Modifiche in materia di contrattazione collettiva. L'accordo interconfederale del 28.6.2011
Il saggio affronta i punti salenti dell’accordo interconfederale del 28.6.2011 evidenziandone il «merito» di avere rotto, almeno in principio, la situazione di anomia che negli anni ha caratterizzato le relazioni industriali italiane. L’analisi muove dal Patto sociale del 1993 e si sofferma sui principali aspetti della recente intesa. A fronte di queste premesse, sono esaminati i contenuti dell’accordo FIAT riguardante lo stabilimento di Pomigliano e affrontato il problema dell’efficacia dei contratti collettivi alla luce della divergenze fra le maggiori confederazioni. L’analisi si sofferma, inoltre, sulla possibilità che i contratti aziendali definiscano intese modificative delle regole contenute nei contratti nazionali.
L’accordo siglato il 28.6.2011 fra Confindustria, CGIL, CISL e UIL sulle regole della rappresentatività sindacale e sulla contrattazione collettiva chiude una stagione di contrasti fra i sindacati e apre una nuova fase. Secondo un giudizio diffuso può essere un passaggio storico verso un sistema di relazioni industriali moderno1 e utile al Paese, ma non sono mancate le critiche2 e le controversie anche giudiziarie. In effetti, fin dall’inizio degli anni ’90 le parti sociali hanno ricercato una regolazione concordata delle relazioni industriali, senza successo, fino a oggi. Il Patto sociale del 1993 conteneva alcune indicazioni utili, ma che erano ancora generiche su alcuni punti critici: i criteri per valutare la rappresentatività dei sindacati; le condizioni dell’efficacia generale dei contratti collettivi e quindi della loro «esigibilità», come si dice oggi; i rapporti fra contratti nazionali e contratti decentrati. Inoltre, le indicazioni del 1993 non hanno ricevuto le necessarie specificazioni in atti successivi. Per cui l’auspicio espresso da molti, non solo giuristi, che questo patto potesse costituire una «carta costituzionale» del nostro sistema è stato in parte smentito. Eppure non sono mancati autorevoli suggerimenti per renderlo operativo e aggiornarlo, primo fra tutti quello della Commissione Giugni del 1997. Inoltre, nello stesso anno la materia trovava una regolazione coerente e unitaria nel pubblico impiego (d.lgs. n. 396/1997), con la tecnica normativa meglio utilizzata nella nostra tradizione: prima l’accordo fra le parti sociali e poi la traduzione in legge, necessaria per rendere le regole efficaci per tutti. Le regole stabilite per il pubblico impiego nel 1997 hanno mostrato di funzionare in modo relativamente soddisfacente fino ad oggi, riducendo la frammentazione sindacale, dando certezza ai contratti e favorendone la stipulazione unitaria da parte dei sindacati rappresentativi3. Ma le relazioni sindacali nel privato hanno continuato a vivere fino a ieri in una situazione di anomia, cioè di assenza di regole certe. La mancanza di regole sulla rappresentatività sindacale si è rivelata un fattore di crescente incertezza e di rischio per le imprese. I contratti nazionali «al ribasso», conclusi da sindacati di dubbia consistenza, hanno introdotto spesso forme di concorrenza sleale nel mercato del lavoro già alquanto fragile e irregolare di molti settori, specie di servizi. L’incertezza degli interlocutori sindacali ha effetti particolarmente deleteri nella contrattazione aziendale, perché può impedire la ricerca di soluzioni innovative, necessarie per la competitività e talora per la sopravvivenza delle imprese. I contrasti sociali esplosi con il caso FIAT e le controversie giudiziarie seguite sono indicativi della gravità della situazione, anche se fortunatamente non sono rappresentativi di tutte le relazioni industriali del Paese. Queste in molti casi hanno seguito un corso normale e unitario, nonostante la mancanza di regole atte a comporre i dissensi fra sindacati. La tradizionale struttura contrattuale incentrata sul contratto nazionale onnicomprensivo è stata importante fino agli anni 2000 per regolare uniformemente le condizioni di lavoro nell’economia (stabile) del passato e per stabilizzare gli andamenti retributivi; ma ha frenato la dinamicità del sistema e ha contribuito a mantenere debole la dinamica salariale, con la conseguente riduzione della quota di reddito spettante al lavoro dipendente4. Tale criticità era già segnalata dalla Commissione Giugni, che proprio per questo sollecitava la necessità di rivedere l’accordo del 1993, al fine di potenziare la contrattazione decentrata, e indicava specificamente l’ipotesi di una possibile contrattazione in deroga.
L’accordo del 28.6.2011 arriva con anni di ritardo, ma raccoglie le principali indicazioni di riforma del sistema maturate nel periodo. Ed in effetti l’intesa va letta tenendo conto dei precedenti, cui per vari aspetti si riferisce5. Il «merito» dell’accordo è di avere rotto, almeno in via di principio, la situazione di anomia che ha caratterizzato le nostre relazioni industriali e che ne ha fatto finora un caso unico in Europa. L’intesa è tanto più significativa in quanto è stata raggiunta dalle parti, senza intervento del Governo, e ha coinvolto pienamente la CGIL, riprendendo così, dopo le recenti esperienze di accordi separati, una pratica di unità contrattuale essenziale soprattutto per la definizione delle regole fondamentali del sistema. L’accordo del 28 giugno, per la sua natura privatistica, è sprovvisto di natura imperativa e quindi non può impedire la stipulazione di contratti nazionali e aziendali separati6. Ma l’impegno messo da tutte le parti per arrivare ad un consenso unitario sui contenuti dell’intesa, la loro consapevolezza delle criticità del momento presente e delle conseguenti responsabilità inducono a sostenere che l’accordo potrebbe avere attuazione e produrre effetti positivi sulle nostre relazioni industriali, avvicinandole ai modelli dei maggiori paesi europei. I contenuti dell’intesa precisano e confermano, con alcune varianti, le linee guida della regolazione del pubblico impiego del 1997 e della bozza di intesa sulla stessa materia siglata nel 2008 fra le tre maggiori confederazioni, oscurata finora dalle tensioni insorte fra le stesse. Fra i contenuti significativi dell’accordo vanno segnalate anzitutto le dichiarazioni di principio contenute nella premessa, che sono alquanto impegnative, «se prese sul serio»: cioè la comune volontà di realizzare un sistema di relazioni industriali regolato, in grado di dare certezza e perciò che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l’occupazione e le retribuzioni; la sottolineatura che la contrattazione collettiva rappresenta un valore e deve aggiungere risultati funzionali alla attività delle imprese, alla crescita di buona occupazione e allo sviluppo da conciliare con il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone; il comune impegno a favorire lo sviluppo e la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello. Tali dichiarazioni riflettono una concezione delle relazioni industriali rispondente al modello sociale europeo e adottato in vari paesi a noi vicini, ma in Italia tutt’altro che acquisita.
