MODELLO (τύπος, παράδειγμα, πρόπλασμα; exemplar)
L'uso di modelli si può presupporre anche nell'antichità per le varie arti e per le varie tecniche, scultura, toreutica, rilievo, coroplastica, pittura, mosaico, decorazione vascolare, glittica, incisione monetale, architettura, anche se non sempre si possono citare prove precise e fonti letterarie che attestino i varî processi di lavorazione e la preparazione di modelli.
Nel campo della scultura specialmente le grandi opere collettive, le vaste decorazioni architettoniche eseguite da schiere di artisti, necessariamente di vario temperamento e di vario livello, presuppongono in tutte le civiltà un progetto preliminare generale, un modello creato da un maestro dirigente, ideatore, e tradotto e interpretato dagli esecutori. La ripetizione di tipi nella decorazione a rilievo dell'arte mesopotamica attraverso una diversità qualitativa di esecutori non può non far capo a modelli di maestri, anche se non sappiamo come precisamente questi venissero creati. Si è pensato che si modellassero nell'argilla rilievi di piccolo formato, come uno con scena di caccia dal palazzo di Assurbanipal, come guida per la traduzione in grande formato in rilievi decorativi, e che anche le sculture a tutto tondo avessero modellini ridotti, come i piccoli tori alati in calcare fino di minuta esecuzione; e modelli sono stati considerati anche riquadri fittili con piccole figure. Anche l'arte egizia, così ancorata ad un repertorio tipologico costante, doveva esser portata a fissarlo in modelli per le varie tecniche e anche se le scene in pittura e in rilievo specialmente da Tebe che illustrano realisticamente il vario lavoro degli scultori e dei pittori non mostrano mai un modello vicino agli artisti intenti al lavoro, lo stesso procedimento tecnico invita a supporlo. Un lavoro così arduo e rischioso come quello di scolpire i duri graniti e i basalti non ammetteva pentimenti e richiedeva colpi precisi e sicuri imponendo un'idea ben definita in tutti i particolari dell'immagine e quindi un m., anche se le stesse opere d'arte già create nella fissa tradizione iconografica potevano costituire in molti casi modelli concreti.
In molti centri di scavo si sono infatti trovati rilievi e sculture in calcare tenero generalmente di piccole dimensioni, da 10 a 25 cm, che sembrano esercizi graduali di scultori. Si hanno serie di lastre scolpite, alcune su due facce, come ad esempio quelle da Tanis, su cui uno stesso motivo, quale teste di cinocefalo, di leone, di leonessa, appare in varî stadî di lavorazione dal semplice abbozzo alla più completa rifinitura; lo stesso si può dire per serie di teste reali, come quelle di Saqqārah, delle quali una è anche tagliata in mezzo per poterne metter meglio in evidenza il profilo, o come le altre serie provenienti da Tanis e dal Fayyūm. Si hanno anche modelli di caproni, sciacalli, urei, di parti del corpo, gambe, piedi, mani. Una lastra da Tanis mostra un tipo di Iside stante sia allo stato di abbozzo, sia rifinita.
Su alcune sculture e su alcuni rilievi si notano tracce di una quadrettatura che sembra abbia servito per riprodurre la rappresentazione in scala diversa dal modello. Questo sistema della quadrettatura si riscontra anche in pitture egizie e serviva appunto per trasportare in scala maggiore sulla parete il m., ugualmente quadrettato, disegnato sul papiro o su lastre di pietra o di legno (v. ostraka). Anche se talvolta uno schizzo a sanguigna e correzioni a matita nera rivelano un lavoro immediato e un intervento diretto del maestro, in genere si doveva procedere in queste pitture in base a "cartoni" ridotti che servivano di modello. Si è notato anche che nell'eseguire rilievi si tracciavano prima sul muro linee a sanguigna in senso orizzontale e verticale per fissare l'asse delle figure, l'allineamento delle spalle e di altri punti del corpo.
L'uso dei modelli deve essersi fatto sempre più diffuso con l'affievolirsi dell'inventività creatrice dell'arte egizia, ma non è certo limitato all'epoca saitica e può verosimilmente farsi risalire ad epoca ben più remota.
Probabilmente l'uso del gesso, che è attestato largamente in Egitto, favorì anche la creazione di calchi, che poterono servire come modelli, e quella di modelli veri e proprî. È nota la maschera in gesso di Amenophis IV, e non mancano teste di gesso, forme in gesso per parti di figure, mentre abbonderanno poi i modelli in gesso nel periodo ellenistico e romano in Egitto.
