Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La “questione sociale” verrà a delinearsi soltanto attorno alla metà del XIX secolo, strettamente legata ai principali esiti dell’industrializzazione; tuttavia, già nel corso del Settecento in Francia non mancano alcune significative analisi delle conseguenze prodotte sul piano sociale dall’organizzazione economica e politica. Accanto a queste riflessioni, di carattere fondamentalmente utopico, ci sono però anche visioni più realistiche che si concentrano sullo studio dei meccanismi economici e che hanno il proprio focus prima sul commercio, poi sull’agricoltura, infine sull’industria.
Nel Settecento, accanto ai temi più generali e diffusi dell’Illuminismo (esaltazione della ragione e suo utilizzo in termini critici, polemica contro le credenze imposte per autorità e contro ogni forma di superstizione, contestazione della dogmatica religiosa e preferenza per la religione naturale/razionale) sono da annoverare contenuti di critica sociale centrati su una serie di contrapposizioni molto generali, orientate in un contesto utopico: ricco e povero, città e campagna, parassita fruitore di una rendita e contadino. Tali argomenti sono presenti sia in buona parte della cultura dei Lumi, nei philosophes e in personalità comunque di alto lignaggio, magari precettori di principi, sia, più spesso, in pensatori meno influenti o addirittura al loro tempo del tutto oscuri.
Jean Meslier, parroco di campagna nella Francia di Luigi XIV, lascia alla sua morte tre copie manoscritte di una una Mémoire des pensées et sentiments de Jean Meslier. Composto all’inizio degli anni Venti del Settecento, Voltaire ne fa pubblicare un estratto, congiuntamente a un altro scritto di Meslier, l’Abrégé de la vie de l’auteur, ma bisogna aspettare il 1864 per averne una prima edizione a stampa (con il titolo Testamento).
Lo scritto è un messaggio di severa condanna della “enorme disparità” (non fondata sul merito e il demerito) fra le diverse condizioni sociali, con la conseguenza di un vasto parassitismo economico e sociale nella rendita fondiaria, nell’amministrazione pubblica, nell’apparato ecclesiastico, e di un sistema fiscale totalmente iniquo. Il testo, concepito a beneficio dei più umili, quali erano i suoi parrocchiani, ha la finalità di svelare l’impostura messa in atto dalla Chiesa e dal ceto dominante attraverso l’uso politico della religione. La religione è infatti un’invenzione puramente umana, come dimostrano la molteplicità delle confessioni religiose e i conflitti che ne discendono, che fa leva sulla fede dei più deboli per indurli all’obbedienza e far loro accettare l’oppressione dell’ingiustizia. Tale assunto è dimostrato in modo logicamente consequenziale attraverso otto “prove”, introdotte da una premessa e piano dell’opera, che hanno l’andamento di una predica, e seguite dall’esortazione a liberarsi dalla schiavitù imposta dalla religione (da quella cattolica in particolare) e dai tiranni. Tanto le leggi politiche quanto le ritualità del culto infatti sono state imposte da chi aspira al dominio e contrabbandate per leggi divine. D’altro canto la folla di errori e illusioni prodotte dalla fede sono una palese conferma della distanza siderale che separa tutto questo dalla verità, così come la richiesta di subordinare la ragione alla fede.
Entusiasta della grandezza delle facoltà intellettuali umane, Meslier nega il ruolo creatore di Dio, definisce come assurde le rivelazioni divine e le profezie. Convinto materialista (anche se il termine non compare mai nel suo scritto), egli conduce un’ampia e serrata polemica anticartesiana; ne critica le prove dell’esistenza di Dio, e, pur aderendo alla teoria dei vortici, al contrario di Cartesio, concepisce la materia come increata e capace di movimento. La volontà, il sentimento e il pensiero non sono altro che modificazioni della materia; l’anima, tanto quanto il corpo, non è né spirituale né immortale, ma materiale e mortale.
Senza appello è la condanna della dottrina morale del cristianesimo: punteggiata da menzogne e imposture, essa è all’origine di comandamenti contrari alla giustizia, mentre considera una vita di dolori e sofferenze come la perfetta virtù e il massimo bene per l’uomo. Non solo le azioni ma persino i pensieri sono da essa condannati con la minaccia di pene eterne.