Il primo punto dell’accordo riguarda i criteri di misurazione e la certificazione della rappresentatività sindacale agli effetti della contrattazione nazionale di categoria. È una clausola distinta dal resto dell’accordo, che si riferisce ai rapporti fra i livelli contrattuali e in particolare alla contrattazione aziendale; ma tale clausola costituisce una premessa necessaria di quelle successive. Ai fini della certificazione, recita l’accordo, «si assumono come base i dati associativi riferiti alle deleghe sindacali – certificate dall’INPS – e ponderati con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie, da rinnovare ogni tre anni» (e trasmesse dalle confederazioni al CNEL). La fissazione della soglia ha il significato di una legittimazione reciproca fra le organizzazioni firmatarie, con effetti solo fra le stesse. Non sembra implicare alcun obbligo a trattare con i sindacati rappresentativi, come invece è il caso nel settore pubblico per esplicita indicazione legislativa7. Nel settore privato, infatti, tale obbligo è stato sempre escluso dal nostro legislatore8. Per gli stessi motivi, la soglia non ha alcuna incidenza in ordine agli effetti del contratto collettivo nazionale. Un accordo in ipotesi concluso con un sindacato che non raggiungesse tale soglia resterebbe valido, salva l’eventuale responsabilità endoassociativa della parte datoriale. Così il contratto collettivo concluso con i sindacati rappresentativi – anche con la maggioranza di questi – non avrebbe effetti ultra partes, ma manterrebbe quelli propri del contratto di diritto comune. Né poteva essere diversamente. Un’indicazione che avesse inteso avventurarsi sul terreno dell’erga omnes avrebbe incontrato i noti problemi di compatibilità con l’art. 39 Cost., a differenza di quanto è avvenuto nel pubblico impiego9 e di quanto si discute per la contrattazione aziendale (v. infra). E da tale terreno le parti si sono tenute consapevolmente lontane. L’ introduzione della soglia di rappresentatività è rilevante in ordine alle indicazioni successive dell’accordo relative alla contrattazione aziendale. Infatti, è dalla contrattazione nazionale stipulata fra gli attori di cui al punto 1 dell’accordo che dipende il decentramento contrattuale a livello aziendale e la stessa qualificazione degli agenti negoziali in azienda.
3.1 Rapporto tra contratti collettivi di diverso livello
L’indicazione secondo cui la contrattazione aziendale si esercita nelle materie delegate dal contratto nazionale – oltre che dalla legge –, configura un caso tipico di «decentramento organizzato» (secondo la nota definizione di F. Traxler10), cioè controllato dal centro. Questa impostazione trova riscontro con varianti nei precedenti di articolazione contrattuale, da quelli dei primi anni ’60 all’accordo interconfederale del 1993 fino all’accordo interconfederale del 2009. Queste varianti indicano diverse tecniche di coordinamento fra i due livelli. Esse sono state per lungo tempo più di tipo funzionale che gerarchico. La formula del patto del 1993 allude a un coordinamento funzionale quando indica che la contrattazione aziendale riguarda (materie e) istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli (retributivi) propri del contratto nazionale (applicando il cd. principio del ne bis in idem). Ma lo stesso accordo precisa che tale contrattazione si deve svolgere secondo le modalità e negli ambiti di applicazione definiti dal contratto nazionale di categoria, il che contrasta con l’idea della «specializzazione autonoma» praticata negli anni ’70 e propria del coordinamento funzionale, alludendo a un vero e proprio controllo centrale della contrattazione aziendale. In realtà, a partire dagli anni ’80 il grado complessivo di autonomia della contrattazione aziendale è andato progressivamente riducendosi. Peraltro, l’effettività del coordinamento centrale è stata diseguale nel tempo e non ha mai raggiunto l’intensità propria di altri sistemi come quelli del Nord Europa. Cosicché il nostro sistema contrattuale è collocato nel panorama comparato fra quelli a media centralizzazione11. La tendenza alla centralizzazione si è accentuata nel corso dei decenni successivi, in corrispondenza con le necessità di controllare le dinamiche antinflazionistiche. Di recente è stata enfatizzata ulteriormente dalla pressione della crisi, secondo una regola verificabile spesso nei periodi di difficoltà economica. Si può dire dunque, da questo punto di vista, che l’intesa del 28 giugno conferma una tendenza di lungo periodo. L’uso del termine delega piuttosto che del termine «rinvio» non fa che sottolineare la stretta dipendenza del contratto aziendale da quello nazionale. Il fatto che non sia ripetuta la formula del ne bis in idem, presente nell’accordo del 1993, è irrilevante, in quanto tale formula sarebbe stata sostanzialmente superflua perché lo stesso vincolo è già implicito nel concetto di delega. L’indicazione dell’accordo del 2011, se è politicamente significativa, non è però sostenuta da una strumentazione che le conferisca cogenza giuridico-istituzionale maggiore di quelle del passato. Nel nostro ordinamento vige il principio secondo cui le clausole della contrattazione di livello superiore sono prive di efficacia cd. reale in ordine ai contenuti della contrattazione decentrata. Il dovere di influenza elaborato dalla dottrina è operante solo dal lato delle associazioni dei datori di lavoro e non del sindacato dei lavoratori ed ha una debole efficacia giuridica per la difficoltà di collegare alla sua violazione apprezzabili conseguenze di ordine risarcitorio12. L’accordo del 2011 – come quello del 2009 – non fa eccezione a questa nostra tradizione «astensionistica»; e ciò nonostante la Confindustria abbia a più riprese proposto di introdurre qualche tipo di sanzione per rafforzare le clausole di raccordo fra i livelli contrattuali e per garantire in generale l’esigibilità degli impegni assunti dalle associazioni sindacali.
