modi di dire
Con modo di dire o, più tecnicamente, locuzione o espressione idiomatica si indica generalmente un’espressione convenzionale, caratterizzata dall’abbinamento di un significante fisso (poco o niente affatto modificabile) a un significato non composizionale (Casadei 1994: 61; Casadei 1995a: 335; Cacciari & Glucksberg 1995: 43), cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti. Espressioni come essere al verde, essere in gamba, prendere un abbaglio, tirare le cuoia non significherebbero nulla se considerate solo come somma dei significati dei loro componenti (Cacciari & Glucksberg 1991: 217); se considerate in blocco, invece, rimandano a un significato traslato (detto anche figurato; ➔ definizione lessicale), risultato di procedimenti metaforici (come, ad es., quello di similitudine: vuotare il sacco → «rendere evidente ciò che contiene» → «svelare»; Jezek 2005: 183) e condiviso dall’intera comunità linguistica.
Ciò detto, una definizione precisa di modo di dire (e di espressione idiomatica) non è data né accettata in linguistica. Ciò accade sia perché la non composizionalità del significato ha indotto a lungo a considerare queste espressioni come anomalie ed eccezioni da trattare marginalmente (Katz 1972: 35), o tutt’al più da trasferire agli studi di ➔ etimologia, sia perché la supposta equivalenza tra idiomatico e non composizionale ha portato a estendere l’etichetta di modo di dire / espressione idiomatica «a ogni caso di non letterarietà o predicibilità semantica, dai singoli morfemi ai detti/proverbi, dalle parole complesse lessicalizzate agli atti linguistici indiretti». Si sono quindi raggruppati quasi indistintamente fenomeni eterogenei (quali: stereotipi, cliché, luoghi comuni, frasi fisse, espressioni binomiali e trinomiali, collocazioni, proverbi, sentence frames con valore coesivo e chunks lessicali tipici del linguaggio parlato; Lewis 1997: 257), a cui le espressioni idiomatiche sono state accostate per la loro fissità e/o convenzionalità (Casadei 1995a: 335-336). Il risultato di ciò è stato che spaventoso incidente, il gatto e la volpe, vita morte e miracoli, rivendicare un attentato, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, a ben vedere, in primo luogo, per favore, in bocca al lupo, ecc., sono stati spesso considerati, lato sensu, tutti esempi di espressioni idiomatiche.
Tuttavia, benché siano spesso incerti i criteri di distinzione fra i fenomeni sopra elencati (ad es., quelli fra modi di dire e ➔ proverbi, o tra modo di dire e frase fatta; Lapucci 19902: 8), e nel tentativo di superare le divergenze fra i diversi approcci disciplinari (strutturalista, generativista, pragmatista, semantico-composizionale, psicolinguistico, metaforico, ecc.; cfr. Everaert et al. 1995), in linguistica si tende oggi convenzionalmente a utilizzare la denominazione espressione idiomatica – che in questa accezione può equivalere a modo di dire – per indicare semplicemente una locuzione figurata convenzionale, più o meno fissa, che può appartenere alla classe dei verbi (tirare le cuoia, vuotare il sacco), dei nomi (patata bollente), degli aggettivi (all’acqua di rose) e degli avverbi (alla bell’e meglio) (per una definizione più articolata, cfr. Casadei 1995a).
Proprio per differenziare accezione estesa e accezione ristretta di espressione idiomatica (o modo di dire), la linguistica anglosassone distingue tra «essere idiomatico» e «essere un’espressione idiomatica» (Searle 1978: 272), o più tecnicamente tra idiomaticity e idioms (Fernando 1996), ovvero tra co-occorrenze abituali più o meno cristallizzate e con gradi diversi di variabilità (➔ collocazioni) e co-occorrenze diventate convenzionalmente fisse, con un ordine e una forma specifici («pietrificate» o «congelate»: Cowie 1983: XII; Machonis 1985: 306), che hanno una gamma molto ristretta di varianti, e il cui significato, «frutto di agglutinazioni formali e metaforizzazioni ormai perse nella storia [...] non è derivabile in modo regolare come per ogni frase normalmente prodotta e comprensibile in base alla conoscenza del lessico e della grammatica della lingua» (Casadei 1994: 62).