Sul piano politico, pur nel deciso rifiuto della monarchia assoluta di diritto divino e del sistema feudale, Meslier dichiara necessario un rapporto di subordinazione, purché esso sia “equo”. Allo stesso tempo però alcune sue posizioni lo caratterizzano come precursore del socialismo utopico: egli ritiene che gli uomini potrebbero vivere felici senza temere carestie o povertà se possedessero e godessero in comune e in parti uguali le ricchezze della terra, i frutti del loro lavoro e della loro attività.
Come si vede, in Meslier troviamo idee originali insieme a temi tipici dell’Illuminismo. Con stile millenarista e profetico, si scaglia contro la guerra, che viene sempre pagata dai poveri, e si schiera in favore del tirannicidio, all’interno di una visione altrimenti assai pessimistica del mondo, i cui mali costituiscono un’ulteriore prova dell’inesistenza di Dio.
Non si dispone di notizie biografiche di Morelly, ne è ignoto persino il nome (ma in Maffey compare come Étienne-Gabriele) e incerta l’attribuzione di alcuni scritti. Certa è invece l’immediata risonanza della sua opera più famosa, il Codice della natura, o il vero spirito delle sue leggi (1754), che nei tre lustri successivi alla pubblicazione ha cinque edizioni, forse grazie al fatto di essere attribuita a Diderot. Lo scritto è l’evidente risultato del dialogo prontamente instaurato da Morelly con due delle opere destinate a segnare l’epoca: lo Spirito delle leggi (1748) di Montesquieu e il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1753) di Rousseau. Contrappunto alle tesi dell’opera di Montesquieu, vi si afferma il principio dell’unicità e invariabilità della natura, dotata di leggi immutabili ed eterne.
Sebbene inizialmente gli uomini vivessero in una situazione di “indifferenza” nei confronti del mondo, i bisogni li hanno risvegliati così che in natura sono socievoli e concordi, con uguali condizioni di vita e uguali diritti. Dotati di ragione, vivono raggruppati in quelle unità elementari della comunità che sono le famiglie, con proprietà indivisa della terra lavorata in comune, e uso comune dei suoi frutti, generalmente abbondanti. La varietà di bisogni giustifica da sola le diversità degli uomini. Il perfezionamento graduale è ottenuto assicurando a ciascuno il necessario, l’utile e anche il gradevole; all’interno di un’economia ancora agricola, ha largo spazio la “beneficenza”, un sentimento universale che si avvicina al divino mentre la brama di nuocere ai propri simili è sconosciuta ai più. Di qui l’inutilità del diritto civile e del diritto delle genti: leggi stabilite in modo artificiale e fonte di inesauribile corruzione, in quanto hanno diviso la proprietà comune, distruggendo così il naturale principio di sociabilità e di buon senso. È stata la politica “volgare” a stabilire che debbano esistere ricchi e poveri, insieme a una morale altrettanto volgare, tutta costruita sui moventi del timore e della speranza. Un unico, grande vizio affligge gli uomini, l’avarizia o brama del possesso, favorita dalla proprietà privata e superabile proprio eliminando quest’ultima.
Nella quarta parte, o appendice, intitolata Modello di legislazione conforme alle intenzioni della Natura, testo che è stato accostato all’Utopia di Tommaso Moro, Morelly sviluppa così quella visione dello Stato perfetto già anticipata nei primi tre canti del poema didascalico Naufrage des isles flottantes ou Basiliade (Naufragio delle isole galleggianti, 1753). Egli architetta un’organizzazione sociale ferrea, patriarcale e con una regolamentazione molto rigida, il cui primo articolo è la proprietà indivisa e il mantenimento di tutti i cittadini a spese pubbliche. A essere regolamentata è la vita in tutte le sue sfaccettature, personale, sociale e politica, secondo norme tanto precise quanto costrittive, alcune delle quali saranno riprese nella pratica politica da Babeuf e dai suoi seguaci.
Proprio come Morelly anche Dom L.M. Deschamps ha subito una sorta di ostracismo culturale da parte degli esponenti più in vista delle Lumières, al quale entrambi hanno a loro volta reagito con atteggiamento sdegnoso, frutto insieme di amarezza e senso di superiorità. Deschamps sostiene che la società, a differenza di ciò che ritiene la platea dei philosophes, non possa essere riformata, ma solo sovvertita da una rivoluzione. L’esito della rivoluzione è un état de mœurs popolato da uomini dotati di una natura del tutto nuova, opposta alla presente, e governato da una religione totalmente umana. Fino a che l’umanità non sarà giunta a ciò, religione e politica non possono che sostenersi reciprocamente, essendo la prima l’unica reale garanzia contro i rischi di disgregazione della seconda, e dunque della società.
