Modo che tenne il duca Valentino
La strage compiuta a Senigallia la sera del 31 dicembre 1502, con cui Cesare Borgia si liberò di alcuni condottieri che gli si erano opposti, è presente in maniera estensiva per tre volte all’interno della produzione machiavelliana: la decisione spregiudicata e imprevedibile che il Borgia attuò per risolvere quello che poteva presentarsi ai contemporanei come un tradizionale problema di poteri all’interno di un sistema feudale, e che come tale poteva dar luogo a un’altrettanto tradizionale soluzione di compromesso fra potenti, è sicuramente alla base dell’importanza che il Borgia stesso più in generale, e questo evento in particolare, assumeranno nel pensiero e nell’opera di Machiavelli.
La prima attestazione è ‘in presa diretta’, nelle ultime lettere di una legazione che M. stava conducendo presso il Borgia stesso fin dall’ottobre del 1502, e che si sarebbe conclusa pochi giorni dopo il fatto di Senigallia. Dopo mesi di movimenti poco decifrabili e di parole ambigue e contraddittorie, solo la sera del 31 dicembre, quando i capi avversari vengono fatti prigionieri, il legato della Repubblica di Firenze può comprendere il disegno del duca, e ha tempo di scrivere solo alcune concitate righe:
Siamo ad ore 23. Sono in uno travaglio grandissimo; non so s’i’ mi potrò spedire la lettera per non trovare chi venga. Scriverrò a lungo per altra; e secondo la mia opinione, e’ non fieno vivi domattina (LCSG, 2° t., p. 524).
La lettera del giorno dopo, 1° gennaio 1503, è in effetti più estesa, ma solo perché fra la notizia dell’improvviso arresto e quella delle uccisioni si apre lo spazio per un colloquio in cui il Borgia ribadisce la sua volontà di amicizia con Firenze; l’atto risolutivo è necessariamente chiuso in una scarna notizia, ben lontana ancora dall’essere commentata o analizzata: «È seguito dipoi che questa notte ad ore dieci questo Signore fe’ morire Vitellozzo e messer Oliverotto da Fermo» (p. 527). L’episodio tornerà, come è noto, in Principe vii dove farà però ormai parte di un percorso biografico completamente razionalizzato, e apparirà come uno dei principali esempi della capacità di Cesare Borgia di gestire e soprattutto rafforzare il proprio potere in modo affatto nuovo.
A lungo si è ritenuto che il Modo rappresentasse uno stadio di elaborazione intermedia, fra la legazione e il Principe; ma in effetti l’unico termine post quem, interno al testo, è il titolo di cardinale attribuito il 31 maggio del 1503 a Francisco de Loris, nipote del papa Alessandro VI e al tempo dei fatti solo vescovo d’Elna. Nessun elemento, invece, impone di considerare il testo come precedente al Principe. Molti particolari della ricostruzione degli eventi, e più in generale lo stile narrativo adottato, sembrano indicare una maggiore distanza dagli eventi stessi, in un periodo in cui l’interesse dello scrittore sembra andare più sull’esperienza pratica di modelli storiografici che sulla spinta chiarificatrice dell’analisi politica. A questo va aggiunto infine che lo studio della grafia dell’autografo (ASF, Carte Strozziane, I 137, cc. 201r-204v; titolo d’altra mano: Il tradimento del duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo et altri. 1502) indica che la data possibile di scrittura si situa fra il 1514 e il 1517: è dunque molto probabile che il testo sia stato in quegli anni, se non composto ex novo, completamente riscritto. In ogni caso l’operetta sull’eccidio di Senigallia ha il privilegio di apparire a stampa nelle prime edizioni postume di M., quella romana di Antonio Blado e quella fiorentina di Bernardo Giunta, ambedue del 1532: in tali edizioni l’operetta si accompagna al Principe e alla Vita di Castruccio Castracani, recando il titolo Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliverotto da Fermo, il S. Paolo et il Duca di Gravina Orsini in Senigaglia.
