Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati.
Nei primi giorni del giugno 1502 Vitellozzo Vitelli, condottiero al servizio di Cesare Borgia, detto il Valentino, entrò in armi nella città di Arezzo, costringendo i commissari fiorentini che la governavano ad asserragliarsi nella fortezza e poi ad arrendersi. Dopo questo primo successo, Vitelli ottenne rapidamente la resa di tutte le città del territorio aretino, provocando un’estesa ribellione contro la Repubblica di Firenze, non in vista comunque di una sorta di indipendenza, ma nel nome di Piero de’ Medici che non tardò a stabilirsi nella città capoluogo. Vitellozzo aveva certo del risentimento personale nei confronti dei fiorentini che, tre anni prima, nell’autunno del 1499, avevano condannato a morte il fratello Paolo accusato di tradimento nella conduzione della guerra di Pisa, ma il suo agire in nome dei Medici e il suo favorire un ritorno al potere della dinastia cacciata nel 1494 lo indicano come parte di un disegno più vasto. Già l’anno precedente, infatti, Cesare Borgia aveva attraversato il territorio toscano diretto a Piombino, e si era pericolosamente avvicinato a Firenze, chiedendo con insistenza la restaurazione del dominio mediceo sulla città: Borgia riteneva evidentemente l’antico potere più idoneo per alleanze e accordi, o sperava di assumere un qualche ruolo di preminenza nelle turbolenze di un cambiamento. L’episodio della ribellione di Arezzo e delle terre vicine va dunque visto nel quadro dei continui tentativi borgeschi di estendere alla Toscana la propria influenza, e si concluse con l’intervento delle truppe francesi, non tanto in difesa dell’integrità del dominio repubblicano fiorentino, tradizionale alleato del re di Francia, quanto in opposizione alle preoccupanti mire del Valentino. I reparti francesi, agli ordini di monsignor di Lancres, si mossero da Asti, dove in quei giorni si trovava la corte di Luigi XII, e occuparono Arezzo dal 29 luglio al 25 agosto, quindi riconsegnarono la città e gli altri territori ai fiorentini, senza però mai consentire a essi dirette trattative né con il Vitelli né con il Borgia. Quasi esautorato nel momento stesso in cui riprendeva la sua autorità, e umiliato da lunghe dilazioni, il governo fiorentino non riuscì in seguito nemmeno a reprimere la rivolta con misure drastiche, limitandosi a convocare i più influenti cittadini aretini a Firenze e a rinforzare il presidio militare, senza prendere alcun provvedimento di rilievo per le altre città che si erano ribellate. Tanto è vero che l’anno dopo, nell’estate del 1503, ancora il Valentino minaccerà la Toscana, e ancora a Firenze si avranno forti timori di ribellione nelle stesse zone.
Negli ultimi giorni di quel giugno 1502, durante l’occupazione vitellesca di Arezzo, M. accompagnò a Urbino il vescovo Francesco Soderini, ambasciatore presso Cesare Borgia, il quale ovviamente negò ogni diretta partecipazione all’impresa del suo condottiero, e ne attribuì le cause a risentimenti personali; ma si dichiarò soddisfatto di quanto stava accadendo, e ribadì il suo proposito di riportare i Medici a Firenze. In seguito M. si recò due volte ad Arezzo, prima alla fine dell’occupazione francese, fra il 15 e il 19 agosto, e poi ancora con commissioni per monsignor di Lancres l’11 e il 17 settembre.