3.2 Le clausole di tregua
Una novità significativa è stata peraltro introdotta nell’accordo del 2011 per garantire le esigibilità dei contratti aziendali. Al punto 6, esso stabilisce che clausole di tregua sindacale inserite in tali contratti, appunto per assicurarne il rispetto, hanno effetto vincolante per le rappresentanze sindacali dei lavoratori (RSU) e per le associazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale. Le parti hanno voluto precisare che il vincolo riguarda esclusivamente i soggetti collettivi e non i singoli lavoratori: la formulazione, letteralmente ripetitiva, è stata usata per sottolineare la scelta adottata in un punto altamente controverso da sempre nel nostro sistema e scoppiato, anch’esso, con l’accordo FIAT riguardante lo stabilimento di Pomigliano13. In questo accordo si sono stabilite sanzioni nel caso di scioperi e di comportamenti lesivi degli impegni assunti, dalle parti con una duplice previsione. La prima, al punto 14 dell’accordo di Pomigliano, stabilisce la responsabilità in capo alle organizzazioni stipulanti e alle RSU che non rispettino gli impegni assunti o rendano inesigibili le condizioni stabilite con il contratto collettivo e i conseguenti diritti o l’esercizio dei poteri aziendali14. La seconda prevede che la violazione da parte dei singoli lavoratori di una clausola dell’accordo costituisce infrazione disciplinare, come tale sanzionabile, e comporta il venir meno dell’efficacia nei confronti degli stessi delle altre clausole. Su questa seconda previsione si sono appuntate le maggiori critiche da parte dei giuristi, compresi quelli non ostili all’accordo FIAT; e ciò in conformità all’opinione prevalente della nostra tradizione, secondo cui lo sciopero è un diritto a titolarità individuale non negoziabile, per cui eventuali clausole di tregua possono vincolare solo le associazioni e non i singoli lavoratori15. L’intesa del 28 giugno ha mostrato di aderire a tale orientamento, limitando i destinatari della clausola e le responsabilità conseguenti alla violazione degli impegni di tregua. L’indicazione dell’accordo su questo punto è comunque di grande rilevanza, in quanto costituisce la prima esplicita sanzione in un documento di livello confederale della possibilità e degli effetti dell’obbligo di tregua. Anche qui, peraltro, il suo contenuto è assai più politico che giuridico, per due motivi. Anzitutto, per la mancanza di indicazioni circa le conseguenze sanzionatorie ricollegabili alla violazione di un eventuale impiego di tregua (del resto non facilmente apprezzabili). Per altro verso, il contenuto della clausola, come della maggior parte di quelle inserite negli accordi confederali, non è atto a produrre effetti «normativi» diretti sui soggetti (rappresentanze aziendali e associazioni sindacali) destinatari dell’eventuale obbligo di tregua, ancorché aderenti alle confederazioni firmatarie. Si tratta comunque di un punto cruciale per la tenuta del sistema contrattuale. Il rispetto rigoroso degli impegni assunti, infatti, è un bene prezioso per le aziende in un’epoca come questa di grandi incertezze e di forte competizione. D’altra parte, garantire l’affidabilità di tali impegni da parte del sindacato è una risorsa da spendere, un presupposto di credibilità importante affinché le aziende possano intrattenere rapporti sindacali utili. Con tale indicazione il nostro sistema di relazioni industriali acquisisce, sia pur tardivamente, un orientamento comune ad altri ordinamenti sindacali europei: un orientamento che non nega il diritto di sciopero, ma ammette la possibilità che i soggetti collettivi stabiliscano limiti al suo esercizio in vista di contropartite contrattuali. Per questo ritengo fuori luogo le polemiche ancora presenti (e insistite) nel dibattito italiano16 circa la legittimità costituzionale di simili accordi. La resistenza del nostro sistema, incluse dottrina e giurisprudenza, ad accettare clausole di tregua, anche nelle varianti che vincolano solo i sindacati, è un riflesso dell’impostazione conflittuale delle nostre relazioni industriali. Ma oggi le mutate condizioni del contesto economico mondiale hanno accresciuto i dubbi sulla sostenibilità di una simile impostazione e di un conflitto industriale sempre più costoso e spesso inefficace. In un contesto economico turbolento e con rapporti di forza precari, i sistemi partecipativi hanno maggiori chances, di successo per ambedue le parti. Lo confermano le esperienze di paesi come la Germania che, per questo, oltre che per le sue politiche economiche lungimiranti e innovative, sta reagendo meglio di noi alla crisi. Del resto, il ricorso a pratiche collaborative, pur senza sostegno legislativo, ha permesso anche a molte aziende italiane di ottenere buoni risultati competitivi senza o con limitato ricorso al conflitto17.
