MOGGI, Moggio
(Moggio de' Moggi; Modius de Modiis, Modius Parmensis). – Originario di Parma, come afferma più volte nelle sue opere (e Parmensis si definisce anche nelle sottoscrizioni autografe del registro conservato all'Archivio storico della Curia vescovile di Vicenza, Codex Feudorum, F 7), non se ne conosce la data di nascita, da porre verosimilmente intorno al 1330.
Nulla si sa circa i suoi primi studi, che lo condussero al chiericato e al notariato. Mise tuttavia in mostra ben presto buone doti se, tra il dicembre 1343 e il febbraio 1345, Francesco Petrarca, allora a Parma, scelse lui, non più che adolescente, come precettore per il figlio Giovanni, dando avvio a un rapporto d'amicizia che si concluse solo con la morte del poeta. L'incontro con Petrarca costituisce l'unico dato certo del primo periodo parmense del M., il quale nel 1346 fu costretto ad abbandonare la città natale.
Nel 1344 Azzo da Correggio, signore di Parma, aveva infatti venduto la città a Obizzo d'Este, che estendeva considerevolmente il suo dominio allarmando i Gonzaga, motivo per cui Luchino Visconti, alleato dei Gonzaga, nel 1346 assediò la città e la comprò all'Estense allo stesso prezzo da lui pagato ad Azzo, che fu costretto a lasciare la città e a rifugiarsi a Verona.
Nel carme acrostico VII a Pulice da Costozza (si cita secondo la numerazione dell'ed. Garbini), vv. 21-24, il M. racconta che in seguito all'occupazione viscontea dovette abbandonare Parma e trasferirsi a Verona. Non si sa tuttavia se al seguito o meno di Azzo da Correggio, nel quale comunque fin dall'adolescenza aveva riposto ogni speranza, come scrisse il 12 nov. 1380 nell'epistola VII ad Antonio Piezoli da Sassuolo. A Verona, oltre che sulla presenza di Azzo da Correggio, il M. poté contare su quella di Petrarca, che lì aveva riunito una schiera di amici ed estimatori, quali Guglielmo da Pastrengo, Gasparo Scuaro de' Broaspini e, soprattutto, il rinomato maestro Rinaldo Cavalchini, che assunse il M. come ripetitore nella sua prestigiosa scuola e lo esortò anche a manifestare le sue doti di poeta.
Su questa nuova stagione della vita del M., che costituisce un momento di fondamentale importanza per la sua formazione, preziose indicazioni si ricavano da alcuni suoi carmi scritti in quel periodo (dal 1346 al 1349) e indirizzati sia a giovani allievi, quali Donato Ervari e Alterio di Verona (carmi III e IV), sia a letterati di varia fama, come Giacomino Robazzi, Pietro Alighieri, Simone di Cumana (carmi II, V, VI), tutti in distici elegiaci o in esametri, come fu per l'intera sua produzione in versi.
A Verona il M. trascorse due o tre anni ricchi di incontri, di letture attente di autori antichi (anche gli inconsueti Catullo e lo Stazio delle Silvae), medievali e moderni, di sollecitazioni letterarie agli allievi, dei cimenti poetici ora ricordati, esibenti un complesso sfarzo stilistico, caratterizzato da gotiche circonvoluzioni fiorite quanto buie, e aperti al gusto contemporaneo, come l’abbozzo di letteratura erotica ispirata ad Albertino Mussato (carme VI a Simone di Cumana, dedicato all'Arena di Verona) o il più compiuto tentativo di avviare, tra i primissimi, un alterco bucolico sulle impronte di Giovanni del Virgilio e Dante (carme IV ad Alterio di Verona). Alla scuola di Rinaldo il M. incontrò di nuovo Giovanni Petrarca, affidato dal padre a Cavalchini nel settembre 1345, e divenne precettore anche di due figli di Azzo da Correggio, Giovanni e Barriano.