Dati gli esempi seguenti:
(1) tagliare la corda [nel senso di «fuggire, scappare»]
(2) tagliare il pane
l’espressione (1) risulta così essere espressione idiomatica (o modo di dire), poiché nella sua accezione figurata è irrigidita nella forma, sottostà a restrizioni semantiche e sintattiche, e non consente «modifiche» o «espansioni» (Pawley & Hodgetts Syder 1983: 210). Infatti, se si sostituisse la corda con una corda, le corde, le corde spesse, le locuzioni risultanti perderebbero il loro valore idiomatico o traslato, mentre una combinazione come affettare la corda suonerebbe decisamente inusuale e sarebbe difficilmente accettata dai parlanti. Pur essendo una co-occorrenza abituale, (2) invece ha un alto grado di variabilità tanto sull’asse paradigmatico (affettare il pane, spezzare il pane, ecc.) quanto sull’asse sintagmatico (tagliare le cipolle, tagliare la carne, ecc.), ed è infatti ascrivibile all’insieme delle collocazioni.
Come si può intuire dagli esempi precedenti, le restrizioni cui sono soggetti i modi di dire non perterrebbero soltanto alla variabilità lessicale (ovvero la sostituzione di componenti, neppure nel caso si tratti di ➔ sinonimi), ma anche a quella morfosintattica (➔ ordine degli elementi, modificazione di genere e numero, topicalizzazione, passivizzazione, relativizzazione, introduzione di modificatori, ecc.; Casadei 1995a: 342), e in generale a qualsiasi variabilità implicante una qualche autonomia dei componenti.
Tra gli esempi seguenti, solo (3), infatti, risulta pienamente accettabile:
(3) hai menato il can per l’aia! Ora vieni al dunque
(4) hai menato il quadrupede per l’aia …
(5) hai menato la cagna per l’aia …
(6) hai menato i cani per l’aia …
(7) i cani per l’aia hai menato …
(8) i cani per l’aia sono stati menati da te …
(9) il can, che hai menato per l’aia …
(10) è il can, che hai menato per l’aia ...
(11) hai menato quel can rabbioso per l’aia …
Occorre però osservare che esistono non poche importanti eccezioni a queste restrizioni, ammesse soprattutto nei registri del parlato, e frutto di una certa produttività da parte dei parlanti (Casadei 1995b). Innanzitutto, non sono rare varianti lessicali e sinonimiche, quali:
(12) che ti passa per la testa? / che ti passa nella testa?
(13) batti sempre sullo stesso tasto / insisti sempre sullo stesso tasto
La sostituzione di un componente, inoltre, non necessariamente modifica il significato dell’espressione, come dimostrano le seguenti equivalenze semantiche:
(14) fare due passi / fare quattro passi
(15) togliere il fiato / mozzare il fiato
(16) avere un santo in paradiso / avere qualche santo in paradiso
Non infrequenti, inoltre, sono i casi di flessibilità sintattica. Se un’espressione idiomatica prevede un complemento, ad es., questo può essere interno, e in posizione non fissa, alla sequenza idiomatica:
(17) mandare qualcuno al diavolo / mandare al diavolo qualcuno
così come può essere modificato l’ordine di un costituente come l’oggetto, che può essere dislocato tanto a sinistra quanto a destra (➔ dislocazioni):
(18) i frutti del vostro lavoro li avete finalmente visti, o no?
(19) vogliamo dargliela, una mano?