Nella sua ricostruzione M. prende inizio dal settembre del 1502, momento in cui Cesare Borgia si appresta ad attaccare Bologna e in cui però molti dei suoi alleati, preoccupati dell’aumentare del suo potere, si riuniscono a Magione, nel Perugino, per accordarsi contro di lui. Da qui in poi il racconto giunge fino all’esecuzione dell’eccidio, iniziato, come si diceva, il 31 dicembre e completato il 18 gennaio 1503 con la morte di Paolo e Francesco Orsini. Non ci sono commenti, né introduttivi né finali, né tanto meno interni al testo, e il narratore sembra in generale assumere il tono distaccato dell’oggettività storica, giungendo perfino a nominarsi in terza persona come inviato al duca (§ 12). Il testo può comunque essere diviso, per un evidente cambiamento di stile descrittivo, in due parti, che potrebbero essere definite quella della preparazione (§§ 1-36) e quella dell’esecuzione (§§ 37-60).
La prima parte introduce subito il protagonista, Cesare Borgia, che «era tornato di Lombardia», dove si era incontrato con il re di Francia, e «disegnava [...] fare la impresa contro a messer Giovanni Bentivogli, tiranno in Bologna, perché voleva ridurre quella città sotto el suo dominio» (§ 1); «la quale cosa, sendo intesa da e’ Vitegli e gli Orsini e altri loro seguaci, parse loro come el duca diventassi troppo potente [...]». Da ambe le parti, dunque, si «disegna», si «vuole», si «intende»: il racconto assume subito il modello, appunto, del cap. vii del Principe, dove la base iniziale della struttura narrativa è una focalizzazione interna molto simile a questa, che passa dal padre Alessandro VI al figlio Cesare. Qui, con ancor maggiore evidenza, il passaggio del punto di vista fra due campi opposti bene evidenzia un serrato duello di strategie. La notizia della Dieta della Magione si sparge infatti rapidamente, e a Urbino subito vengono cacciati gli uomini del Borgia: i congiurati, «intesa la rebellione d’Urbino, pensorno che non fussi da perdere quella occasione» (§ 10); radunano quindi i loro armati e mandano ambasciatori a Firenze per alleanza contro il comune nemico. Dall’altro lato anche il duca chiede soldati al re di Francia e ne assolda di nuovi, senza troppo soffermarsi sulla loro qualità: «soldando qualunque uomo d’arme e altro che in qualunque modo facessi el mestiere a cavallo» (§ 15). In questa parte è notevole come il contatto cercato dai congiurati con la città di Firenze interrompa e determini il confronto fra le due parti in lotta: a quel contatto, infatti, la città risponde non solo con il rifiuto dell’adesione alla causa della rivolta, ma anche con l’invio, appunto, di M. presso il Borgia, il quale viene definito in questa occasione «pieno di paura» e subito dopo evidentemente rassicurato («ripreso animo») dall’appoggio portatogli dal segretario della Repubblica. Un Cesare Borgia insolitamente fragile, come tutti i commentatori del testo hanno notato, e soprattutto una sorta di protagonismo fiorentino assolutamente non rispondente alla realtà a suo tempo descritta nelle lettere della legazione; fragilità e protagonismo non facilmente spiegabili soprattutto per le incertezze sulla datazione del testo a cui sopra si accennava: se l’operetta fosse stata appunto scritta negli anni della Repubblica si potrebbe pensare a un omaggio alla novità di Piero Soderini, eletto gonfaloniere a vita proprio in quel settembre del 1502; se invece il testo appartenesse a una data ‘bassa’, quando l’interesse dello scrittore va più alla ricostruzione storica che all’analisi politica, si potrebbe pensare alla volontà di lasciare comunque una memoria positiva di quel periodo.