Proprio il lungo carme XII a Giovanni e Barriano costituisce la fonte principale per ricostruire l'attività scolastica e i metodi didattici di Rinaldo, che si può porre tra gli antesignani del rinnovamento pedagogico umanistico. Alle cure grammaticali del M. erano affidati gli allievi più giovani, i latinantes minores, mentre i latinantes maiores seguivano le lezioni di Rinaldo dedicate alla lettura e al commento dei classici. Attenzione era dedicata anche alle escursioni didattiche fuori della città e alle discussioni tra gli allievi, provocate e moderate da Cavalchini. Un ulteriore, innovativo aspetto della scuola di Rinaldo, cui il M. mostrò presto di interessarsi, è costituito dall'interesse per la letteratura contemporanea: si deve a Feo la scoperta di una pubblica lettura di Petrarca effettuata da Cavalchini in piazza Erbe e di una minima corrispondenza fra i due, che costituisce una sorta di laus di Verona a due voci e che venne citata dal M. in diversi carmi. Al riguardo, notevole importanza riveste il carme V a Pietro Alighieri, unica fonte per un'altra ragguardevole esibizione organizzata da Rinaldo, sempre in piazza Erbe, in quella Verona contrassegnata dalla presenza di Petrarca ma anche da appassionati studi su Dante: la declamazione di un capitolo in terzine sulla Commedia eseguita da Pietro Alighieri, che il M. tuttavia fraintese mostrando di non conoscere l'opera dantesca. Il M. e Rinaldo strinsero anche un legame di sincera amicizia come risulta dall'epistola (unica nota) inviata al M. tra 1358 e 1362, nella quale Rinaldo, tra l'altro, si rammarica per la morte dell'ex allievo Barriano da Correggio e, sentendo approssimarsi la morte, fa conoscere all'amico i quattro esametri rimati che costituiscono il proprio autoepitafio.
La sistemazione presso la scuola di Cavalchini non offrì al M. tuttavia quelle garanzie che egli cercava nella Vicenza del vescovo Egidio Boni. Il primo progetto era quello di ottenere la concessione di un comodo beneficio sine cura: testimoniano questa ambizione il generico e oscuro carme IX, corredato di un biglietto di accompagnamento, l’epistola II, con cui il M. chiede al vescovo di accoglierlo a Vicenza, e una esplicita supplica (epistola I). Tutti e tre questi pezzi si devono datare a prima del dicembre 1349, epoca in cui il M. fu accolto dal vescovo non come titolare di un beneficio, bensì come impiegato notarile nella curia. Almeno dal 14 dic. 1349 al 14 maggio 1351 egli fu infatti a Vicenza presso il vescovo Egidio Boni quale officialis et scriba, cioè in qualità di impiegato che registrava i pagamenti degli affitti dei beni vescovili, come testimonia il menzionato fascicolo – autografo del notarius «Modius de Modiis de Parma – del libro di minute relative agli atti del vescovo per il periodo gennaio 1350-maggio 1351 (Vicenza, Archivio della Curia vescovile, Codex Feudorum, F 7).
Giunto a Vicenza, o poco prima, il M. intrecciò una rete di relazioni maneggiando lo strumento a lui caro dell’epistola metrica. Oltre al carme di richiesta al vescovo Egidio Boni, inviò il carme VII al procuratore Pulice da Costozza, uno dei personaggi più in vista nel mondo politico e culturale della città. Con questo carme il M. si presentò per stringere un’amicizia: c’è l’elogio di Pulice (con attestazione unica di sue opere di argomento mitologico) cui fa seguito una esortazione affinché il vicentino componga versi, e c’è il ricordato inserto autobiografico con il racconto della fuga da Parma e il riconoscente ricordo del Cavalchini, amico affettuoso di Pulice che dal maestro veronese era spesso elogiato, come si apprende ancora da questa unica fonte. Subito dopo l’epistola metrica a Pulice, e con lo stesso intento di allacciare un'amicizia, il M. ne inviò una al grammatico e poeta Fino (carme VIII).
Spianatasi la strada, il M. iniziò la sua nuova professione, non senza punte di rimpianto per gli anni trascorsi a Verona, come mostrano tre epistole metriche e un biglietto in prosa indirizzati a Giovanni e Barriano da Correggio.
Tra sentimento di perdita e nostalgia si muovono infatti il carme XI, nel quale il M. esprime con particolare elaborazione formale il dolore provato per il distacco dai suoi due giovani scolari, dolore in parte lenito, come soggiunge in un biglietto in prosa connesso al carme (epistola III), da un commovente carme inviatogli dai due fratelli, e il già ricordato carme XII, impreziosito dall’acrostico di dedica e accompagnato da otto esametri (carme XIII). Il carme XII è lungo, lacunoso e oscuro ma risulta prezioso sia per le allusioni letterarie (vi si cita tra l’altro l’epistola di Cavalchini a Petrarca) sia per la già menzionata rievocazione della vita scolastica di Rinaldo Cavalchini.