Nella società rivoluzionata invece vige l’uguaglianza dei beni, con tutti i suoi riflessi sul piano morale oltre che sociale. In un’isola lontana, ci dice Deschamps, la felice rivoluzione, in attesa di un suo più vasto propagarsi, ha già sortito i propri effetti: la semplicità nello stile di vita è il carattere dominante, in risposta a una limitata serie di bisogni primari. In una comunità che coincide con il villaggio, dove tutto, persone e beni, uomini, donne e bambini sono in comune, si attende, con sforzo misurato e alternandosi, ai diversi tipi di lavoro agricolo; si studia la natura associandovi la pratica dell’esempio – unica forma di educazione permessa – e quella dell’insegnamento orale, per ottenere il quale è stato preventivamente necessario bruciare tutti i libri. Alla fine è rimasto solo quello del nostro autore, sulla verità, ma anch’esso dovrà da ultimo subire la sorte di quelli che l’hanno preceduto.
L’abito totalitario e l’intolleranza tipici di tanti creatori di utopie si sposano in Dom Deschamps con veraci interessi filosofici. È stato osservato che egli è il pensatore che più li ha coltivati entro l’ambiente illuministico, nel tentativo, non riuscito, di diffondere la propria metafisica presso i suoi colti interlocutori, Rousseau per primo. La verità metafisica trovata attraverso lo strumento della “evidenza” (e in dialogo serrato con Pascal e Malebranche) è infatti l’idonea via d’accesso per la nuova morale in grado di trasformare la natura umana.
Dom Deschamps ha lasciato ai posteri un Dossier di manoscritti, in cinque volumi; nel primo compare lo scritto da lui ritenuto più importante La vérité, le vrai système. Pubblicate in vita, anonime, sono Lettres sur l’esprit du siècle (1769) e Voix de la raison contre la raison du temps (1770), ove già sono schizzati i temi di fondo del suo sistema.
Louis-Sébastien Mercier, poeta, grande ammiratore e amico di Rousseau e Diderot, con i quali collabora, scrive L’an 2440, rêve s’il en fut jamais in cui prefigura la Parigi del 2440 come una società futura, felice, pulita e ordinata, senza armi né eserciti né odi nazionali, con fiori, fontane e costruzioni ariose, dove i signori camminano invece di andare in carrozza, e il comportamento di tutti è semplice e modesto. Forte delle nozioni di progresso scientifico e di perfettibilità umana, egli raffigura così una società utopica, o per meglio dire “ucronica”, in cui gli uomini finalmente felici possono dedicarsi alle arti e all’istruzione e le donne alla loro vera funzione, la cura della famiglia e dei figli. Guidato da un senato che si riunisce pubblicamente in piazza ogni settimana e che detiene il potere reale persino sopra il re, quello di Mercier è un mondo dove c’è la religione ma non la teologia né gli ordini monastici; ci sono – come in Morelly – le carceri (e anche i manicomi), ma vigono la giustizia e una nuova morale civica; tutti lavorano ma in misura umana così da eliminare quella spaventosa ineguaglianza che caratterizza il mondo odierno; c’è piena libertà di stampa, proporzione tra i delitti e le pene, è previsto il divorzio, è stata abolita la tortura ma non la pena di morte per furto. Non c’è conflitto tra centro e periferia in quanto ogni provincia armonizza le sue leggi particolari con le leggi generali, le terre sono ben coltivate, i granai sono sempre pieni e il pane mantiene costante il suo prezzo, la prostituzione è scomparsa, così come il lusso e l’invidia. I cittadini hanno l’obbligo di versare un cinquantesimo delle loro entrate e fare uso di denaro pubblico è crimine di alto tradimento. Di tutto il sapere del passato tramandato nei libri rimane solo il meglio, il resto viene bruciato, compresi i testi di storia, che, vergogna dell’umanità, è eliminata in favore della pittura, della scultura e dell’incisione.
Ma questo non è il solo mondo possibile: tutti gli astri dell’universo sono abitati. Alla morte dell’uomo l’anima rinasce trasmigrando infatti da pianeta a pianeta secondo un cammino progressivo verso la perfezione, fermandosi a un certo grado della scala, a seconda di quanto virtuosamente egli sia vissuto.