3.3 Contratti collettivi aziendali: soggetti, procedure, efficacia
Al fine, indicato nella premessa dell’accordo, di dare certezze riguardo ai soggetti, ai livelli e ai tempi e ai contenuti della contrattazione collettiva, l’intesa affronta il problema dell’efficacia dei contratti collettivi, un tema irrisolto nel nostro ordinamento sindacale. La scelta di concentrarsi sull’efficacia dei contratti aziendali si spiega perché è proprio nella contrattazione aziendale che si presentano i motivi più frequenti di contrasto fra i sindacati. Lo si è visto emblematicamente nel caso FIAT, ma il medesimo problema si può porre in ogni caso in cui le parti sono chiamate a scelte difficili per contemperare le opposte esigenze di competitività delle aziende e di mantenimento delle condizioni di lavoro e dell’occupazione. Per tale motivo l’intesa del 28 giugno ha voluto regolare insieme sia l’efficacia dei contratti aziendali sia le condizioni alle quali tali contratti possono definire intese «modificative» delle regole dei contratti nazionali, per tener conto delle specifiche criticità aziendali. D’altra parte, i contratti aziendali sono chiamati, per i loro stessi contenuti, a regolare in maniera uniforme le condizioni di lavoro di tutti i soggetti destinatari. Non a caso la dottrina e la giurisprudenza si sono da tempo esercitate ad argomentare la efficacia generale delle diverse varianti di tali contratti, pur nell’attuale ordinamento sindacale di fatto, quindi al di fuori delle strettoie dell’art. 39 Cost.18. Ma, nonostante la dovizia degli argomenti utilizzati negli anni dalla dottrina e non poche decisioni giurisprudenziali favorevoli, tali conclusioni sono tutt’altro che acquisite. Anche perché il riconoscimento di un’efficacia generale ai contratti aziendali risale a periodi di unità sindacale e presuppone per lo più una convergenza di consensi delle varie organizzazioni. Cosicché la solidità di simili opinioni, in presenza di dissensi fra i sindacati e per di più di accordi non acquisitivi appare fortemente dubbia. Le difformi sentenze dei giudici sugli accordi FIAT e il ritorno manifestato da molte di queste a concezioni privatistiche del contratto collettivo ne sono conferma19. L’indicazione dell’intesa su questo punto è coerente con la clausola che prevede il duplice fondamento della rappresentatività e della legittimazione sindacale, quello associativo e quello elettivo. La soluzione concordata presenta peraltro una variante significativa rispetto al precedente del pubblico impiego e anche rispetto alle formule avanzate nei tentativi, contrattuali e legislativi, di regolare la materia, reiteratisi negli ultimi due decenni. L’efficacia generale dei contratti aziendali «per tutto il personale in forza e per tutti i sindacati firmatari», come si esprime l’accordo20, è prevista all’avverarsi di due diverse condizioni: la approvazione dalla maggioranza dei componenti delle RSU, elette secondo le regole interconfederali vigenti; la approvazione da parte di RSA, costituite ex art. 19 dello Statuto dei lavoratori nell’ambito di associazioni sindacali, che, singolarmente o insieme ad altre, siano destinatarie della maggioranza delle deleghe sindacali conferite dai lavoratori nell’azienda (nell’anno precedente). In tale seconda ipotesi i contratti aziendali, per avere tale efficacia, devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze aziendali, a seguito di richiesta di almeno una organizzazione firmataria dell’accordo o almeno del 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto e l’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti (un quorum significativamente basso)21. Questa soluzione è innovativa, perché trasferisce i due fondamenti della rappresentanza – associativo ed elettorale – all’interno del percorso di conclusione e del meccanismo di efficacia dei contratti aziendali. Nel precedente del pubblico impiego la titolarità della contrattazione faceva capo in primis sulle RSU e in mancanza, o in affiancamento, ai sindacati territoriali22. Va segnalata la differenza su questi punti con l’accordo interconfederale del 1993, che puntava sulla generalizzazione delle RSU come organismo sindacale rappresentativo in azienda e come agente negoziale. L’intesa del 2011 indica che il contratto aziendale stipulato dalle RSU deve avere il beneplacito delle OO.SS. territoriali, come previsto dall’accordo del 1993. Il rinvio contenuto nel punto 4 dell’accordo del 2011 alle regole interconfederali vigenti si riferisce esplicitamente solo alle modalità di elezioni delle RSU (e non ai poteri contrattuali). Per cui si potrebbe ritenere che la legittimazione a negoziare sia concentrata sulle stesse rappresentanze unitarie il che comporterebbe un indebolimento del coordinamento soggettivo del sistema negoziale, finora sempre difeso da tutte le confederazioni, in quanto le RSU «possono sempre sfuggire di mano alle OO.SS. di categoria e oltretutto decidono maggioranza dei componenti, senza mandato imperativo »23. La nuova capacità negoziale attribuita alle RSA è bilanciata, proprio per tener conto di entrambi i fondamenti della rappresentatività, dal ricorso alla consultazione dei lavoratori, sia pure soggetta a precise condizioni (la parola referendum non è usata, ma di questo si tratta). Si è adottata una soluzione di compromesso, tanto più significativa in quanto risolve una delle questioni più difficili nella travagliata storia della materia. Specificazioni dettagliate sui percorsi di perfezionamento e di verifica democratica degli accordi sono contenute nel testo allegato all’intesa, che riprende prassi precedenti, variamente testate (e le indicazioni della bozza di accordo del 2008). Per gli accordi interconfederali si prevede che le piattaforme presentate unitariamente dalle segreterie, dibattute nei direttivi, siano sottoposte alla consultazione dei dipendenti e dei pensionati (specificazione importante perché i contenuti di tali accordi riguardano spesso anche materie previdenziali), che le trattative siano condotte con il costante coinvolgimento degli organismi confederali e con verifiche assembleari, quindi che le ipotesi di accordo ripassino presso gli stessi organismi direttivi, previa consultazione certificata fra tutti i lavoratori e i pensionati, come già avvenuto nel 1993 e nel 2007. Per i contratti di categoria si assume l’impegno per conto delle federazioni competenti a regolare il percorso per la costruzione delle piattaforme e per l’approvazione delle ipotesi di accordo, così da coinvolgere sia gli iscritti sia i lavoratori ed a prevedere verifiche per l’approvazione degli accordi con il coinvolgimento di tutti i lavoratori, in caso di rilevanti divergenze interne alle delegazioni trattanti: quest’ultima formula è più generica di quella prevista per l’approvazione degli accordi interconfederali24. Se il potere negoziale delle RSA è un punto di sofferenza per la CGIL, il ricorso al referendum lo è specie per la CISL, che lo considera non solo estraneo alla propria concezione associativa del giudicato, ma politicamente pericoloso per il funzionamento della democrazia rappresentativa, che implica la piena autorità del sindacato di negoziare in base alla delega conferita dai lavoratori di rappresentarli ai tavoli contrattuali. Il valore dell’intesa si basa su questo delicato equilibrio. La sua effettività dipende più che mai dal rigoroso rispetto delle sue condizioni, dalla diffusione delle RSU – un impegno reiterato nella bozza del 2008 – dalla regolarità e dalla trasparenza dalle loro elezioni e, nel caso di presenza di RSA, dalla loro autorevolezza e capacità di convergenza negoziale. Del resto l’intera intesa punta sull’effettività degli impegni, a cominciare da quelli riguardanti l’efficacia dei contratti aziendali. Infatti, l’applicazione di cui parla l’accordo è generale per chi ha firmato i contratti aziendali, non per organizzazioni diverse; salvo a seguire le tesi sopra richiamate favorevoli all’efficacia generale dei contratti aziendali. Ora la questione è affrontata e risolta dall’art. 8 d.l. n. 138/2011 (v. infra). Inoltre, l’attuale configurazione dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, dopo il referendum abrogativo della lett. a), presenta possibili controindicazioni, se non dubbi di costituzionalità, in quanto può escludere dalla fruizione dei diritti sindacali, organizzazioni di fatto presenti e rappresentate in azienda, ma non firmatarie di accordi ivi applicati. Anche tale questione è esplosa in seguito agli accordi FIAT. La criticità è difficilmente risolvibile sul piano interpretativo, anche se non mancano letture correttive, suggerite dall’intento di evitare l’incostituzionalità della norma25.