Tali esperienze dirette confluiranno infine in uno scritto conservatoci nella trascrizione tardocinquecentesca di Giuliano de’ Ricci (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, cod. Palatino E.B.15.10, cc. 69v-71r) e poi pubblicato a Firenze, da Cambiagi, nel 1783, con il titolo Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, che da allora si è sempre mantenuto. Poiché in tale scritto M. si riferisce a fatti dell’«anno passato»; poiché attribuisce il titolo di cardinale a Francesco Soderini, asceso a tale carica il 31 maggio 1503; poiché infine vi indica come vivente il papa Alessandro VI, deceduto il 18 agosto, la stesura va attribuita al periodo giugno-agosto 1503, quando sembra di nuovo profilarsi la minaccia del Borgia sulla Toscana. Come per altre operette scritte da M. durante gli anni della Repubblica, non si possono avere certezze su quanto possa essere stata personale la motivazione di questo scritto, né sulla sua effettiva destinazione: si può ragionevolmente supporre, comunque, che esso sia stato letto in Consiglio da qualche funzionario della cancelleria o del governo della città. In ogni caso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati può essere considerato il primo testo di M. in cui fatti storici sono considerati ai fini di un giudizio e di una proposta politica, e soprattutto il primo in cui alla base di quel giudizio e di quella proposta si pone, con una chiarezza razionale e quasi scientifica, la necessità di imitare gli antichi Romani.
Il testo si apre con la rievocazione di un episodio della storia romana: dopo avere domato la ribellione di alcune comunità del Lazio, Lucio Furio Camillo tiene un breve discorso in senato sulla necessità di ‘assicurarsi’ ora e per sempre dei popoli soggetti, e sulla necessità di prendere in ogni caso una decisione rapida: si può «incrudelire» o si può «perdonare», lo scopo deve essere comunque quello di avere un «imperio [...] fermissimo». Chiusa l’allocuzione, i senatori lodano il console, e decidono provvedimenti differenziati attraverso un’accurata analisi dei popoli soggetti: ai Nomentani e ad altri viene perdonato, ed è concessa loro la cittadinanza romana; i Veliterni invece, essendo «antichi cittadini romani» e ostinati nella rivolta, si vedono la città distrutta e vengono costretti a trasferirsi a Roma; ad Anzio infine si insedia una colonia, ed è tolto agli abitanti ogni diritto alla navigazione. Questa parte occupa i primi tredici paragrafi del testo, ed è una traduzione, come M. dice, «quasi ad verbum» da Livio (VIII 13): in realtà, secondo un’abitudine che lo scrittore manterrà, il testo originario subisce molte omissioni e modifiche, anche se non sostanziali, e si può considerare liberamente riportato.
Il successivo commento machiavelliano (§§ 14-17) è in gran parte asseverativo e descrittivo dei provvedimenti adottati dall’antico senato romano, e serve a riprendere le alternative già presenti nel discorso del console («incrudelire» o «perdonare»), nonché a riordinare logicamente, con un’alternativa successiva, i modi della prima opzione: «rovinare le città [...] o spogliarle delli abitatori vecchi». L’idea di fondo è però quella che nella fonte rimaneva implicita: «i Romani [...] giudicavano dannosa ogni altra via di mezzo che si pigliasse». Notiamo dunque come già in queste prime operette comincino a farsi chiari gli elementi di un quadro concettuale in cui M. si muove e continuerà a muoversi, qui, per es., nel privilegio delle soluzioni estreme e nel rifiuto di ogni incertezza e ambiguità; e allo stesso tempo come il suo tipico procedere disgiuntivo fra alternative che si escludono a vicenda, sostegno stilistico di tante pagine degli anni della lontananza dalla politica attiva, nasca quasi inevitabilmente da quello stesso quadro concettuale.
Manca solo, a questo punto, l’anello di congiunzione fra passato e presente, e M. lo enuncia qui con inedita chiarezza e sicurezza, pur rimanendo perfettamente all’interno di una più generale cultura umanistica. Le parole del § 18 sono sicuramente le più note di questo scritto:
Io ho sentito dire che le istorie sono la maestra delle azioni nostre, e massime de’ principi; e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre le medesime passioni e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve malvolentieri e chi serve volentieri, e chi si ribella e è ripreso.