Nell'arte greca per la statuaria in marmo durante il periodo arcaico sembra, dagli studî compiuti soprattutto dal Blümel, che gli scultori affrontassero direttamente il marmo girando intorno alla figura e togliendo progressivi strati di marmo con lo scalpello a punta fino al nucleo definitivo che veniva rifinito, sicché ogni stadio dell'esecuzione, nel precisare sempre meglio la forma, finiva per essere un lavoro immediato originale e creativo. Per la statuaria in bronzo invece, se la più arcaica tecnica dello sphyrèlaton a lamine battute inchiodate e saldate poteva anche prescindere da un modello, con l'introduzione della fusione, prima piena e poi vuota, si rendeva necessaria la creazione di un modello fittile o in cera, come nelle precedenti arti orientali ed egizia. Forse quest'uso del modello per i bronzi fusi favorì l'introduzione dell'uso di modelli fittili per la statuaria in marmo, uso che si rese necessario dapprima per le decorazioni complesse di architetture e soprattutto del tempio, dove non solo bisognava calcolare prima della definitiva realizzazione gli effetti, la composizione, ma spesso ci si doveva servire di più esecutori che non potevano lavorare indipendentemente creando secondo il proprio temperamento e il proprio linguaggio le parti loro affidate, compromettendo l'unità decorativa. Un maestro creatore dirigente doveva così ideare l'insieme, concretando il progetto in modelli sia disegnativi, sia plastici in scala ridotta, che potessero servire di guida sicura per la realizzazione nel marmo da parte di varî technìtai. Questa preparazione dei modelli e questa organizzazione del lavoro collettivo dovette certamente progredire e perfezionarsi durante il V sec. a. C. e, pur potendosi presupporre anche prima, è documentata chiaramente nelle sculture del tempio di Zeus ad Olimpia. Sulla fronte dell'indovino di sinistra nel frontone E rimane una bozza che è uno dei "punti" per le misurazioni prese sul modello plastico e riportate sul marmo durante la lavorazione, così come tracce di queste bozze scalpellate e non rifinite per i punti rimangono sulla fronte del Lapita dalla fronte corrugata nel frontone O e del giovane Eracle della metopa del leone nemeo. Queste tracce di "punti" attestano dunque che il maestro creatore aveva fatto modelli fittili sia per le metope sia per i frontoni, e l'analisi compiuta dallo Schweitzer sulle sculture del Partenone ha dimostrato che in quest'opera molto più complessa, di due decennî più recente, Fidia creò modelli forse solo disegnativi delle metope, affidate a scultori di diversa formazione, in modo che le differenze stilistiche sono piuttosto sensibili, intervenendo a ritoccare e rifinire alcune parti; eseguì modelli plastici rifiniti per i blocchi del fregio E ed O, realizzando forse nel marmo i blocchi centrali come campione; si limitò a modelli disegnativi per i fregi dei lati lunghi N e S, che furono tradotti sul marmo da varie squadre; fissò certamente in modelli plastici in scala ridotta, ma ben rifiniti, le statue frontonali, intervenendo largamente nella realizzazione in marmo. Proprio uno dei meriti del maestro è quello di aver saputo organizzare una complessa officina, con schiere di aiuti, di averli progressivamente affiatati nel lavoro collettivo, nell'interpretazione dei modelli e del suo stile. Il trovamento di piccole riproduzioni marmoree di alcune statue del frontone O del Partenone ad Eleusi dimostra una derivazione, non già dagli originali posti a notevole altezza, ma da modelli esistenti nel laboratorio e forse passati in seguito nelle botteghe di artisti e di copisti. Una variante nelle gambe umane di Cecrope potrebbe anche far pensare a una derivazione da un modello antecedente a quello definitivo.