In ogni caso è un Cesare Borgia rinfrancato dall’appoggio di Firenze che si dedica con rinnovato slancio all’arruolamento di milizie, e soprattutto che mette in campo, subito dopo, la prima delle sue qualità: «essendo grandissimo simulatore, non mancò di alcuno oficio a fare intendere loro...». Inizia da qui, tutta ricostruita nell’ottica del protagonista, la trama di un inganno che il M. della legazione non poteva vedere, e che qui invece con matematica chiarezza porterà il Borgia a eliminare i suoi avversari senza usare i soldati che sta raccogliendo: «nondimanco pensò che fussi più securo e più utile modo ingannarli» (§ 22). Quei soldati infatti vengono tenuti separati e nascosti «per tutti e’ luoghi di Romagna» (§ 21) affinché i nemici non vedano quei preparativi, e nel frattempo tutto l’impegno è messo in una pratica di accordo, fino a una «pace» che formalmente restaura i rapporti precedenti alla congiura: le vecchie «condotte» sono confermate e pagate, e i ribelli non hanno nessun obbligo di comparire davanti a lui (§ 23). L’accordo è accettato, il ducato di Urbino restituito, e i congiurati si fanno infine convincere ad assalire non Firenze, come desideravano, ma la ben meno importante Senigallia. E quando il castellano della piccola città marchigiana rifiuta di arrendersi se non «alla persona del duca e non ad altro» (§ 29) la trappola scatta: la prima parte del testo termina con lo spostamento del Borgia da Fano appunto a Senigallia, avvenuto fra il 30 e il 31 dicembre, e con le sue ultime istruzioni a «otto sua de’ più fidati» (§ 34). Da notare, in questa prima parte, due luoghi particolari, in cui lo scrittore, sempre adottando un’ottica interna, attribuisce a due personaggi secondari considerazioni militari e politiche che – di nuovo tornando alle incertezze di datazione – possono apparire sia come anticipazioni di quanto verrà detto nel Principe, sia, nell’altra ipotesi, precisi ricalchi di quanto nel trattato era stato scritto: in ogni caso questo metodo con cui M. fa entrare nel testo storiografico concetti teorici è perfettamente identico al metodo ampiamente utilizzato in seguito nelle Istorie fiorentine. Il primo episodio è relativo al momento in cui Urbino viene restituita al Borgia, e il duca Guidubaldo da Montefeltro di nuovo fugge a Venezia
avendo prima fatto ruinare tutte le fortezze di quello stato, perché, confidandosi ne’ populi, non voleva che quelle fortezze ch’egli non credeva potere defendere, el nimico occupassi e, mediante quelle, tenessi in freno gli amici sua (§ 25).
Il secondo episodio riguarda Vitellozzo Vitelli, che non è molto convinto di attendere a Senigallia l’arrivo del Borgia:
E benché Vitellozzo stessi assai renitente, e che la morte del fratello gli avessi insegnato come e’ non si debba offendere un principe e dipoi fidarsi di lui, nondimanco, persuaso da Paulo Orsino, suto con doni e con promesse corrotto da el duca, consentì ad aspettarlo (§ 33).
La seconda parte inizia con un’accurata descrizione della strada che da Fano conduce a Senigallia, e soprattutto di quest’ultima città, con il ponte sul fiume che vi dà ingresso e il piccolo borgo fuori le mura che poi servirà da sfondo all’arrivo del Borgia. Il punto di vista esterno, oggettivo, tipico di un quadro geografico, sostituisce quello interno con cui tutta la prima parte era stata condotta, e non verrà più abbandonato. Da qui in poi, infatti, non si scende più nel pensiero dei personaggi – tutto è già deciso, resta solo l’azione – ma si descrive con esattezza ogni particolare, e si pone attenzione a disegnare ogni scena, come quella dei cavalieri che, giunti al ponte, «volsono le groppe de’ cavalli l’una parte al fiume, l’altra alla campagna, e si lasciorno una via nel mezzo donde le fanterie passavano» (§ 45). Per questa via i congiurati muovono dalla città a incontrare il Borgia,
e Vitellozzo disarmato, con una cappa foderata di verde, tutto aflitto come se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello uomo e la passata sua fortuna, qualche ammirazione (§ 46).