A Vicenza il M. continuò a soddisfare la sua curiosità di lettore di testi moderni perché è lì che, con tutta probabilità, egli lesse il De Scaligerorum origine di Ferreto de' Ferreti. Nel maggio 1351, sempre a Vicenza, venne certamente a sapere – se addirittura non vi partecipò – della memorabile serata in cui Petrarca, durante una disputa su Cicerone, mostrò agli astanti i primi frutti di quell'invenzione letteraria con cui andava fondando la moderna, artistica epistolografia, basata sull’idea della raccolta di lettere intesa come architettura: due sue lettere indirizzate proprio all'antico oratore (Fam. XXIV, 3-4). Di lì a due anni, se non prima, anche il M. sarebbe entrato a far parte del popoloso schedario dei destinatari di Petrarca: si data infatti al 1353 la Var. 8, un breve biglietto con cui si inaugura la corrispondenza di Petrarca al M., che conta ben dieci lettere e tutte autografe (dunque quasi l'intero corpus pervenuto delle epistole petrarchesche autografe, che sono dodici), serbate con religioso rispetto dal M. e poi confluite in quel monumento della cultura europea che è il ms. 53.35 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, la «raccolta di Moggio»: nove Varie (4, 8, 12, 16, 19, 28, 37, 46, 60) e la Fam. XIX, 5, distribuite tra il 1353 e il 1369; nel ms. Laurenziano si conservano, tra l'altro, anche gli autografi di missive inviate al M. da altri suoi corrispondenti (Benintendi Ravagnani, Cavalchini, Neri Morando e Anselmo Zucchelli). Dal 14 maggio 1351 del M. non si hanno più notizie: l’esperienza vicentina si concluse forse con uno strappo, come sembra testimoniare il breve e polemico carme X in esametri collaterali e acrostico, indirizzato a quanto pare al vescovo Egidio. In questo periodo tuttavia il M. continuò a comporre, come mostra una epistola a lui destinata, scritta dopo il 12 dic. 1387 da Giovannni Manzini, nella quale questi afferma che il M. aveva composto l’iscrizione sepolcrale per Spinetta Malaspina il Grande, morto il 3 marzo 1352.
Dal 1353 il M. sembra essere di nuovo a Verona. In seguito alla congiura di Fregnano della Scala, nel 1354 Azzo fuggì da Verona e anche il M. riparò forse a Parma, mentre è sicuro che nel 1355 egli si trovava a Venezia. Forse a questo periodo risalgono il carme acrostico XIV indirizzato a Giovanni da Correggio per incoraggiarlo con movenze catulliane a sopportare il lutto per una persona cara, forse il fratello Barriano, di cui non è tuttavia certa la data di morte, e la breve epistola V, anch’essa inviata a Giovanni, stavolta per esortarlo orazianamente a non curarsi di imprecisate dicerie del volgo. In quell’anno, con la Fam. XIX, 5, Petrarca invitò il M., oltre che a continuare l’attività pedagogica con il figlio Giovanni, ad aiutarlo a trascrivere sue opere non meglio specificate.
Quasi tutti i testi scritti dal M. fino a quest’epoca sono dunque di fatto epistole: tredici sono in versi (carmi II-XIV) e cinque in prosa (epistole I-V). Uniche eccezioni sono un breve carme di dodici esametri sulle operazioni dei mesi scritto nel primo periodo veronese (carme I) e il perduto epitafio per Spinetta Malaspina il Grande.
Tutto questo materiale, risalente al periodo veronese-vicentino, è tramandato, con diversa distribuzione, da due codici conservati presso la Biblioteca apost. Vaticana, il Vat. lat. 3134 scritto da Ramo Ramedelli tra il XIV e il XV secolo, e il Vat. lat. 1680, trascritto nel 1409 da Paolo de Camangerinis. Il Vat. lat. 3134 presenta una raccolta di testi interamente circoscrivibile all'interno dell’orizzonte privato del M., mentre il Vat. lat. 1680 raduna nell’insieme testi notevolmente impegnati a livello letterario, non tanto relativamente alla ricercatezza del dettato, sempre sostenuto anche nei testi propri del Vat. lat. 3134, quanto circa la varietà e l’articolazione dei contenuti e l’intreccio forte di tali contenuti con motivi e tendenze della cultura letteraria coeva. Se ne può dedurre che la raccolta del Vat. lat., 1680 è, se non definitiva, per certo posteriore all’altra.