Il Partenone segna il massimo sviluppo della decorazione templare, ma anche nelle altre imprese analoghe successive si fece certamente uso di varî modelli, e per l'Eretteo le figure ad altorilievo del fregio, eseguite da diversi scultori come risulta dai rendiconti, presuppongono certamente un modello e un progetto generale di tutto il fregio da parte di un maestro creatore. E per l'Eretteo del resto i rendiconti attestano l'uso specifico di modelli per particolari decorativi come rosette e kymàtia a foglie (Arx Athenarum, 3, 107). Un'altra testimonianza epigrafica sull'uso di modelli nella decorazione plastica templare l'abbiamo, per il IV sec., nei rendiconti del tempio di Asklepios ad Epidauro dai quali sappiamo che Timotheos era stato pagato 900 dracme per l'esecuzione di tỳpoi, oltre ad aver eseguito gli acroterî di un frontone per 2240 dracme. Molto si è discusso sul significato di questi τύπα, poiché la parola tỳpos ha più significati; si è avanzata l'ipotesi che fossero fregi, o che fossero rilievi isolati. Ma poiché le sculture del tempio furono eseguite da varî scultori come Timotheos, Hektoridas, Theo..., è più probabile che si tratti effettivamente di modelli creati da Timotheos, come maestro dirigente. Rendiconti di Epidauro attestano anche modelli per particolari decorativi come per le teste leonine della sima del tempio di Asklepios e per ornamenti della porta della Thòlos, mentre a Delo si ha notizia epigrafica del modello per un capitello.
Se per decorazioni templari meno impegnative durante l'ellenismo o affidate a un solo scultore ci si può essere limitati a soli progetti disegnativi, un m. ben definito si deve presupporre, ad esempio, nel caso del grande fregio dell'Ara di Pergamo tradotto nel marmo da molti scultori, diversi per provenienza e per scuola, che riescono ad ottenere un fregio stilisticamente unitario e di un linguaggio così definito.
Come per l'architettura, anche i colossi crisoelefantini del V sec., quali lo Zeus di Olimpia o la Parthènos, costituivano un lavoro collettivo di un ergastèrion, presupponendo un preciso modello del maestro creatore, e le recenti scoperte nell'officina fidiaca di Olimpia con il trovamento delle matrici fittili usate per le parti auree, e dei varî strumenti, sagome plumbee, matrici, illumina sul metodo di lavoro.
Un problema particolare per la statuaria è quello riguardante anzitutto il modello rappresentato da una persona viva. Se l'arte arcaica greca nella sua visione ideale mirando al tipo può avere dai modelli viventi solo uno spunto, il crescente naturalismo li rende necessari, come in altre arti. Si è detto che per il nudo maschile la palestra greca poteva offrire un largo campo di studio agli artisti, che con tanto interesse sperimentano incessantemente la rappresentazione anatomica dalla fine del VI sec. a. C. in poi, e ne fanno uno dei problemi centrali in plastica e in pittura. Modelli femminili per il nudo sono ricordati nelle fonti letterarie a partire dalla fine del V sec. e particolarmente per i pittori. Zeusi sceglie fra le fanciulle agrigentine cinque che posarono nude per un quadro da dedicare nel tempio di Hera Lacinia (Plin., Nat. hist., xxxv, 64); Alessandro dona ad Apelle la favorita Pancaspe, che posava nuda per il pittore e servì di modello per la celebre Afrodite anadiomène (Plin., Nat. hist., xxxv, 86-87). Socrate avrebbe incontrato la etera Theodoto presso un pittore per il quale posava (Xenoph., iii, 11). Glycera servì di modello per la Stephanoplòkos o Stephanòpolis di Pausias (Plin., Nat. hist., xxxv, 125). Arellius, del periodo augusteo, ritrasse tutte le sue diverse amanti sotto le sembianze di dee (Plin., Nat. hist., xxxv, 119). L'etera Frine è noto che fu il m. preferito di Prassitele, che ci dà le più elevate formulazioni del nudo femminile nel IV secolo.
Ovvio è poi l'uso del m. vivente per la ritrattistica, fino all'uso di calchi della maschera ricordati per Lysistratos. Per la rappresentazione di animali, si dovette ugualmente usare spesso modelli vivi, e noto è l'episodio dello scultore Pasiteles che, nei navaha del Tevere, dove eran le fiere africane, stava riproducendo a rilievo un leone in una gabbia, quando saltò fuori una tigre da un'altra gabbia e si salvò a stento (Plin., Nat. hist., xxxvi, 40).