La stessa immagine era già presente nella legazione del 1502, e infatti è un’immagine che richiama esplicitamente una testimonianza oculare, non meno di quel «si dice» che subito dopo riferisce frasi pronunciate dallo stesso Vitellozzo alla sua partenza per Senigallia, e che presuppone un’attiva presenza del narratore sul luogo. In seguito il testimone oculare acuisce ancora di più il suo sguardo, poiché Cesare, accortosi che Oliverotto non gli è venuto incontro, ma è rimasto con la guarnigione del borgo, «accennò con l’ochio a Don Michele, al quale la cura di Liverotto era demandata, che provedessi in modo che Liverotto non scappassi» (§ 49). Infine gli eventi precipitano: portati in una «stanza secreta», i congiurati sono fatti prigionieri, e immediatamente dopo il Borgia, risalito a cavallo, ordina l’attacco contro i loro soldati alloggiati in città, finché non è costretto a reprimere le sue stesse milizie, ormai sfrenatamente volte al saccheggio indiscriminato. Così l’operetta finisce in un sottolineato contrasto fra un vincitore capace di esercitare pienamente la sua forza, oltre che sugli avversari, sui propri soldati, e un gruppo di vinti che di fronte a una morte comunque ingloriosa mostrano in ultimo tutta la viltà che li ha condannati: «dove non fu usato da alcuno di loro parole degne della loro passata vita» (§ 58). Forse quella «loro passata vita» era solo un’illusione di potenza, simile a quella dei principi quattrocenteschi delineati nelle future Istorie fiorentine: illusione che l’avvento di un principe nuovo può ben svelare.
La differenza di resa stilistica fra la prima parte dell’operetta, quella della preparazione, e la seconda, quella dell’esecuzione, è così evidente che fa pensare a una volontà quasi dimostrativa: uno è lo stile che serve a narrare le strategie, le valutazioni e le scelte dei personaggi storici; un altro è quello che serve a raccontare con precisione le loro azioni, e gli ambienti dove si sono svolte. A ciò si può aggiungere la considerazione che questa è l’unica delle operette di M. comunque legate a eventi degli anni della segreteria a essere stata pubblicata immediatamente dopo la sua morte non solo insieme al Principe, ma anche insieme alla Vita di Castruccio Castracani, fatto che suggerisce almeno una vicinanza fisica fra i due brevi testi storiografici nelle carte di Machiavelli.
Per questo, e per tutto quanto si è detto, si può un’ultima volta tornare alle ipotesi di datazione più volte ricordate: l’operetta sembra in effetti appartenere agli anni in cui, dopo l’esperienza delle maggiori opere teoriche, M. intende mostrare le sue capacità di scrittore di storia, in vista di un incarico per le Istorie fiorentine. La Vita di Castruccio Castracani potrebbe in questo senso rappresentare la prova di lavoro su eventi lontani, per la sicurezza mostrata nel gestire antiche fonti; l’operetta sulla strage di Senigallia sarebbe invece la prova di un resoconto di eventi moderni, più indicati per un’indagine sulle motivazioni interne dei personaggi, e in ogni caso più vicini alla larga esperienza diretta dello scrittore.
Bibliografia: Edizioni critiche: J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975, pp. 77-97, 420-26, con ed. critica; N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani e altri scritti, a cura di G. Inglese, Milano 1991, pp. 95-106, con ed. annotata; N. Machiavelli, L’Arte della guerra. Scritti politici minori, in Edizione nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, I. Opere politiche, 3° vol., a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, con nuova ed. critica.
Per gli studi critici si vedano: G. Sasso, Machiavelli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, Roma 1966; F. Chiappelli, Gli scritti di Machiavelli segretario, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 1326; B. Richardson, Per la datazione del Tradimento del duca Valentino del Machiavelli, «La bibliofilia», 1979, 81, pp. 75-85.