3.4 Intese aziendali modificative del contratto nazionale
Un altro punto controverso affrontato dall’intesa riguarda la possibilità che i contratti aziendali definiscano intese modificative delle regole contenute nei contratti nazionali. Il riferimento è ai cd. accordi in deroga, anche se il termine non è utilizzato e i contraenti hanno preferito quello più neutro di intese modificative. Le parti hanno precisato che si tratta di specifiche intese di articolazione contrattuale, mirate ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi, anche in via sperimentale e temporanea, da attuarsi nei limiti e con le procedure previste negli stessi contratti nazionali. Questa parte dell’accordo dà risposta a una delle questioni più dibattute negli ultimi anni, non solo in Italia: questioni importanti per l’equilibrio dei sistemi contrattuali e per la loro capacità di rispondere alle pressioni competitive cui sono soggette le imprese e quindi i rapporti di lavoro al loro interno26. Clausole simili di deroga, o di apertura come si definiscono in Germania, si sono diffuse, con varianti, in gran parte dei paesi europei27. La regola sulle deroghe stabilita dall’intesa del 28 giugno completa in modo simmetrico quella sul principio di delega. La delega serve a controllare in generale l’ambito delle materie negoziabili a livello aziendale, la clausola di deroga precisa che il contratto aziendale può operare non solo nel senso tradizionale, integrativo e additivo al contratto nazionale, ma anche in senso modificativo e «peggiorativo». In entrambi i casi la regolazione e il controllo fanno capo al contratto nazionale, ma le funzioni del controllo sono diverse. Il primo tipo di clausole mira a calmierare le dinamiche contrattuali secondo un’esigenza propria dei periodi di crescita, esposti a spinte inflazionistiche; il secondo apre la strada a un’adattabilità del sistema contrattuale a esigenze proprie di periodi di crisi. Per questo aspetto l’intesa del 2011 presenta una differenza significativa rispetto all’accordo del 2009. Infatti, questo non si limita a indicare casi e materie degli accordi modificativi come fa l’intesa più recente, ma richiede che le deroghe siano autorizzate da parte dei contraenti della negoziazione nazionale di categoria su richiesta degli attori aziendali. In ogni caso, entrambe le soluzioni esprimono in modo diverso l’obiettivo di realizzare un decentramento controllato (comune ad altri sistemi caratterizzati da un duplice livello di contrattazione), predisposto per conciliare le spinte alla diversificazione delle condizioni di lavoro, con il mantenimento di una cornice generale definita dal centro. In una prospettiva di sistema il mantenimento di un quadro contrattuale di categoria, sia pure derogabile, costituisce una salvaguardia contro le tendenze centrifughe nella regolazione dei rapporti di lavoro, o peggio contro la rottura tout court del sistema contrattuale. In questo l’esperienza europea si distingue da quella anglosassone, dove, in mancanza di un quadro di regole nazionali, le forme di concession bargaining si sono moltiplicate nelle aziende colpite dalla crisi con contenuti spesso fortemente riduttivi delle condizioni di lavoro e salariali legati (solo) alle specifiche capacità di resistenza delle singole imprese28. Peraltro, il ricorso alle deroghe può introdurre un cambiamento nella natura della contrattazione collettiva. Si è arrivati a sostenere che questa perderebbe il carattere di strumento regolativo in senso stretto per assumere il valore di indicazione di quadro o di riferimento, modificabile in direzioni più o meno favorevoli ai lavoratori29. Questa indicazione è forse eccessiva; ma certo lo schema tradizionale della contrattazione è messo direttamente in discussione. E sta alle parti sociali ridefinirne di volta in volta le condizioni. Il problema è presente in tutti i sindacati europei. Così si spiega come questi, a cominciare dal forte sindacato tedesco, abbiano in generale ritenuto di avallare le contrattazioni in deroga, senza le lacerazioni verificatesi nella nostra esperienza, ritenendole una riforma «dall’interno» della contrattazione nazionale, alternativa all’uscita delle imprese dal sistema contrattuale e ad una deregolazione incontrollata del mercato del lavoro. L’innovazione è indubbia, ma garantisce che la contrattazione decentrata rimanga all’interno del sistema di contrattazione nazionale, escludendo quindi le ipotesi pure avanzate, ad esempio da Federmeccanica, di accordi aziendali sostitutivi del contratto nazionale. L’art. 8 d.l. n. 138/2011 sembra peraltro autorizzare deroghe aziendali più ampie di quanto indicato dall’accordo (v. infra). Il giudizio degli osservatori sugli effetti degli accordi deregolativi è peraltro controverso anche nelle analisi comparate. Alla tesi che tale prassi avrebbe permesso una buona tenuta del sistema contrattuale tedesco30, si contrappongono valutazioni critiche secondo cui essa starebbe realizzando una irreversibile erosione di quel sistema31.