Il più comune tipo di m. per gli artisti doveva esser quello eseguito in argilla, per marmi e per bronzi. In un'oinochòe Berlino (Furtwängler-Reichhold, tav. 162, fig. 3) Atena è rappresentata in atto di modellare con l'argilla un cavallo posto su una base bassa, tenendo in mano un pugno di argilla mentre un mucchio è accumulato a terra; la zampa posteriore dell'animale non è stata ancora completata. Questo modello plastico non sappiamo se sia inteso per una statua bronzea o per una marmorea, comunque abbiamo alcune gemme incise che rappresentano un artista nell'atto di prender misurazioni con il filo a piombo su un m., che in una gemma del Metropolitan Museum di New York è un'erma, e in una corniola di una collezione a Gotha è una figura nuda di efebo inginocchiato su un sostegno cilindrico, e qui l'artista, oltre al filo a piombo che sta tendendo dinanzi alla figura, è provvisto di un altro filo che tiene sulle spalle.
Il Blümel, analizzando specialmente sculture non finite e con tracce di lavorazione in varî stadî, ha potuto illustrare l'uso del modello nella statuaria e la traduzione nel marmo mediante questo sistema dei punti fissi sulle parti più sporgenti e più importanti, come la fronte, il bacino, i piedi, e con una serie di misurazioni in profondità con il filo a piombo su queste direttrici principali per definire i varî piani, pur senza tuttavia arrivare mai alle numerose misurazioni della tecnica moderna che rendono meccanica la traduzione in marmo del modello. Tipica è ad esempio la statua non finita di un efebo da Rheneia al Museo Nazionale di Atene che mostra ancora i fori sulla fronte, sul bacino, sulla punta dei piedi, serviti per i punti delle misurazioni; tracce di punti si hanno in un torso maschile di Atene e nel periodo ellenistico-romano l'uso doveva esser diffuso, con l'attività delle officine di copisti che portarono a una sempre crescente meccanizzazione del lavoro.
Come in Egitto anche in Grecia l'introduzione del calco in gesso dovette facilitare la creazione di modelli, specie per la esecuzione di copie. Una specie di calco in argilla della silhouette proiettata sul muro della testa di un giovane parrebbe doversi attribuire in periodo arcaico a Boutades sicionio, che avrebbe poi fatto cuocere questo m. (impressa argilla typum); era conservato nel ninfeo al momento della distruzione di Corinto ad opera di Mummio nel 146 a. C., come racconta Plinio (Nat. hist., xxxv, 151). Più discussa è l'interpretazione della notizia pliniana sempre riguardante l'attività di Boutades che primus personas tegularum extremis imbricibus imposuit, quae inter initia prostypa vocavit, postea idem ectypa fecit. Queste maschere all'estremità dei coppi si direbbero antefisse, lavorate a rilievo, sebbene si sia supposto anche il significato di mezza testa o figura, e negli ectypa sembrerebbe dover vedere dei calchi; e poiché Plinio dice che hinc et fastigia templorum orta, potrebbe intendersi un mezzo di riproduzione con il calco che permise la decorazione di tutta la parte superiore del tempio.
Plinio seguita dandoci la notizia importante relativa a Lysistratos fratello di Lisippo: Hominis autem imaginem gypso e facie ipsa primus omnium expressit ceraque in eam formam gypsi infusa emendare instituit Lysistratus Sicyonius, frater Lysippi, de quo diximus. Hic et similitudines reddere instituit, ante eum quam pulcherrimas facere studebatur. Idem et de signis effigies exprimere invenit crevitque res in tantum ut nulla signa statuaeve sine argilla fierent. Quo apparet antiquiorem hanc fuisse scientiam quam fundendi aeris. L'uso del calco in gesso doveva certamente esser più antico del IV sec. a. C. e qui sembrerebbe che Plinio, ossia la sua fonte, intenda che Lysistratos fu il primo ad applicare questa tecnica del calco al volto umano, in questo caso della persona viva, procedimento non scevro di difficoltà e da questo calco ricavava un positivo in cera che poi ritoccava a mano. Quest'uso avrebbe portato alla creazione di ritratti veristici senza quella visione idealistica mirante alla nobilizzazione e all'abbellimento dei tratti, che improntava tutta la ritrattistica precedente. A lui si attribuirebbero anche l'uso di calcare le statue e la diffusione di questo procedimento, tanto che non si fecero più statue né in bronzo né in marmo senza averne prima plasmato il modello in argilla. Ma l'uso deve risalire peraltro a un'epoca più antica di Lysistratos, non solo per la fusione in bronzo, come si è detto, ma anche per la scultura, specialmente architettonica. Forse Lysistratos apportò perfezionamenti tecnici al processo dei calchi, lo rese più meccanico e diffuso, ed essendo infatti alle soglie dell'ellenismo si spiega questa moltiplicazione del calco nella statuaria, che si generalizzò poi con il diffondersi delle copie per la clientela romana (v. calco; copie e copisti). Un significativo ricordo ne abbiamo per il periodo degli Antonini, che segua proprio la maggior diffusione delle copie, nel noto passo di Luciano (Iup. trag., 33) che ci presenta la statua bronzea di Hermes Agoràios tutto coperto da una corazza di pece perché tutti i giorni gli scultori ne fanno il calco (ὀσημέραι ἐκματτόμενος ὑπὸ τῶν ανδριαντοποιῶν). Queste forme servivano anche per moltiplicare i busti di uomini illustri che si amava tenere nelle biblioteche o nelle case e, se i più ricchi potevano permettersi una copia in bronzo o in marmo, creando una galleria come quella della Villa dei Pisoni, molti si contentavano di una copia in gesso come attesta Giovenale (ii, 4):
........ quamquam plena omnia gypso
Chrysippi invenies, nam perfectissimus horum est
si quis Aristotelem similem vel Pittacon emit.