Mercier è autore inoltre di Tableau de Paris (1781) e Le nouveau Paris (1798), di drammi, di un trattato, Du théâtre, ispirato a Diderot, e di un’importante opera linguistica, Néologie ou Vocabulaire des mots nouveaux ou à renouveler (1801).
Di poco successivo al codice di Morelly è l’opera Dei diritti e dei doveri del cittadino (1758, pubblicato postumo nel 1789) di Gabriel Bonnot de Mably, di nobili origini, fratello di Condillac. Spirito riformatore, attratto dal pensiero utopico ma troppo realista per poterlo sottoscrivere, l’abate di Mably aderisce all’idea centrale del giusnaturalismo di stampo antico ovvero la priorità della legge naturale sulla legge positiva, polemizzando con i principali autori del contrattualismo moderno, da Grozio a Hobbes, da Wolff a Pufendorf.
Il punto di partenza dell’indagine condotta in Des droits et des devoirs du citoyen è l’obbedienza dovuta dal cittadino al governo e quindi alle leggi da esso emanate. È la natura infatti che prescrive all’uomo un ordine entro il quale anche le società devono inserirsi. Quanto alla natura umana, decisivo è il ruolo delle passioni, quale componente non solo ineliminabile ma utilmente fattiva di una costituzione che ha tuttavia nella ragione la più alta delle sue prerogative, di origine divina. Alla ragione si affianca la libertà, fonte prima del rifiuto del dispotismo e dell’arbitrio monarchico.
Sulla scorta di un passo tratto dalla Repubblica di Cicerone sulla legge naturale, la questione dell’obbedienza alle leggi prontamente si traduce in quella della giustizia delle leggi, un tempo in grado di garantire una libertà oggi perduta.
A fondamento della sua dottrina sta l’idea che gli uomini sono nati uguali e liberi, senza diritti gli uni sugli altri. La natura non ha creato né re, né magistrati, né sudditi, né schiavi e ha dato agli uomini una sola legge, quella di lavorare alla loro felicità e benessere.
La nozione di contratto sociale è perciò accettabile purché sia un contratto “ragionevole”, ossia capace di rispettare gli imprescrittibili diritti dati all’uomo dalla natura e di tenere conto che la sovranità deriva dal popolo, detentore del diritto di mutare costituzione non appena essa si riveli ingiusta. Alla proprietà privata, causa di tutte le disgrazie bisogna sostituire la comunità dei beni. Tale posizione ritorna anche in Entretiens de Phocion sur le rapport de la morale avec la politique (anonimo, 1763) e poi in De la législation, ou Principes des lois (1776).
L’obiettivo è l’instaurazione graduale – evitando quindi ogni guerra civile – di una repubblica, ossia di un regime ove, sull’esempio della Svezia, il potere sia ripartito fra esecutivo e legislativo e si sia perso anche il ricordo di cariche perpetue e ereditarie. Proprio la necessità di contrappesi all’autorità centrale porta in più occasioni il filosofo a manifestare simpatia per il ruolo storico giocato dalla nobiltà e a mostrare al contempo diffidenza per la borghesia in ascesa. Non a caso in Doutes proposées aux philosophes économistes sur l’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques (1768) egli polemizza con la filosofia politica dei fisiocrati su cui tanto si dibatte all’epoca.
L’eccezionalità della figura di Ferdinando Galiani, studioso napoletano di vasta cultura e di formazione vichiana, sta nel suo precoce contributo alla creazione della moderna economia politica. Per apprezzarlo basta confrontare la data di pubblicazione del trattato Della moneta (1751) con quelle del Tableau économique di François Quesnay (1758) e di Wealth of Nations di Adam Smith (1776), oltre che tenere ovviamente presente il diverso stadio di sviluppo economico dell’Italia meridionale, della Francia e più ancora dell’Inghilterra..
In Della moneta sono gettate le fondamenta della scienza economica e in particolare è messa a punto una teoria del valore fortemente anticipatrice, che tuttavia eserciterà un’influenza soltanto sul finire del secolo.
Il trattato si inserisce nel contesto di una serie di ricerche condotte a metà secolo sulle cause e i rimedi di un’inflazione perdurante non solo in Italia ma in gran parte d’Europa e all’origine di una crescente pauperizzazione. Le dottrine di riferimento sono quelle del tardo-mercantilismo (del resto mercantilista, e studioso della moneta, è Locke, cui pure Galiani si ispira). Ma il suo lavoro si distingue dagli altri per la novità di un’indagine concentrata sul valore monetario e su ciò che lo determina. Appurata la relazione fra valore della moneta e valore dei beni, egli definisce quest’ultimo in rapporto contestuale con l’utilità e la rarità del bene, per notare infine come lo stesso metallo di cui sono fatte le monete sia da annoverarsi fra le cose che hanno valore. È grazie al suo “valore intrinseco” che essa è usata come mezzo di scambio ed è per questo motivo che vera moneta può essere solo quella metallica.