3.5 Condizioni e oggetti degli accordi in deroga
L’intesa del 28 giugno non definisce specificamente le condizioni e gli oggetti delle possibili deroghe, affidando tale compito alla contrattazione di categoria secondo una regola comune nella nostra tradizione circa i rapporti fra contrattazione interconfederale e contratti di categoria. L’accordo contiene peraltro un’indicazione transitoria in base alla quale in attesa delle regole dei contratti nazionali di categoria, si ammette la possibilità di accordi aziendali modificativi per gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico e occupazionale dell’impresa, relativamente agli istituti del contratto nazionale riguardanti la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro. Il regime transitorio è diverso e più restrittivo rispetto alla normativa a regime quanto ai soggetti stipulanti, perché la titolarità a concludere le intese modificative attivabili subito è attribuita dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le organizzazioni sindacali territoriali di categoria firmatarie dell’intesa del 28 giugno. La differenza con il percorso inaugurato da questa intesa è netta perché non prevede né l’intervento delle RSU né il principio di maggioranza e neppure il ricorso al referendum confermativo32. L’intesa richiesta fra RSA e organizzazioni sindacali territoriali implica probabilmente l’unanimità dei consensi fra sindacati. Ma anche queste regime è ora cambiato dall’art. 8 d.l. n. 138/2011 (v. infra). Le due circostanze (crisi e sviluppo) in cui sono possibili accordi modificativi nella fase transitoria corrispondono a quelle presenti nell’accordo interconfederale del 2009. Nei precedenti italiani tali deroghe erano per lo più attuate di fatto, cioè al di fuori di esplicite previsioni della contrattazione nazionale: mi riferisco agli accordi aziendali o territoriali conclusi negli anni ’90 in corrispondenza all’avvio di patti territoriali o contratti d’area, condivisi allora anche dalla CGIL (talora senza essere esplicitamente avallati). In base a tale disposizione transitoria, la conclusione di accordi modificativi è resa immediatamente praticabile alle condizioni previste, mentre spetterà ai prossimi rinnovi dei contratti di categoria prevedere ulteriori modalità. Le possibili materie oggetto di accordi modificativi sono viceversa indicate con formula alquanto ampia, tale da comprendere potenzialmente l’intera regolazione del rapporto di lavoro, ma forse non la materia retributiva33. Il precedente più significativo è quello dell’intesa fra Federmeccanica, FIM, UILM, UGL e FISMIC, conclusa il 29.9.2010 in risposta alla intenzione dichiarata dalla FIAT di denunciare il contratto nazionale dei metalmeccanici (e di uscire dalla Confindustria)34. Tale intesa esclude dalle materie derogabili i minimi tabellari, gli aumenti periodici di anzianità e l’elemento perequativo, nonché i diritti derivanti da norme inderogabili di legge. Per di più, precisa che le deroghe debbano essere temporanee, a segnalare la tendenziale eccezionalità di tali accordi. Una simile limitazione non è prevista nell’intesa del 28 giugno, ove la «temporaneità» delle modifiche è indicata solo come eventuale. In realtà, un’indicazione temporale si desume dalle ipotesi che giustificano le deroghe (gestione di crisi e investimenti per lo sviluppo) anche se la formula indiretta usata segnala che l’ambito della temporaneità non può intendersi in modo rigido. Indicazioni analoghe si riscontrano nelle esperienze straniere35. Analogamente diversificate, in dipendenza dagli stessi caratteri, si presentano le condizioni richieste nei vari sistemi per la attivazione delle deroghe. La contropartita più ricorrente di tali clausole, come dei contratti di concessione, comprende forme di garanzia occupazionale, prevalentemente di carattere difensivo. L’obiettivo è di allargare gli spazi di flessibilità interna nell’uso della manodopera, tramite variazioni di orario e organizzative, per evitare l’alternativa della flessibilità esterna, cioè dei licenziamenti. L’effettività dei controlli sindacali dipende largamente dalla capacità dei rappresentanti sindacali di incidere sulle circostanze specifiche e può variare secondo l’autorevolezza e i tipi delle rappresentanze aziendali. In sistemi come quello tedesco, con un canale doppio di rappresentanza, cioè con rappresentanze dei lavoratori in azienda distinte dalle organizzazioni sindacali, ancorché ad esse legate, la pressione delle crisi spinge spesso le prime ad agire con ampi margini di autonomia. Non mancano formulazioni più ampie, secondo cui le deroghe possono riguardare non solo situazioni di crisi aziendale specificamente accertabili, ma essere invocate anche da imprese profittevoli per reagire alle minacce alla loro competitività futura e per evitare delocalizzazioni (tale è la situazione presentatasi negli accordi FIAT). È significativo – anche in riferimento a simili ipotesi e per circoscriverne la portata – che l’intesa del 28 giugno richiede come condizione degli accordi modificativi che la loro conclusione sia comunque giustificata dalla presenza di investimenti significativi dell’impresa.