Abbiamo testimonianze dell'attività del gypsarius (v.) o plasta gypsarius, o γυψεμπλάστης. Un busto e una testina in stucco, forse m. per bronzi, vengono da Pompei.
Una interessante testimonianza sull'uso dei calchi di statue l'abbiamo in un passo di Plutarco (De soll. anim., 36) dove si narra che Soteles e Dionysios inviati a Sinope da Tolomeo Sotere per il trasporto della statua di Serapide, sbattuti da una tempesta a Khyrra, porto di Delfi, seppero da un oracolo che dovevano trasportare il Serapide, ma dovevano lasciare il simulacro di Kore, dopo averne fatto il calco in gesso (τὸ δὲ τῆς Κόπης ἀπομάξασϑαι).
Sappiamo anche da Teofrasto (De lapid., 7) che il gesso, per la sua natura liscia e vischiosa, era usato dai Greci più delle altre materie per ricavarne impronte e calchi (ἀπομάγματα). Alla fine dell'ellenismo un'altra conferma dell'uso generale del m. di argilla ci è fornita dal ricordo dell'attività di Pasiteles in Plinio (Nat. hist., xxxv, 156) qui plasticen matrem caelaturae et statuariae scalpturaeque dixit et, cum esset in omnibus his summus, nihil unquam fecit antequam finxit, non eseguì cioè mai una statua senza averne prima fatto il modello in argilla. E in questo periodo anche il modello in argilla che prima era considerato un semplice mezzo tecnico, comincia ad esser apprezzato in se stesso, sia come fonte di tipi e di motivi artistici, sia come opera d'arte, come oggetto di collezione e sappiamo infatti da Plinio che i προπλάσματα di Arkesilaos, ammiratissimo da Varrone, andavano a ruba e si vendevano agli artisti a prezzo maggiore di opere vere e proprie altrui. I modelli in gesso anche di opere di toreutica erano venduti a caro prezzo e un modello (exemplar e gypso) di un cratere fatto dallo stesso Arkesilaos per il cavaliere romano Ottavio fu pagato un talento.
Se i minuscoli bicchieri modellati a forma di cuoco detti magiriscia del toreuta Pytheas erano così sottili che non se ne poteva prender il calco (e quibus ne exemplaria quidem liceret exprimere), come dice Plinio (Nat. hist., xxxiii, 157), molto diffuso era l'uso di trarre calchi dalle più raffinate opere di toreutica e d'oreficeria nel periodo ellenistico-romano.
Abbiamo una ricca serie di questi modelli in gesso soprattutto di opere di toreutica ellenistica e alessandrina in particolare; un gruppo di settantotto pezzi da originali metallici proviene da un quartiere di toreuti e gioiellieri a Memfi in Egitto, illustrati dal Rubensohn; e una serie preziosa di quaranta si è recentemente trovata in un deposito con lacche e avorî a Begram (v.), modelli sia di emblèmata circolari, sia di scudetti o pezzi isolati di modelli di piccoli bicchieri cilindrici con pareti a rilievo: sono motivi prevalentemente dionisiaci, Eros e Psyche, e derivano da calchi di originali finiti, che potevano servire come modelli per gli artisti, più che come campioni per i compratori. È nota l'importanza che la toreutica, la fabbricazione soprattutto dei ricchi servizi da tavola sbalzati e cesellati in metalli preziosi, ebbe nel mondo romano, e questi modelli in gesso dall'Egitto e da Begram confermano l'importanza del ruolo di Alessandria in questa produzione.