Non è tanto importante il riferimento ciceroniano, quasi banalizzato da quel «sentito dire», quanto il sostegno teorico di una immutabilità umana che si situa fra lo psicologico e il sociale, che per la prima volta trasforma il generico richiamo morale in un motivo di analisi politica. Nasce qui, si può dire, l’elemento di fondo del quadro concettuale di cui si diceva: la stessa fissità della natura umana, che consente il salto a una dimensione pratica nell’imitazione dell’antico, sarà principio ispiratore di tutte le opere politiche successive, e verrà di nuovo teorizzata, nello stesso modo, in diverse pagine dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (proemio; I i, xi, xxxix; III xliii). Su questa base, è ovviamente facile collegarsi al presente di Arezzo e della Valdichiana, perché «è simile la ribellione e il riacquisto».
Con il § 20 si apre la seconda parte dello scritto, dedicata al giudizio su quanto è stato fatto da Firenze nelle recenti circostanze, attraverso il paragone con quanto si faceva in passato. E poiché anche i fiorentini hanno tenuto comportamenti apparentemente differenziati, e poiché i pareri possono essere diversi e sfumati, preliminarmente M. adotta un altro dei modi stilistici che poi ritroveremo nelle opere maggiori, ossia la costruzione di momenti dialogici utili per rispondere a eventuali obiezioni: «E se voi dicessi: “Noi lo aviamo fatto”, direi che si fosse fatto in parte, ma che si sia mancato nel più e nel meglio». Solo dopo aver suscitato un movimento dialettico, e soltanto dopo avere, come in una discussione reale, contrastato l’opinione avversa, chi scrive può dare spazio alle proprie certezze: «Io giudico ben giudicato che [...]». Ma non è, come non sarà mai in futuro, solamente un modo per vivacizzare l’esposizione, o solo un metterne a nudo i passaggi razionali; né è soltanto, come in questo caso si potrebbe pensare, un modo per rendere la pagina ‘drammaticamente’ adatta a una lettura pubblica. Il «voi» – che, si noti, è lo stesso «voi» usato dal console Furio Camillo di fronte ai senatori romani – segnala il secondo indispensabile passaggio: se prima si è unito l’antico al presente, ora si passa necessariamente dall’astratto al concreto, cioè da una teoria che avrebbe potuto sostanziare una generica discussione precettistica a un immergersi, facendone parte a pieno titolo, nella situazione e nei comportamenti di un determinato popolo e di un determinato governo. Quel «voi» è anche il «voi» degli storici contemporanei, come Piero Parenti, o di Francesco Guicciardini nel Discorso di Logrogno (1512): è il «voi» di chi analizza una situazione storica non dall’esterno o a posteriori, ma sentendosene parte attiva nel presente.
Ed ecco dunque il cuore argomentativo dello scritto: è stato giusto che in molti centri dell’Aretino, da Cortona a Foiano, siano stati perdonati e beneficati i cittadini, in quanto il loro comportamento risulta simile a quello degli antichi Nomentani e Tusculani; ma, al contrario, il comportamento degli aretini è stato evidentemente simile a quello di Veliterni e Anziati, e quindi essi, secondo il modello liviano, avrebbero dovuto essere duramente castigati. Invece, mentre appunto «i Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbono o beneficare o spegnere, e che ogni altra via sia pericolosissima», gli aretini non sono stati né perdonati o beneficati, poiché si costringono a venire a Firenze a discolparsi e poiché si è aumentato il presidio militare, né puniti una volta per tutte, dal momento che si sono lasciate in piedi le mura e non si sono mandate colonie di nuovi abitanti. Il bersaglio teorico della polemica è la detestata «via di mezzo», che si attua in provvedimenti ambigui e irresoluti; ma l’obiettivo realmente precettistico è il non avere saputo o voluto risolvere una situazione facilissima, perché già risolta da altri, e avere di conseguenza lasciato immutata una condizione da sempre pericolosa. Come già nel 1498, ricorda infatti a questo punto M., una crisi ad Arezzo costrinse la Repubblica di Firenze a distogliere importanti forze dall’assedio di Pisa, così anche dopo l’ultima ribellione, in un futuro che può essere il presente di chi scrive e di chi ascolta, ogni problema che potesse materializzarsi su Firenze verrebbe ingigantito dalla fragilità e dall’ostilità di quella parte del dominio.