Una lettera al cancelliere della Repubblica Benintendi Ravagnani, che insieme con le due inviategli da Ravagnani configura un brevissimo ma denso carteggio scambiato a Venezia alla fine del 1355, è il testo del M. che conobbe la più ampia tradizione manoscritta (quattro codici: Lipsia, Universitätsbibliothek, 1269; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, lat., 5350; Olomouc Státní Archiv, C.O. 418; Vienna, Bibliothek des Dominikanerkloster, 166/136), e anche a stampa (quattro edizioni: Librorum Francisci impressorum annotatio, per Simonem de Luere, Venetiis 1501; Librorum Francisci impressorum annotatio, per Simonem Papiensem dictum Bevilaquam, Venetiis 1503; Francisci Petrarche...Opera quae extant omnia..., per Henricum Petri, Basileae 1554; Francisci Petrarche...Opera quae extant omnia..., per Sebastianum Henricipetri, Basilae 1581). Tale fortuna è causata dal fatto che, insieme con le epistole di Benintendi, l'epistola del M. ebbe la ventura di essere annessa alla «tradizione veneziana» dell’epistolario di Petrarca. La suddetta epistola è inoltre l’unico testo del M. ad avere ricevuto l’onore di una traduzione in italiano, nel Cinquecento, dovuta ad Anton Francesco Doni che la pubblicò nelle Prose antiche di Dante, Petrarcha, et Boccaccio..., Fiorenza 1547.
Dal 1357 il M. era a Milano, nella dimora di Azzo da Correggio, a sua volta ben accolto da Bernabò Visconti, divenendo, fra l'altro, precettore dei due figli più giovani di Azzo, Ludovico e Gilberto.
Nella città lombarda il M. collaborò per vari anni con Petrarca a rivedere, trascrivere e diffondere molte opere del poeta, anche se non per tutte se ne ha notizia certa: i Rerum familiarum libri, la Vita solitaria, le Epystole, le Rime e il Bucolicum carmen. Secondo Giuseppe Billanovich il M. partecipò anche alle discussioni sul testo del Bucolicum carmen tenute da Petrarca e G. Boccaccio nella casa del poeta. Alla fine del 1362, in seguito alla morte di Azzo da Correggio, il M. ricevette da Petrarca, in compianto dell'amico comune, la Var. 4 e la Var. 19, l'epistola più lunga tra quelle indirizzategli dal poeta. Nella stessa occasione il M. compose due testi, un lungo carme funebre (il XVII) e l'epitafio per Azzo (carme XVI), che sono gli unici pervenuti tra quelli da lui inviati a Petrarca. Dopo la morte di Azzo, come risulta da tre documenti redatti dal M. nel 1364 (segnalati da Affò, ma di cui oggi non si ha traccia), il M. curò gli affari della vedova, Tommasina Gonzaga.
Dopo l'ultima epistola petrarchesca a lui inviata, la Var. 46 del 1369, non si sa praticamente più nulla del M. fino agli anni Ottanta. Dal 1380 risiedeva nel castello di Guardasone, dimora dei Correggio a sud di Parma, e stringeva proficui rapporti con le élites politiche e culturali delle città che appartenevano ai domini viscontei, in particolare con quella di Cremona.
La produzione di questo periodo si conserva in due codici miscellanei, entrambi provenienti – seppure in epoche diverse – dall’ambiente dei Visconti. Il primo, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (ms. C 141, secoli XV-XVI), è un formulario epistolografico in cui l'allestitore avverte ad apertura che chi desideri diventare in poco tempo «perfectissimus cancellarius» potrà trovare «ornatissimas familiares litteras in quottidiano usu maternoque sermone, missivas et responsivas, ad omnes materias accomodatas... videbit eloquentissimas epistulas in gravi, humili et mediocri figura a doctissimis viris compositas...Videbit etiam diversos versificandi modos et denique omnia in hoc libro reperiet quae consummatissimum cancellarium reddere possint». In tanta dovizia si conserva – ed è dunque un segno di prestigioso Fortleben a cent’anni circa dalla morte del M. – il carteggio del M. con personaggi dell’ambiente letterario cremonese, frequentato perlomeno a partire dal 1380, anno che data le lettere conservate: l’epistola VI al grammatico cremonese Folchino Borfoni, contenente il carme XV per le nozze dell'uomo politico Antonio Piezoli da Sassuolo con una figlia di Azzo da Correggio, indirizzato al grammatico parmense Giovanni Pisano; l’epistola VII ad Antonio Piezoli, elogiativa di Azzo e dei Correggio, che reca accluso il carme funebre per la morte di Azzo indirizzato a Petrarca, cui segue l’epitafio per lo stesso Azzo. Nel codice sono presenti inoltre tre lettere a Folchino di «Thomas de Zohannis», forse un abbreviatore di curia dell’epoca di Bonifacio IX, che si mostra assai interessato a ottenere le lettere di Folchino e del M. e, una volta lette, si produce anche in osservazioni di carattere metrico.