Possibili, benché più rare, sono anche la relativizzazione (20-21) (➔ relative, frasi) e l’accettabilità di diatesi passiva (22-23) (➔ passiva, costruzione):
(20) dai servizi del telegiornale si capisce bene l’aria pesante che si respira a Montecitorio
(21) sono parole che mi hai tolto di bocca: le condivido in pieno
(22) finalmente, le carte sono state messe in tavola
(23) ora che il ghiaccio è stato rotto, possiamo cominciare
La presenza di modificatori (aggettivi, determinanti), infine, può essere ammessa non solo se originata da un parlante non nativo (in un caso simile, l’espressione risultante, benché ritenuta anomala nella sua formulazione e poco informativa, risulterebbe infatti comprensibile al parlante nativo: Cacciari & Glucksberg 1991: 232):
(24) hai menato questo cane per l’aia
ma anche in presenza di avverbi (di tempo, di modo, o in funzione di quantificatori) o di alcune classi di aggettivi, come evidenziano i seguenti esempi:
(25) meni sempre il can per l’aia
(26) hai proprio menato il can per l’aia
(27) hai menato troppo il can per l’aia
(28) stai prendendo un bel granchio
(29) ti sei tolto un grande peso dallo stomaco
(30) mi devo togliere un grosso peso dalla coscienza
Queste variabili sono accettabili perché non modificano l’unità di significato dell’espressione. A causa della fissità formale e dell’unità – o non composizionalità – del significato (non necessariamente dipendenti, ma da valutare in correlazione: Gross 1996: 8), d’altronde, si è diffusa la convinzione che i modi di dire possano equivalere funzionalmente e semanticamente – e in seguito a un processo di ➔ lessicalizzazione (Ježek 2005: 184-190) – a parole semplici (➔ lemma, tipi di), dal momento che «il gioco combinatorio e metaforico originario si è perduto e l’intero sintagma, nel suo complesso, vale come una parola e monema lessicale unico» (De Mauro 1982: 140).
Proprio la perdita dell’originario «gioco combinatorio e metaforico» potrebbe aver reso nel tempo i modi di dire semanticamente opachi, in quanto la loro interpretazione non è facilmente (quando non del tutto) deducibile senza l’ausilio di conoscenze extralinguistiche o senza l’ausilio di un preciso contesto tanto linguistico quanto extralinguistico.
Si ammettono tuttavia diversi gradi di opacità, da mettere in relazione con il tempo di cristallizzazione dell’espressione: più antica è l’attestazione, minore è la variabilità sul piano formale, e maggiore l’opacità semantica (Cutler 1982). Si hanno così:
(a) espressioni motivate, il cui significato è ancora deducibile dai significati letterali dei singoli elementi: non svegliare il can che dorme;
(b) espressioni parzialmente motivate, il cui significato unitario è in relazione ai significati letterali soltanto per alcuni elementi: mangiare da cani;
(c) espressioni demotivate, in cui il significato globale non è deducibile dalla composizione dei significati letterali dei singoli elementi: menare il can per l’aia.
Questa gradualità, e la variabilità formale cui si è accennato, rendono meno stringente il criterio di non composizionalità del significato (Cacciari 1993; Kovacses & Szabö 1996). Ciò risulta in particolare dall’analisi di metafore e metonimie concettuali: metafore come «conoscere equivale a vedere», «intuire è annusare», «esperire è assaggiare» sarebbero alla base di modi di dire quali: vederci chiaro, fiutare il vento, addolcire la pillola.
Questo orientamento, che riconduce la motivazione a procedimenti metaforici e metonimici provenienti dall’esperienza universale dei parlanti (Casadei 1994; Kovacses & Szabö 1996), facilita la descrizione delle espressioni idiomatiche e l’identificazione di regolarità, permettendo di superare l’impasse della spiegazione etimologica qualora questa (come di frequente) risultasse impraticabile: ad es., nel caso di espressioni quali prendere una cantonata, fare un passo in avanti, mettere i bastoni tra le ruote (Casadei 1994: 78).
Come già accennato, espressioni idiomatiche e modi di dire si possono suddividere in classi secondo la natura dell’elemento risultante: verbale (tirare le cuoia, vuotare il sacco), nominale (patata bollente), aggettivale (all’acqua di rose), e avverbiale (alla bell’e meglio).