Anche l'oreficeria si valse senza dubbio molto dell'uso di modelli e dei calchi, sia per ottenere le forme per fondere, stampigliare, imprimere motivi da ripetere in serie come i pendagli di collana, elementi di bracciali multipli, sia per moltiplicare motivi fissi di orecchini, di spilloni. Forme, punzoni, usati già nell'oreficeria egizia, minoico-micenea, greca, etrusca, romana, provinciale, presuppongono la creazione di modelli, e abbiamo testimonianze letterarie ed epigrafiche su questi tỳpoi (τύποι o τύπια) per gioielli come quelli per immagini di Apollo e della Magna Mater nominati in inventarî di templi di Delo. Ma una serie di modelli bronzei fusi su tipi plasmati in cera dal caratteristico modellato non finito impressionistico, sono venuti in luce a Galiub e si trovano al Pelizaeus Museum di Hildesheim, studiati dallo Ippel. Sono modelli per gioielli, in genere decorazione di spilloni o altri ornamenti femminili e consistono in statuine, medaglioncini, placchette, con appendice in basso, raffiguranti Dioniso, Cibele, Attis, Afrodite, Igea, le Horai, Chirone ed Achille, Iside, Horus, Bes, busti di divinità, maschere, menadi, amorini, di gusto ellenistico alessandrino.
Anche nel campo dell'arte monetale il conio presuppone un modello rifinito, e diffuso doveva esser anche l'uso di impronte e calchi.
Accanto a questa serie di modelli plastici per la statuaria e la toreutica, dobbiamo ricordare quelli disegnativi per il campo della pittura e del mosaico. La riproduzione di tanti quadri di maestri classici nella pittura decorativa romana non si spiega senza la diffusione di veri e proprî "cartoni" (v.), di repertori grafici a colori, e anche la pittura tombale etrusca testimonia l'uso di cartoni, anche reversibili (v. disegno). Lo stesso si può dire per il mosaico e chiaro è l'uso di cartoni, di un repertorio di tipi, come ad esempio nei mosaici di pesci, di mostri marini, di nature morte; e anche di motivi floreali e ornamentali. Significativo è il caso del modesto mosaicista Sabinianus Semurianus, che, accanto ad un busto femminile raffigurato in un mosaico africano da lui restaurato, ha sentito il bisogno di specificare nell'iscrizione posta accanto che l'aveva seguito senza l'aiuto di un cartone: sine pictore. Repertorî diseguativi, più che plastici, possiamo immaginare anche dietro la produzione di urnette etrusche e di sarcofagi romani; e per le prime si è pensato anche alla creazione di un'urnetta-modello da parte di un maestro nell'ambito delle diverse officine.
Sia disegnativi sia plastici erano poi i modelli usati nel campo dell'architettura, non solo di particolari decorativi, già ricordati, ma di interi edifici. L'uso di modellini per meglio concretare l'aspetto dell'opera e proporlo al giudizio in caso di concorso è attestato per gli architetti greci e romani. Da Gregorio Nisseno (In Ghristi resurr., iii, 666 D, Migne) deduciamo che gli architetti usavano plasmare in cera piccoli modellini degli edifici ricavandone calchi (οὐ εἴδετε τοὺς μηχανικοὺς ὅπως τῶν μεγάλων καὶ ἐξαισίων οἰκοδομημάτων ἐν ὀλίγῷ τὰς μορϕὰς καὶ τοὺς τύπους προσαναπλάττουσιν).
Nell'iscrizione relativa alla costruzione della Skeuothèke del Pireo (I. G., ii, 22, 1668) si parla chiaramente di progetti e di modelli (ταῦτα ἄπαντα ἐξεργάσονται οἱ μισϑωσάμενοι κατὰ τὰς συγγραϕὰς καὶ πρὸς τὰ μέτρα καὶ πρὸς τὸ παράδειγμα ἃ ἄν ϕράζηι ὁ ἀρχιτέκτων).