Inviato a Parigi dal ministro Tanucci, Galiani trascorre nella Ville lumière dieci anni ricchi di vita intellettuale (1759-1769) e alla sua partenza lascia il manoscritto dei Dialogues sur le commerce des blés nelle mani di Diderot, che nel 1770 ne cura la pubblicazione. Percorsa da una polemica antifisiocratica basata sull’idea di una preminenza della manifattura, l’opera è testimonianza dell’aprirsi delle prime crepe all’interno stesso di un ambiente fino a quel momento favorevole proprio alla fisiocrazia.
In Francia il dibattito sulla liberalizzazione del commercio dei grani si svolge sullo sfondo del confronto attorno alla politica economica e finanziaria del ministro di Luigi XIV, Jean-Baptiste Colbert, sostenitore dell’intervento dello Stato in economia. Tra i protagonisti, l’intendente di commercio Jean-Claude-Marie-Vincent de Gournay, fautore invece della liberalizzazione dell’industria e del commercio, via maestra per realizzare il principio fondante della sua concezione, ossia l’estensione dell’attività commerciale al settore della produzione agricola. È la scienza del commercio l’oggetto primo della riflessione teorica di Gournay; da qui derivano, da un lato, la sua posizione di maggior favore nei confronti dell’industria rurale piuttosto che di quella cittadina e, dall’altro, la lotta contro il sistema delle corporazioni nell’industria, di derivazione feudale. A lui si fa risalire il famoso monito, contrassegno del liberismo: laizzez faire, laizzez passer les marchandises, anche se gli studi più recenti, basati sul ritrovamento di inediti pubblicati solo all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, tendono a ridimensionare l’interpretazione liberale offerta dal suo allievo Anne-Robert-Jacques Turgot nell’Éloge de Vincent de Gournay e anche a mettere in discussione l’idea, che pareva consolidata, di un Gournay “precursore” dei fisiocrati.
D’ora in poi non sarà più il commercio al centro del dibattito – segno di un sistema mercantilista al tramonto – ma l’industria agraria, prima, e l’industria cittadina poi, assurte al ruolo di elemento propulsore del nuovo modo di produzione capitalista.
François Quesnay, autodidatta fino all’adolescenza, nel 1749 viene chiamato alla corte di Versailles e quindi diventa primo chirurgo del re. Negli anni Cinquanta comincia a dedicarsi agli studi di economia, coltiva strette relazione intellettuali con l’ambiente dei philosophes, scrive alcune voci per l’Encyclopédie. Tra il 1757 e il 1758 raccoglie attorno a sé un gruppo di personalità quali Victor Riqueti de Mirabeau (1715-1789), Mercier de la Rivière (1719-1792) e Guillaume Le Trosne (1728-1780) a formare una scuola di pensiero che si auto-denominerà “fisiocrazia” (titolo di una raccolta di scritti in due volumi apparsa nel 1767 per le cure di Dupont de Nemours). Molti degli altri scritti di Quesnay e del gruppo sono pubblicati nella rivista “Journal de l’agriculture, du commerce et des finances” a partire dal 1765.
Ancora una volta è la natura, e le immutabili leggi che la presiedono, a regolare il ritmo della vita, in questo caso della vita economica. Le tre edizioni in otto anni del Tableau économique sono il referente più notevole per gli studi economici in Europa nel ventennio 1760-1780; si tratta di un quadro della distribuzione della ricchezza, ossia della circolazione del denaro e delle merci, durante un ciclo annuale, con parallelismo fra l’organismo biologico e l’organismo economico: come nel primo circolano i fluidi, nel secondo circola il prodotto netto.
