forme di comunicazione più diffuse. Non bisogna confondere questo tipo di comunicazione con una normale campagna pubblicitaria. Indipendentemente dalla pubblicizzazione di un singolo prodotto, il film mira a stabilire soprattutto un legame emotivo con lo spettatore, a farlo sognare. Pioniera in questo tipo di linguaggio – definito nell’ambiente storytelling per indicare quel tipo di narrazione capace di rendere desiderabili merci e culture – è la maison Chanel, che da tempo utilizza i video per rendere più accattivante e contemporanea la sua immagine. Ne sono esempio i due episodi di Le bleu, film sull’omonimo profumo di Chanel diretti da Martin Scorsese nel 2010 e da James Gray nel 2015. Ma in questa tendenza si rispecchia anche il progetto Women’s tales di Miu Miu (partito nel 2012 e costituito da cortometraggi di diverse registe) o L’odyssée de Cartier (2012), cortometraggio che la celebre griffe di gioielleria ha realizzato per celebrare i suoi 165 anni. Nei primi cinque giorni il film – al quale hanno lavorato per circa due anni oltre 100 persone e tre pantere addestrate – è stato visto in rete 12 milioni di volte. L’aumento del numero dei cortometraggi è cresciuto proporzionalmente all’innalzamento della loro qualità. Visto il successo di questi filmati, i brands del lusso sono stati incoraggiati a investirvi budget sempre più ingenti. Per es., nel 2014 Burberry, la griffe inglese nota per l’importanza che attribuisce ai nuovi media, ha avviato la sua campagna natalizia con il film From London with love, minimusical che ha come protagonista Romeo Beckham (figlio di David e Victoria). Armani ha incaricato il premio Oscar Paolo Sorrentino di realizzare Sabbia (2014), il video che ha aperto la sfilata primavera-estate 2015 della linea Giorgio Armani. Sempre nel 2014 Sorrentino è stato l’artefice di The dream - Il sogno, cortometraggio commissionato da Bulgari in occasione del restyling della boutique romana di via dei Condotti e interpretato da Valeria Golino. L’affermarsi di questa nuova forma artistica ha dato luogo anche a casi di mecenatismo e conta tra i suoi sostenitori protagonisti del mondo della m. come Constanza Cavalli Etro, moglie di Kean – fautrice a Milano del Fashion film festival – e Armani. Quest’ultimo, nell’ambito del progetto Film of city frames, insieme a RAI Cinema, ha selezionato studenti di scuole per cineasti e li ha incaricati di girare cortometraggi sui suoi occhiali.
Un altro fenomeno in grande ascesa è l’investimento che diverse grandi griffe di m. hanno fatto nell’arte. Un ruolo da pioniera in questo senso è stato quello di Prada che, con l’intento di promuovere mostre ed eventi artistici, nel 1995 ha dato vita all’omonima Fondazione, rinnovata nel 2015 (negli ampi spazi di largo Isarco a Milano) con un progetto concepito dallo studio di architettura OMA, guidato da Rem Koolhaas. Nel 2014 è stata inaugurata al Bois de Boulogne (Parigi) la nuova sede della Fondation Louis Vuitton (nata nel 2006) disegnata da Frank Gehry. Nel frattempo, soprattutto in Italia, si moltiplicano le case di m. che sostengono economicamente il restauro di monumenti storici. È il caso di Bulgari con la scalinata di Trinità dei Monti, di Fendi con la fontana di Trevi, di Diego Della Valle con il Colosseo, di Ferragamo con gli Uffizi, di Renzo Rosso con il ponte di Rialto. Tutte iniziative che, se da una parte possono salvare alcune delle vestigia antiche più famose del mondo, dall’altra, come ha notato Anthony Faiola sulle pagine del «The Washington post», rischiano di commercializzare il patrimonio storico e artistico italiano, che risulta così associato a noti brands.
Bibliografia: S. Gnoli, Si compra in rete ma si prova in negozio, «la Repubblica», 26 novembre 2011, p. 43; R. Morabito, N. Scevola, Conscious fashion, «Vogue Italia», agosto 2011, pp. 86-87; S. Segre Reinach, Un mondo di mode. Il vestire globalizzato, Roma-Bari 2011; S. Gnoli, Moda. Dalla nascita della haute couture a oggi, Roma 2012; C. Magnanini, Doppio shopping, «D - la Repubblica», 28 settembre 2013, pp. 119-22; A. Faiola, Will corporate cash save Roman monuments or diminish them?, «The Washington post», 6th September 2014; S. Tibaldi, La moda è un film, «D - la Repubblica», 29 novembre 2014; S. Paoli, Il lusso? È sostenibile, «RClub album - la Repubblica», 25 febbraio 2015, p. 19; S. Tibaldi, Il futuro in un vestito, «RClub album - la Repubblica», 25 febbraio 2015, p. 10.