Plutarco (Mor., iii, 293, i) ricorda che quando si bandiscono pubblici concorsi per la costruzione di templi o di colossi gli artisti presentano modelli che illustrano e su cui discutono (Αἱ πόλεις δήπουϑεν ὅταν ἔκδοσιν ξαῶν ἢ κολοσσῶν προγράϕωσιν, ἀκρῶνται τῶν τεχνίτων ἀμιλλωμένων περὶ τῆς ἐργολαβίας καὶ λόγους καὶ παραδεὶγματα κομιζόντων).
Anche in un altro passo Plutarco (De placitis Philos., 1,5) accenna all'uso dei modelli di statue, di edifici, di pitture (καὶ πολλὰ παραδείγματά ἐστιν, ὥσπερ ἐπ᾿ ἀνδριάντων καὶ οἰκιῶν καὶ ζωγραϕιῶν).
Su monete del I sec. d. C. di Filippopoli, Lebo, Smirne, Perinto, abbiamo raffigurazioni della divinità della città stessa che tiene nella mano il m. di uno o due tempietti, oppure Atena o l'imperatore stesso; si tratta del m. di templi eretti dalla città in onore dell'imperatore. Luciano (Dea Syr., 39) ricorda a Hierapolis sull'Eufrate la statua di Semiramide con un modellino di tempio nella mano sinistra. Forse resti di un modellino marmoreo di edificio cruciforme abbiamo ad Efeso, e in Ostia troviamo la parte inferiore di un modellino marmoreo di un tempio pseudoperiptero, esastilo, simile a quello cosiddetto della Fortuna Virile al Foro Boario. Modellini di tempietti in funzione di ex voto in oro furono trovati da Agatocle nel sacco di Cartagine (Diodor., xx, 14, 2), e tempietti in argento di Artemide efesina, come ex voto per i visitatori del celebre santuario, cesellava certamente in serie, su modello fisso, Demetrios di Efeso (Acta Apost., xix, 22). Anche i metragirti usavano portar dietro edicolette con divinità. Un modellino di un edificio rotondo tiene in mano una schiava nel rilievo da Cizico al Louvre raffigurante, in una scena di banchetto funerario, forse un architetto, Attalos, figlio di Asclepiodoro. Anche nel rilievo marmoreo del Museo Nazionale Romano con la riproduzione accurata della architettura di una scena di teatro, sembra dover riconoscere un vero e proprio m. di architetto.
Bibl.: Oltre alle opere citate sotto le voci begram, calco, cartone, copie e copisti, disegno si veda: H. Blümner, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste bei Griechen und Römer, II, Lipsia 1879, p. 143 per i gessi; III, 1886, p. 142 con i modelli architettonici; p. 190 per modelli statuarî; IV, 1886, p. 325 per modelli nella toreutica: H. Blümner, in Pauly-Wissowa, XIV, 1912, cc. 2092-2100, s. v. Gypsum; Perrot-Chipiez, Histoire de l'art, I, Egypte, Parigi 1882, pp. 769-774; II, Chaldée et Assyrie, Parigi 1884, pp. 528-529; A. Furtwängler, Über Statuenkopien in Altertum, Monaco 1896, pp. 6, 18; E. A. Gardner, in Journ. Hell. Stud., 1890, p. 138 ss.; S. Reinach, Le moulage des statues, in Rev. Arch., XLI,1902, II, pp. 5-21; E. Pernice, Untersuchungen zur antiken Toreutik, in Jahreshefte, VII, 1904, pp. 154-197; C. Edgar, Sculptors Studies and Unfinished Work (Cat. gén. Ant. égypt.), Il Cairo 1906; id., Über antike Hohl Formen, in Jahreshefte, IX, 1906, pp. 27-32; O. Rubensohn, Hellenistisches Silbergerät in antiken Gipsabgüssen, Berlino 1911, p. 4 ss.; A. Ippel, Der bronzefunde von Galjub, Modelle eines helenistischen Goldschmids, Berlino 1922; Nouvelles Recherches à Begram, 1939-40, Parigi 1954, p. 140 ss.; J. B. Wace, Design and Execution, in Annuario Atene, XXIV-XXVI, 1946-48, pp. 109-121; C. Blümel, Griechische Bildhauer an der Arbeit, Berlino 1940, specie pp. 40-46; D. Mustilli, in Pompeiana, Napoli 1950, p. 206 ss.; V. Cianfarani, Proplasma dell'Antiquario Teatino, in Boll. d'Arte, XXXVII, 1952, pp. 1-4. Per Sabinianus v.: L. Foucher, Note sur des signatures de mosaïstes, in Karthago, IX, 1958.