Pur consapevole dei differenti ritmi di sviluppo, nel quadro dell’economia essenzialmente agricola tipica della Francia, Quesnay guarda alla situazione inglese e a essa si ispira per consolidare l’affermazione dell’allora nascente borghesia agraria, con l’obiettivo di superare la fase di un’economia di mera sussistenza e quindi incrementare la redditività dell’agricoltura. Egli intuisce pertanto, come è stato notato, le enormi potenzialità del sistema di produzione capitalistico, ma l’interesse esclusivo per il settore dell’agricoltura gli impedisce di allargare lo sguardo fino al settore manifatturiero. Oggetto della ricerca è infatti la produzione agricola, considerata la vera fonte di ricchezza e il motore dell’intera economia nazionale, al contrario di quanto avevano teorizzato i teorici del mercantilismo per i quali l’incremento della ricchezza derivava dallo scambio delle merci.
Come già Mirabeau, anche Quesnay sostiene la necessità di tenere liberi i prezzi dei prodotti agricoli e in generale è fautore di una liberalizzazione del commercio, in opposizione a tutta la precedente politica economica di Colbert, che vietava l’esportazione dei grani e la libera importazione dei manufatti.
Nella ricerca del “prodotto netto” – quel surplus che eccede dallo scarto fra ricchezza prodotta e ricchezza consumata – l’indagine si appunta sul ruolo delle tre classi sociali individuate, quella dei proprietari (l’aristocrazia terriera), degli imprenditori agricoli, l’unica classe ritenuta produttiva, proprio perché solo la natura è in grado di moltiplicare la resa delle prestazioni umane, e degli artigiani, considerati “classe sterile”, ovvero incapace di produrre surplus.
Sul piano fiscale, a fronte di una tassazione insieme tanto complessa e disorganica quanto arbitraria, Quesnay propone un’imposta unica pagata dal proprietario fondiario e proporzionale al prodotto netto. In più ampia prospettiva filosofica, la caratteristica principale della visione di Quesnay è un ottimismo che contempla la possibilità di armonizzare l’interesse individuale con l’interesse collettivo. Sua è l’idea che anche i diritti, innanzitutto il diritto di proprietà, siano in genere rispettati dagli altri, sì che spontaneamente si producano consonanza d’intenti e armonia: le classi sociali infatti sono strettamente interdipendenti e la ricchezza può scaturire solo dalla collaborazione tra loro.
Se la Francia della metà del Settecento vive un periodo di sostanziale sviluppo economico, sul finire degli anni Sessanta entra però in una fase di scarsi raccolti agricoli con un conseguente peggioramento delle condizioni di gran parte della popolazione: questa è la ragione principale per cui la scuola fisiocratica inizia a perdere importanza, oltre che sul piano scientifico anche su quello politico, e i suoi oppositori cominciano invece a salire alla ribalta.
Nello stesso periodo, in Inghilterra, con l’industrializzazione e lo sviluppo delle manifatture si ha un incremento della produttività, una crescita dei salari e un aumento della popolazione. Sospeso tra utopia e riflessione critica sul proprio tempo, e annoverato come il più significativo precursore di quell’Adam Smith che fonderà il liberismo, è il medico e filosofo olandese Bernard Mandeville. Attivo a Londra nel primo quarto del XVIII secolo, nel poemetto The grumbling hive, or knaves turn’d honest (1705, con aggiunte nelle edizioni successive) egli presenta due modelli di società, richiamando Platone quando descriveva la contrapposizione fra la piccola polis ordinata e morigerata nei costumi – ma secondo i sofisti tanto misera da essere più adatta ai porci che agli uomini – e la tronfia città del lusso. Mandeville descrive una prima società come comunità virtuosa di piccole dimensioni e pacifica, con prezzi calmierati, statisti e popolo minuto liberi finalmente dall’obbligo di indossare la maschera dell’ipocrisia, tribunali civili inoperosi, l’intero apparato della “giustizia”, compreso il boia, pressoché smantellato, e così via. Tuttavia per tale comunità è impossibile adempiere ai compiti necessari per essere una società fiorente. Vivere nell’agio senza grandi vizi è infatti per Mandeville una sterile utopia.
La seconda società, che si contrappone appieno alla prima, è in realtà la Londra del tempo: sporca, affollata, ma piena di risorse e mezzi ottenuti grazie ai grandi traffici e alla supremazia militare della regina dei mari. Qui la percezione degli svantaggi lascia il campo alla consapevolezza dei vantaggi. L’autore sembra voler suggerire che in questo mondo, così simile all’Inghilterra di inizio Settecento, non si possono non comprendere i benefici di uno sviluppo economico e sociale in tumultuosa ascesa, guidato da un potere politico forte e da un’abile amministrazione della cosa pubblica.