Per quanto concerne i rapporti del M. con Cremona, va qui osservato che proprio a Cremona, alla metà del XVI secolo, affiorano le prime testimonianze del ricordato ms. Laurenziano 53.35, secondo quanto testimonia il suo primo possessore, l'arcivescovo di Ragusa Ludovico Beccadelli. Cremonese è inoltre Pasquino de' Cappelli, cancelliere di Milano, al cui servizio lavorò come segretario il menzionato Giovanni Manzini: entrambi furono amici del M. e a loro si collega il secondo codice, il ms. Vat. lat. 11507, che fu trascritto sul finire del Trecento appunto da Manzini.
Il codice è di fatto un archivio personale di Manzini, che vi registrò – oltre a testi vari di ambito visconteo ed excerpta di classici e di moderni – anche la propria corrispondenza. Gli scritti del M. risalgono agli anni 1384 e 1387-88 e sono, nell’ordine: due epistole metriche in distici a Pasquino de' Cappelli (carmi XXI e XXII del 1387 e del 1388), e materiale relativo al 1384, anno in cui morì Regina (Beatrice) della Scala, moglie di Bernabò Visconti, e cioè le glosse del M. a due sue epistole a Corradolo da Ponte (familiare di Bernabò), al carme funebre e all'epitafio per Regina; le due epistole a Corradolo da Ponte, che sono un biglietto con cui il M. pregava Corradolo di far pervenire agli amici carme ed epitafio (epistola VIII), e una prohemialis epistula al carme funebre per Regina (epistola IX); infine il carme funebre (carme XIX) e l’epitafio per Regina (carme XX).
L'ordinamento di questi scritti si deve probabilmente a Manzini, come suggerisce non tanto il disordine cronologico, quanto l’anteposizione delle glosse ai testi, ma la raccolta deve risalire al M., che dunque mostra nel tempo una sicura propensione a raccogliere il suo materiale epistolare attorno a nuclei tematici. Di questi raggruppamenti testuali talvolta rimane nei codici traccia evidente, talvolta solo l'eco di una intenzione; mai, comunque la certezza di un assetto definitivo.
Circa gli scritti raccolti nel Vat. lat. 11507, risulta evidente la soddisfazione del M. per l'esito poetico raggiunto nel carme funebre e nell'epitafio per Regina, che egli corredò, come detto, di testi di accompagno e di glosse e che si impegnò a diffondere anche al di fuori della cerchia milanese, come attesta una epistola di Coluccio Salutati cui il M. aveva sottoposto il carme ricevendone altisonanti apprezzamenti e addirittura un paragone con l'Ecuba euripidea.
Il codice di Manzini testimonia inoltre l'attività di propaganda della cancelleria viscontea, cui rinviano gli ultimi scritti noti del M., che concorrono alla formazione di un breve carteggio poetico a più mani, risalente al 1387-88 e formato da due epistole metriche del M. a Pasquino de' Cappelli (carmi XXI e XXII), di una epistola metrica al M. di Giovanni Manzini, per conto di Cappelli, e di una epistola metrica indirizzata al M. da Antonio Loschi, al quale il M. inviava anche un carme elogiativo di cui sopravvivono solo quattro versi (carme XXIII). Lo scambio epistolare verte in massima parte sull'insistente invito, rivolto dalla cancelleria, perché il M., al quale ormai si riconoscevano unanimemente alte qualità poetiche, specialmente nell'ambiente visconteo e soprattutto grazie al carme funebre per Regina, intraprendesse la composizione di un carme celebrativo delle gesta di Gian Galeazzo Visconti e anche di Iacopo dal Verme. Di fatto i due carmi del M. (il XXI, a lungo erroneamente identificato con il carme celebrativo di Visconti, e il XXII) consistono in dichiarazioni di intenti e in una serie di appunti per un progetto poetico che non è noto se egli abbia portato a termine.