3.6 Variabili influenti sull’applicazione dell’accordo
Le indicazioni innovative dell’accordo sono suscettibili di sviluppi diversi a seconda di variabili sia interne alle dinamiche sindacali sia di contesto. La buona gestione del decentramento e delle deroghe non è garantita dalle previsioni contrattuali, ma dipende, come si diceva, dall’autorevolezza delle rappresentanze sindacali in azienda, dalla qualità dei rapporti sindacali presenti nell’impresa, dalla partecipazione e dal consenso che le parti riescono a esprimere. Infatti, nei sistemi centro-europei le vicende degli accordi sono largamente influenzati dall’unità del sindacato, dalla coesione sociale, dal carattere partecipativo di quegli ordinamenti; fattori che permettono di controllare contenuti e ambiti di operatività della contrattazione aziendale. Le ricerche disponibili segnalano d’altra parte l’importanza dei fattori esterni alle relazioni industriali, in particolare riguardanti le politiche pubbliche. Non a caso il bilancio di queste esperienze e in genere la situazione delle relazioni industriali sono diversi nei paesi dove sono prevalsi orientamenti liberisti e in quelli che hanno adottato politiche pubbliche riformatrici36. Non mancano casi di successo, in cui gli accordi in deroga, e in generale i patti per l’occupazione e la competitività (Pec), hanno dato origine a scambi a somma positiva; in quanto i sacrifici richiesti ai lavoratori hanno avuto come contropartita effettive garanzie occupazionali da parte delle imprese, e in alcuni casi hanno favorito la ripresa dell’occupazione e miglioramenti della competitività aziendale. Ma le valutazioni non sono univoche, come si è visto sopra. C’è chi osserva che queste esperienze creative sono relativamente limitate; perché, come si è detto, «the high road is not too busy»37. In gran parte dei casi le soluzioni accettate dal sindacato sono risultate prevalentemente difensive. L’ultimo punto (il n. 8) dell’accordo conferma la tradizionale richiesta sindacale al Governo di rendere strutturali le misure di incentivazione della contrattazione di secondo livello, che preveda aumenti retributivi variamente misurati. A tale indicazione si riferisce, con esplicita menzione dell’accordo del 28 giugno, l’art. 26 della manovra economica approvata dal parlamento con il d.l. n. 98/2011. Questa normativa ribadisce la previsione della tassazione agevolata del salario e dello sgravio dei contributi dovuti da lavoratori e datori di lavoro sui premi previsti da accordi aziendali o territoriali sottoscritti da organizzazioni comparative più rappresentative del quadro nazionale (si usa qui la formula tradizionale). Ma l’impegno vale ancora una volta per un solo anno (il 2012) e sarà finanziato entro il 31.12.2011, nei limiti delle risorse stanziate; così il d.l. n. 98/2011.
1 Ichino, Si volti pagina nel rapporto sindacati-imprese, 29.6.2011, in www.lavoceinfo.it; Lai, Rappresentanza e validità dei contratti aziendali, Dir. e prat. lav, 2011, 1759; più articolato il giudizio di Carinci, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace?, in Arg. dir. lav., 2011, 457 ss. e di Magnani, L’accordo interconfederale «unitario» del 28 giugno 2011, in Dir. rel. ind., 2011.
2 Orlandini, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, molti dubbi e poche certezze, 2011, in www.dirittsocialiecittadinanza.org; Bavaro, Dubbi e certezze dell’accordo del 28 giugno, Il Diario del lavoro, 2011; Alleva, Merito e prospettiva dell’accordo interconfederale 28/6/2011, 2011, in www.dirittisocialiecittadinanza.org.
3 Della Rocca, Ricciardi, Contrattazione collettiva e relazioni sindacali nel pubblico impiego, in Dell’Aringa-Negrelli (a cura di), Le relazioni industriali dopo il 1993, Milano, 2005.
4 Brandolini, Indagine conoscitiva sul livello dei redditi ai lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia, 1993-2008, audizione alla XI Commissione Senato, 21.4.2009; Megale-Birindelli-Sanna, Indagine conoscitiva sui redditi da lavoro e sulle redistribuzioni della ricchezza in Italia nel periodo 1993-2008, audizione presso la XI Commissione Senato 24.9.2009.
5 Carinci, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace?, cit.
6 Magnani, L’accordo interconfederale, cit.; Carinci, L’accordo interconfederale, cit.; De Stefano, Un accordo e molti problemi irrisolti, 7.7.2011, in www.lavoceinfo. it.
7 Orlandini, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: molti dubbi e poche certezze, cit.
8 Secondo Carinci, le regole dell’accordo cambierebbero comunque il principio tradizionale del reciproco riconoscimento fra le parti «perché il titolo a un posto al tavolo nazionale nasce dal possesso stesso del requisito numerico richiesto, tanto da poter essere fatto valere con l’art. 28 dello Statuto ( L’accordo interconfederale, cit.). 9 Il problema della rappresentanza e dell’efficacia dei contratti collettivi, si pone diversamente nel Pubblico Impiego a causa della diversa natura del datore di lavoro, cui corrisponde una specifica e più stretta regolazione legale del sistema contrattuale: Carinci, Il diritto di sciopero. La nouvelle vague all’assalto della titolarità individuale, Dir. lav. rel. ind., 2009, 415 ss.
10 Traxler, Collective bargaining in the OECD,: developments, preconditions and effects, in European Journale of Industrial Relations, 1998, 4, 207-226.
11 Cella-Treu, Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Bologna, 2009, 135 ss.
12 Carinci-De Luca Tamajo-Tosi- Treu, Il diritto sindacale, Torino, 2008, 184 ss.
13 Cfr. in generale De Luca Tamajo, Accordo di Pomigliano e criticità del sistema di relazioni industriali italiane, Riv. it. dir. lav., 2010, 797 ss.; Treu, Le relazioni industriali dopo Pomigliano, in Mascini ( a cura di), Annuario del lavoro, 2010, 267 ss.; Mariucci, 21.6.2010, in www.lavoceinfo.it e Mariucci, Il caso FIAT: Una crisi di sistema?, in Lav. dir., 2011, 239 ss.; Liso, Appunti su alcuni profili giuridici delle recenti vicende FIAT, in Dir. lav. rel. ind., n. 130, 2, 2011; Ballestrero, Astuzie e singolarità di una clausola singolare, Lav. dir., 2011, 269 ss.; e gli scritti di Mariucci, Ballestrero, Scarponi, Lassandari, in Lav. dir., 2011, 2.