La teoria che per prima illustra sistematicamente il mutamento nel modo di produzione è il liberismo (liberalismo in economia) teorizzato da Adam Smith, filosofo morale prima che economista, allievo di Francis Hutcheson, docente di logica e successivamente di etica e giurisprudenza all’università di Glasgow, autore di una Theory of morals sentiments (1759) incentrata sulla nozione di “simpatia” quale criterio di giudizio sul cui fondamento approvare o disapprovare le azioni dell’uomo. Durante un viaggio in Svizzera e in Francia stringe rapporti con le figure più rappresentative dei Lumi e della scuola fisiocratica.
Esponente di prestigio di quella filosofia anglo-scozzese che aveva eletto a tema prioritario di indagine l’analisi della natura umana e posto le basi dell’utilitarismo, Smith applica all’ambito economico il metodo utilizzato in quel campo, diventando uno dei padri dell’economia politica classica con Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations. Secondo Smith la società non deve contrastare l’ordine naturale, bensì essere in sintonia con esso; le istituzioni politiche a loro volta devono guardarsi dall’esercitare violenza su una natura umana guidata da impulsi dotati tutti di una loro ragion d’essere e di una loro funzionalità, dall’istinto di conservazione al senso della proprietà, dalla simpatia alla propensione al lavoro. Se non si infrange quell’ordine, la comunità umana riuscirà a perseguire l’interesse collettivo mentre ciascuno dei suoi membri persegue il proprio interesse privato, senza alcuna contraddizione: è la dottrina della cosiddetta “mano invisibile”.
Il motore che ha storicamente messo in movimento il progresso nella vita economica è stata la divisione del lavoro, alla cui analisi Smith riserva l’incipit dell’opera. Stabilita una proporzione fra divisione del lavoro e progresso di un Paese, è proprio questo tema a fornire il migliore argomento contro le tesi fisiocratiche, giacché è l’industria, e non l’agricoltura, a permettere una maggiore divisione del lavoro. Egli concorda con i fisiocrati nell’individuare nell’agricoltura il primo ambito di sviluppo dell’economia: storicamente essa ha prodotto un surplus che, circolando, ha riversato i suoi benefici sulle altre classi sociali.
L’indagine sulla divisione del lavoro introduce quella sull’origine della monete, con la conseguente distinzione fra valore di scambio e valore d’uso dei beni. Essi hanno di conseguenza un prezzo nominale (in moneta) e un prezzo reale, che equivale alla quantità di lavoro necessaria per l’acquisto di quel bene. Non è dunque la moneta ma il lavoro a essere la misura del valore di scambio delle merci. L’analisi del valore reale prosegue con l’esame delle tre parti componenti il prezzo, ovvero il valore aggiunto dal lavoro operaio, il profitto del capitalista e la rendita del proprietario terriero, e poi con un’indagine sul salario operaio, che esiste in quanto tale solo perché esiste accumulazione capitalista; di qui la contrapposizione di interessi tra operaio e padrone.
Oltre a combattere qualsiasi forma di privilegio economico, tra cui i dazi troppo onerosi, il monopolio del mercato e altre limitazioni, il liberismo di Smith limita in modo consistente l’intervento dello Stato in economia, riservandogli come soli settori di competenza la difesa, l’amministrazione della giustizia, le opere pubbliche.
Ferdinando Galiani
Moneta ideale e moneta reale
Della moneta
Di due sorte è la moneta, ideale e reale; e a due diversi usi è adoperata, a valutare le cose e a comperarle. Per valutare è buona la moneta ideale così come la reale, e forse anche più: anzicché ogni moneta quando apprezza alcuna cosa, è considerata come ideale: il che vuol dire che una sola voce, un solo numero basta a valutare ogni cosa, non consistendo il prezzo che in una proporzione, la quale ottimamente co’ numeri si esprime e s’intende. Perlocché riguardo a quest’uso io definisco la moneta così: “Moneta è una comune misura per conoscere il prezzo d’ogni cosa”. Utilissimo oltre ogni credere è quest’uso, perché senza una comune misura mal si conosce la proporzione delle cose; mentre riferendosi una ad un’altra solo la ragione fra loro due si viene ad intendere. S’io dico un baril di vino vale 50 libbre di pane, io non conosco altra proporzione che fra il grano e il vino: ma s’io sapessi che il baril di vino vale un ducato, subito io intenderò con idea distinta la proporzione fra ’l vino ed un infinito numero di generi i cui prezzi mi sono noti. E con quanto poca fatica questa intelligenza si venga ad acquistare lo sa ciascuno. Se giovi, non credo sia da dubitarne; perocché la nostra felicità da niente altro deriva che dal formare retti e veri giudizi, non avendo le disgrazie tutte, senza eccettuarne veruna, altro padre che l’errore: ed i giudizi non sono mai veri, se le idee non sono vivacemente chiare nell’intelletto.