Nulla si sa nemmeno circa la morte del M., occorsa comunque successivamente al febbraio del 1388, data a cui risale il suo ultimo scritto noto (carme XXII).
Per il M. la carriera di letterato come «poeta civile» sembra concludersi insomma alla vigilia di quella rottura tra Milano e Firenze che vide antagonisti proprio i suoi ultimi due amici illustri, Antonio Loschi e Coluccio Salutati, due intellettuali che pur esasperatamente contrapposti a livello ideologico, congiuntamente affidarono al secolo successivo la tradizione letteraria trecentesca, nobilitata da Petrarca ma esperita con sensibilità diverse da quel largo ceto di maestri, giuristi e letterati al quale il M. era appartenuto con il privilegio, tuttavia, di intrecciare rapporti ed esperienze letterarie con le figure più eminenti del Trecento italiano. Proprio il rapporto personale costituisce la cifra della scrittura del M., che potrebbe definirsi, nel suo insieme, missiva: epistole, epitafi, carmi funebri, tutto è scritto in funzione di un destinatario, e tutto però è tenuto dal filo della distanza, se non dell'assenza, e un teatro epistolare si sostituisce alla vita e a ogni altra letteratura.
I 23 carmi e le 9 epistole del M. sono stati pubblicati in edizione critica in Moggio Moggi, Carmi ed epistole, a cura di P. Garbini, Padova 1996.
Fonti e Bibl.: Vicenza, Archivio storico della Curia vescovile, Codex Feudorum, F 7; dopo le esigue e frammentate notizie accumulatesi a partire dal sec. XV (Battista Pagliarini, Cronicae, a cura di J.S. Grubb, Padova 1990, pp. 235, 295), il primo lavoro di insieme sulla figura del M. risale a I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, II, Parma 1789, pp. 77-89. Un'attenta revisione dei dati biografici corredata dell'edizione di dodici carmi si deve a M. Vattasso, Del Petrarca e di alcuni suoi amici, Roma 1904, pp. 65-105. Bibliografia posteriore – della quale si menzionano qui solo i basilari studi di Giuseppe Billanovich, Petrarca letterato. Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947 (rist. anast. Roma 1997, con indici dei nomi e dei manoscritti a cura di P. Garbini), ad ind.; R. Avesani, Il preumanesimo veronese, Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 124-131; M. Feo, Primo dossier sul Petrarca di Gotha, in Quaderni petrarcheschi, IV (1987), pp. 11-117; Guido Billanovich, Lovato Lovati: l'epistola a Bellino, gli echi da Catullo, in Italia medioevale e umanistica, XXXII (1989), pp. 145-148; ulteriori indagini, puntualizzazioni e descrizioni di fonti in M. Moggi, Carmi ed epistole, cit., cui si aggiunga M. Uguccioni, Un'epistola in versi inedita dell'umanista Antonio Loschi?, in Studi urbinati di storia, filosofia, letteratura, LXVI (1993-94), pp. 267-276; S. Mariotti, Un caso di «nominis commutatio» riflessiva nel XIV secolo, in Classicità, Medioevo e umanesimo. Studi in onore di Salvatore Monti, Napoli 1996, pp. 347-349 (ora in Scritti di filologia classica, Roma 2000, pp. 167 s.); Id., Note testuali a due carmi di M. M., in Studi latini in ricordo di Rita Cappelletto, Urbino 1996, pp. 175-177 (ora in Scritti medievali e umanistici, a cura di S. Rizzo, Roma 2010, pp. 377-380); L.C. Rossi, Un ignoto episodio della fortuna dantesca in margine ai classici, in Rivista di studi danteschi, II (2002), pp. 146-154; P. Garbini, Dai destinatari ai posteri. Le lettere di M. M., in L'antiche e le moderne carte. Studi in memoria di Giuseppe Billanovich, a cura di A. Manfredi - C.M. Monti, Roma-Padova 2006, pp. 247-262; Id., «Et, bene si memini»: un episodio della (s)fortuna di Dante come classico, in Dante, Cicerone e i classici latini, a cura di E. D'Angelo - G. Polara, Napoli 2010, pp. 35-46.