Nella classe verbale, le strutture più frequenti sono verbo + nome (oggetto) e verbo + avverbio:
(31) battere la fiacca, capire l’antifona, tirare le cuoia, vuotare il sacco, prendere un granchio, ecc.
(32) gridare ai quattro venti, mangiare a ufo, ridere a crepapelle, ecc.
Nella classe nominale, le espressioni idiomatiche possono essere formate da nome + aggettivo o da nome + (preposizione [articolata]) + nome:
(33) patata bollente, vicolo cieco, quinta colonna, sangue blu, ecc.
(34) canto del cigno, lacrime di coccodrillo, occhio di bue, ecc.
La classe aggettivale include generalmente sintagmi aggettivali formati da nome + nome (con funzione attributiva), o da nome + aggettivo:
(35) una ragazza acqua e sapone
(36) un detenuto a piede libero
mentre si intendono appartenenti alla classe avverbiale non soltanto gli avverbi propriamente detti, ma anche «i complementi [avverbiali] più o meno facoltativi della frase e del verbo» (De Gioia 1999: 227):
(37) mangiare a bizzeffe
(38) cavarsela alla bell’e meglio
(39) cantare a squarciagola
(40) bere a garganella
(41) guidare a sirene spiegate.
Oltre ai raggruppamenti in classi, nella letteratura sui modi di dire – specialmente nelle sue più divulgative – si è spesso fatto ricorso a classificazioni in base all’origine (presunta) delle espressioni (si veda Lapucci 19902 e la bibliografia ivi menzionata). Vengono così annoverate, tra le fonti più significative:
(a) l’Antico e il Nuovo Testamento: restare di sale, essere nella fossa dei leoni, essere un calvario, dare a Cesare quel che è di Cesare, passare dalle stelle alle stalle, lavarsene le mani, essere un sepolcro imbiancato (si veda anche Beccaria 20012);
(b) le favole (Esopo, Fedro, Aviano, La Fontaine, ecc.): far come la volpe con l’uva, scaldare / tenere la serpe in seno, vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso / cacciato;
(c) la mitologia classica: pomo della discordia, supplizio di Tantalo, spada di Damocle, tallone d’Achille;
(d) le opere letterarie del canone: fare il gran rifiuto (Inf. III, 60), scegliere fior da fiore (Purg. XXVIII, 41), fare come i capponi di Renzo (I promessi sposi III); fare il donchisciotte;
(e) il mondo contadino: cercar l’ago nel pagliaio, essere l’ultima ruota del carro, darsi la zappa sui piedi, dormire della grossa, prendere due piccioni con una fava (si veda Beccaria 2006: 259-262);
(f) la tecnica, l’economia: sparare a zero, avere una marcia in più, giocare al rialzo;
(g) lo spettacolo: essere un dongiovanni, essere un vitellone, essere come l’armata Brancaleone;
(h) lo sport: salvarsi in corner, prendere in contropiede, fare melina, ecc.
Questi raggruppamenti, che a prima vista rappresentano le origini culturali delle espressioni idiomatiche, vanno in realtà valutati con cautela, sia perché poco chiariscono circa le motivazioni semantiche profonde di un’espressione (Alinei 1996, e il già citato Casadei 1994), sia perché – nella loro semplificazione classificatoria – spesso reiterano interpretazioni e spiegazioni tutt’altro che accertate. Molti modi di dire, infatti, di cui o si è completamente persa l’origine o non si è (ancora) ricostruita un’origine certa (come piantare in asso, di cui non è affatto plausibile l’origine mitologica data per assodata in molti dizionari, o far lana nel significato di «darsi all’ozio», o fare le corna, fare una brutta figura, per il rotto della cuffia, ecc.: Lurati 2001), sono veri e propri «rompicapo semantici» (Lurati 1992: 83), e richiedono attenzione non solo quanto all’etimologia, ma anche quanto alla circolazione e alle componenti ideologiche sottostanti, e andrebbero indagati ricorrendo a diffuse conoscenze nel campo del folklore, dell’antropologia, della storia della cultura oltreché di linguistica storica e comparata.
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