L’altro uso della moneta è di comperare quelle cose istesse che ella apprezza. A questo, non altro che la reale, cioè il metallo, si può adoperare; e se con alcun’altra spezie di cosa si compra, egli è perché queste rappresentano il metallo: che è quanto dire, che il metallo assolutamente ed originariamente è quello che compra, ed equivale a tutto. Perciò la moneta reale stimo che si debba definire così: “Moneta sono pezzi di metallo, per autorità pubblica fatto dividere in parti o equali o proporzionali fra loro, i quali si danno e si prendono sicuramente da tutti come un pegno, e una sicurezza perpetua di dover avere da altri, quandoché sia, un equivalente a quello che fu dato per aver questi pezzi di metallo”.
Ferdinando Galiani, Opere, a cura di F.Diaz, L. Guerci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975
François Quesnay
L’attività dell’industria...
Encyclopédie, Grani
I. L’attività dell’industria non moltiplica le ricchezze.
II. L’attività dell’industria contribuisce all’incremento della popolazione e all’aumento delle ricchezze.
III. Le attività dell’industria che occupano uomini a pregiudizio della coltivazione della terra nuocciono all’incremento della popolazione e all’aumento delle ricchezze.
IV. Dalla ricchezza degli agricoltori deriva la ricchezza della agricoltura.
V. L’attività dell’industria contribuisce ad aumentare gli introiti delle proprietà terriere, e gli introiti delle proprietà terriere alimentano l’attività dell’industria.
VI. Una nazione con un attivo commercio di prodotti del suo suolo, può sempre alimentare, almeno per sé, un attivo commercio di prodotti industriali.
VII. Una nazione che ha un commercio poco attivo di prodotti del suo suolo, e per sussistere è ridotta a un commercio di prodotti dell’industria, è in condizioni precarie ed incerte.
VIII. Un attivo commercio interno di prodotti industriali può essere alimentato solo dalle rendite delle proprietà agricole.
IX. Una nazione che possiede un grande territorio, e che fa ribassare il prezzo dei prodotti del suolo per favorire l’industria, si distrugge da ogni parte.
X. I vantaggi del commercio con l’estero non consistono nell’aumento delle ricchezze pecuniarie.
XI. Lo stato della bilancia commerciale fra diverse nazioni non ci dice quali vantaggi ciascuna tragga dal commercio né quali siano le sue ricchezze.
XII. La ricchezza di una nazione si giudica dal commercio interno e dal commercio con l’estero, e soprattutto dalle condizioni del commercio interno.
XIII. Una nazione non deve invidiare il commercio dei vicini quando trae il miglior rendimento possibile dal suo suolo, dai suoi uomini, dalla sua navigazione.
XIV. Nello scambio commerciale le nazioni che vendono le derrate più necessarie o più utili sono in vantaggio su quelle che vendono articoli di lusso. Una nazione a cui le proprietà agricole assicurano un commercio di prodotti del suolo, e di conseguenza anche un commercio interno di prodotti dell’industria, è indipendente dalle altre. Commercia con queste solo per mantenere in vita, facilitare ed estendere il suo commercio con l’estero; deve, nella misura del possibile, conservare l’indipendenza e la posizione di vantaggio nel commercio con gli altri paesi, acquistare da essi solo prodotti di lusso e vendere loro articoli di prima necessità.
Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di A. Pons, Milano, Feltrinelli, 1966
Adam Smith
Se tutti perseguono i propri interessi, aumenterà anche la richezza collettiva
Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Libro IV, cap. II
Cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società. Invero, generalmente egli né intende promuovere l’interesse pubblico né sa quanto lo promuova. Preferendo sostenere l’industria interna anziché l’industria straniera, egli mira soltanto alla sua sicurezza; e dirigendo quell’industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Né per la società è sempre un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intenda realmente promuoverlo. Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto da coloro che pretendono di trafficare per il bene pubblico. Questa invero non è una pretesa molto comune presso i commercianti e bastano pochissime parole per dissuaderli dal professarla.
Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. Bagiotti, T. Bagiotti, Torino, UTET, 1975