Ed è appunto sul presente che verte l’ultima parte dello scritto, dal § 31 in poi: M. vi discute la possibilità che Firenze possa essere in quel momento assaltata e, lasciando da parte i «principi oltramontani», si concentra su Cesare Borgia che, pur non essendo mai stato prima nominato, rappresenta sicuramente il pericolo più incombente, oltre a essere, nella mente di tutti, il probabile artefice dell’ultima ribellione. E qui di nuovo l’estrema chiarezza del quadro e il procedere con passo sicuro attraverso legami via via stringenti di cause ed effetti lasciano intravedere future rielaborazioni e interpretazioni: è certo, infatti, che le mire del Borgia sulla Toscana puntano a «farne un regno con li altri stati che tiene», ed è altresì certo che «non ha mai disegnato fare fondamento in su amicizie italiane». Resta a «vedere» se adesso è per lui il momento più opportuno per «colorire questi suoi disegni»: forse in effetti non lo è («io direi di no»), ma poiché gli rimane «poco di tempo, rispetto alla brevità della vita del Pontefice», e poiché egli si è sempre dimostrato, come il pontefice stesso, «conoscitore della occasione e che la sappia usare benissimo», è inevitabile pensare che non aspetterà molto prima di affidare «della causa sua buona parte alla fortuna». Resterebbe ora a «vedere» sotto quali forme tale «occasione» – parola veramente chiave in quest’ultima parte dello scritto – si potrebbe presentare, ma qui purtroppo il testo trasmessoci si interrompe, non senza comunque averci dato, sia pur brevemente, l’immagine finale di un principe abile e lungimirante, nella sua inarrestabile volontà di espansione che potrà essere fermata – già qui è chiarissimo – solo dalla morte del padre, papa Alessandro VI. Si profila insomma quel perfetto teorema di scelte razionali che sarà il cap. vii del Principe: si mettono a punto termini come «fondamento» e «occasione», e si intravede già colui che diventerà il massimo campione nell’eterna lotta fra «virtù» e «fortuna».
Insieme ad altre operette degli anni del segretariato, il Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati si può dunque considerare una finestra aperta sul laboratorio in cui M. matura un’ideologia e uno stile, soprattutto un metodo di giustapposizione precisa, testuale, fra eventi del passato e del presente, che in seguito, anche attraverso l’esperienza della crisi e della caduta, metterà a frutto in opere di più ampio respiro. Tuttavia, se la sua importanza sta soprattutto nel mostrare la prima espressione di idee e concetti, nonché la nascita di procedimenti argomentativi che saranno in futuro perfezionati, non si può comunque non riconoscere a questo scritto un suo valore autonomo nel sapiente crescendo drammatico dal lontano passato al minaccioso presente, nell’ultima, rapida ma già perfetta immagine del Borgia e, soprattutto, nell’inserimento, in un testo quasi sicuramente concepito per essere letto nel pubblico Consiglio, dell’episodio non semplicemente ricordato, ma lungamente rievocato, di un console che parla in senato. L’uso dell’identico pronome allocutivo «voi» e, in generale, l’identità della situazione provoca una mise en abyme di rara efficacia, atta a sostenere come e meglio che altrove l’idea di una storia sempre uguale a sé stessa.
Bibliografia: Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, a cura di J.-J. Marchand, in Opere politiche, 3° vol., L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 458-65.
Per gli studi critici si vedano: F. Chiappelli, Gli scritti di Machiavelli segretario, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 242-49; J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, nuova ed. Bologna 1993, pp. 125-29.