14 V. i commenti negli scritti citati alla nota precedente.
15 Carinci, Il diritto di sciopero, cit., 415 ss. e nello specifico Carinci, La cronaca si fa storia. Da Pomigliano a Mirafiori, Arg. dir. lav., 2011, 11 ss. Anche gli scritti di Mariucci e Ballestrero, citati alla nota 13. Ho già avuto modo di rilevare che la concezione dello sciopero come diritto individuale non negoziabile è pur sempre di origine dottrinale e non imposta dalla Costituzione; inoltre, non sono mancati opinioni argomentate in senso contrario: Treu, Le relazioni industriali, cit., 270; Romagnoli, Sulla titolarità del diritto di sciopero, in Dir. lav. rel. ind., 1988, 581 ss; Rusciano, Lo sciopero: disciplina convenzionale autoregolamentazione nel settore pubblico e privato, Milano, 1989, 174 ss. Peraltro si è sostenuta una diversa interpretazione della norma, secondo cui «violazione» non sarebbe tecnicamente riferibile a comportamenti che costituiscono esercizio del diritto di sciopero: Liso, Appunti su alcuni profili giuridici delle recenti vicende FIAT, cit., 339; De Luca Tamajo, Accordo di Pomigliano e criticità del sistema di relazioni industriali italiano, cit., 797 ss.
16 V. gli Autori citati alla nota 13.
17 Ammettere in principio la possibilità di negoziare limiti allo sciopero non implica che qualunque limite sia lecito. Anche le clausole di tregua vanno valutate nel merito dei loro contenuti, con particolare attenzione agli interessi in gioco e al loro bilanciamento. Per questo non si ritengono ammissibili clausole di tregua di carattere assoluto, che obblighino ad astenersi da qualunque sciopero e in qualunque momento. Clausole simili, del resto, non risultano nelle prassi di altri paesi europei.
18 Cfr. Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003; e, da ultimo, l’ampia rassegna di Lunardon, Il contratto collettivo aziendale: soggetti ed efficacia, Relazione alle giornate di studio AIDLASS, Capanello 24-25 giugno 2010.
19 Così anche Carinci, L’accordo, cit.
20 Che l’efficacia sia effettivamente generale è discutibile, a meno che non si consolidi la tesi sopra citata, che ha «reinterpretato il diritto vivente», riconoscendo comunque tale valore estensivo ai contratti aziendali (Carinci, L’accordo, cit.). ma quella tesi si era sviluppata in periodi e sul presupposto dell’unitarietà del consenso sindacale: non è sicura in presenza di dissensi espliciti fra sindacati, come mostrano le prime sentenze dei giudici sugli accordi FIAT.
21 Orlandini, L’accordo interconfederle, cit., non è chiaro cosa accade se l’esito del referendum è positivo, se ciò impegni i loro firmatari ad aderire al contratto (conclusione a mio avviso dubbia).
22 Russo, Rappresentanza e rappresentatività nel settore del lavoro pubblico: i modi e i luoghi di un delicato rapporto fra intervento legislativo e autonomia collettiva, Relazione al seminario su Rappresentanza e rappresentatività, Università di Torino, 21.6.2011.
23 Così Carinci, L’accordo, cit.
24 Carinci, L’accordo, cit., rileva che in presenza di divergenze fra le federazioni non si ritiene di poter ricorrere al principio di maggioranza, estendendo quello «previa consultazione certificata» prevista per gli accordi sindacali con valenza generale.
25 Scarponi, Un’arancia meccanica: l’accordo separato alla FIAT Mirafiori, in Lav. dir., 2011, 304 ss., e ivi altre citazioni.
26 Queste pressioni hanno investito tutti i sistemi contrattuali, non solo quelli europei ma anche quelli anglosassoni e degli USA, che sono privi di una struttura di contrattazione nazionale e di una regolazione contrattuale e legale di carattere generale e tendenzialmente rigida. Nell’assetto fortemente decentrato della contrattazione di quei paesi, la pressione concorrenziale si è scaricata direttamente sulle singole aziende, senza le difese e i condizionamenti rappresentati in Europa dalle regole generali di legge e di contratto (Bordogna, Concession Bargaining e tendenze recenti nelle relazioni industriali USA, in Dir. lav. rel. ind., 1985, 26). Una situazione simile si verificherebbe anche in Italia se cadesse il sistema di contrattazione nazionale, come ipotizzato da alcuni.
27 Treu, Le Relazioni Industriali nell’era della globalizzazione: accordi in deroga in Europa e la sfida ai sistemi contrattuali, in Quad. rass. sind., 2011, I, 53 ss.; Hassel, The erosion of the German System of Industrial Relations, in British Journal of Industrial Relations, , 2010, 2; Haipeter, Derogation Clauses in German Metalworking Industry, International working party on Labour Market Segmentation Conference, Porto, 2008.
28 L’esperienza delle clausole di apertura nei paesi europei è alquanto diversificata per contenuti e per esito. Treu, Le Relazioni Industriali nell’era della globalizzazione, cit.
29 Visser, Recent trends and persistent variations in Europe’s Industrial Relations, Dutch Social and economic council, 2004.
30 Haipeter, Derogation Clauses, cit.; Klikauer, Stability in Germany’s Industrial Relations. A critique on Hassel’s Erosion Thesis, in British journal of Industrial Relations, 2002, 295-308.
31 Hassel, The erosion of the German System of Industrial Relations, in British Journal of Industrial Relations, cit.
32 Osserva Carinci, L’accordo, cit., che «hic et nunc» esiste e può essere esercitato un potere di veto di ogni sindacato e che il passaggio si è rivelato probabilmente necessario per dare semaforo verde a un istituto così controverso, come l’accordo in deroga.
33 Bavaro, Dubbi e certezze, cit.
34 Sono in parte diverse le indicazioni dei contratti del settore chimico e tessile, firmati anche dalla CGIL, che pure prospettano la possibilità di accordi decentrati modificativi.
35 V. Treu, Le Relazioni Industriali, cit.
36 Hyman, Social dialogue and industrial relations during the economic crisis: innovative practices or business as usual?, wp 11, ILO, Geneva, 2010.
37 Hyman, Social dialogue, cit.