Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’influenza occidentale su Gandhi è parte del più generale influsso che la dominazione inglese esercita nel sollecitare, sia pure in maniera indiretta e conflittuale, il nazionalismo indiano. Prima a Londra (1888-1891) poi in Sudafrica (1893-1914), Gandhi viene a contatto con movimenti culturali (teosofismo) e autori (Tolstoj, Ruskin) critici verso il modo di vita occidentale, che influenzano la sua formazione e vengono sussunti nella sua visione del mondo. Assai popolare anche in Europa, Gandhi ha ispirato vari movimenti politici e culturali. Ancora oggi il suo pensiero e la sua azione sono un invito alla comprensione e alla collaborazione fra culture diverse.
Per intendere le dimensioni e l’estensione dell’influsso occidentale nella visione del mondo di Gandhi occorre in premessa sottolineare la più generale influenza che la presenza inglese nel subcontinente asiatico ha esercitato sulla società indiana.
Il subcontinente indiano, o Asia meridionale, costituisce un’entità geografica e culturale assai definita e da sempre riconosciuta come tale. La conformazione fisica la distingue dal resto del continente come una estesa penisola circondata dal mare e delimitata al nord da una serie di catene montuose. Le condizioni climatiche, con i venti monsonici e il connesso ciclo delle piogge, ne caratterizzano unitariamente l’agricoltura e indirizzano i commerci marittimi. Dal punto di vista culturale, poi, nonostante la grande diversità di lingue e di dialetti parlati nelle varie regioni e la presenza di etnie assai differenziate, gli studiosi concordano nel ritenere che il subcontinente già nell’era antica avesse una precisa e riconoscibile identità. Tuttavia, fino a quando si stabilisce la presenza inglese, l’India non ha mai conosciuto una duratura unità politico-amministrativa, neanche durante il periodo dell’impero Moghul (tra la metà del XVI e l’inizio del XVIII secolo). Solo con la dominazione britannica, a partire dalle riforme introdotte dal governatore della Compagnia delle Indie, Lord Cornwallis, viene creata una struttura amministrativa uniforme. Tale processo si accentua dopo la liquidazione della Compagnia e l’assunzione diretta del governo dell’India da parte della corona britannica nel 1858. In particolare, con il passare del tempo la macchina amministrativa viene sostenuta da una rete di trasporti e di comunicazioni (ferrovie, telegrafi, poste) che consente maggiori possibilità di circolazione per le persone e le informazioni all’interno del territorio indiano. Infine, l’uso dell’inglese come lingua ufficiale dell’amministrazione imperiale ha una imprevista ricaduta politica. Essa offre ai militanti nazionalisti una sorta di lingua franca per le élite politicizzate nelle diverse parti del subcontinente.
Su di un piano più direttamente politico e culturale, poi, la nascita e la diffusione del nazionalismo indiano è legata alla dominazione inglese in un duplice modo. Anzitutto perché per il tramite della cultura europea si diffonde in India l’idea dell’autodeterminazione dei popoli “come diritto di nascita”, secondo la formula di Bal Gangadhar Tilak, leader nazionalista assai popolare. Si tratta, infatti, di concetti che sono consueti alla pubblicistica politica e impregnano la comune formazione intellettuale europea. Tali nozioni vengono naturalmente mutuate dagli indiani educati all’occidentale, che colgono una contraddizione tra le teorie apprese nei trattati di diritto costituzionale, o nelle polemiche giornalistiche, e la realtà del loro Paese sottomesso. D’altronde la cronaca corrente offre, nel corso del XIX secolo, esempi di lotte di indipendenza nazionale condotte con successo, come quella greca o quella italiana. Non casualmente il Risorgimento italiano ha notevole risonanza in India, non solo presso i ceti europeizzati o i dirigenti del movimento nazionale, ma anche in settori più ampi della popolazione, come mostra la diffusione di biografie di Garibaldi e di Mazzini in varie lingue locali.
In secondo luogo va tenuto conto del fatto che il movimento nazionalista indiano, anche quando si orienta in senso indipendentista, non si limita a contrapporsi alla dominazione straniera, ma si serve dei canali di discussione e di partecipazione introdotti man mano dagli Inglesi, prima a livello municipale, poi in ambito provinciale, per allargare e radicare la propria presenza. In sintesi, la crescita del nazionalismo indiano avviene non in contrapposizione totale con la dominazione britannica, ma attraverso un processo di costante osmosi nel quale il conflitto, anche assai aspro, si mescola con il compromesso e la ricerca di spazi di partecipazione. Di tale complesso rapporto è rivelatore il fatto che il congresso nazionale indiano, che sarebbe diventato la più importante organizzazione politica del subcontinente e il maggior promotore dell’indipendenza, viene creato nel 1885 per iniziativa di Allan Octavian Hume, un funzionario inglese a riposo. Ma anche successivamente, quando il partito diventa un’organizzazione di massa capace di campagne di disobbedienza su grande scala, la partecipazione alle istituzioni locali create dagli Inglesi è un’opzione sempre presente, anche se non sempre praticata, nell’agenda dei dirigenti del congresso.
Di una simile temperie, culturale e politica, partecipa anche Gandhi, che anzi riassume nella sua vicenda personale alcuni dei tratti caratteristici di questa osmosi conflittuale con la civiltà europea. Nato nel 1869, in una famiglia di casta mercantile, ma da alcune generazioni dedita a servire la dinastia regnante, a Porbandar, nel Kathiawar, un piccolo principato dell’India nord-occidentale, dove la dominazione inglese era solo indiretta, il problema della superiorità europea e della correlativa inferiorità indiana gli si presenta assai presto. Come racconta nell’autobiografia, mentre frequenta le scuole superiori, su suggerimento di un compagno, prova a mangiare carne con la speranza di poter diventare forte e spavaldo come gli Inglesi, guidato dalla convinzione che se tutti gli Indiani diventeranno carnivori sarà possibile liberarsi del dominio straniero. È un modo ingenuo di affrontare il problema, ma che rivela una prima riflessione sulla condizione del suo Paese, dove era diffusa la convinzione che la superiorità britannica fosse frutto di costumi particolari.
Se questo episodio, per quanto significativo, può essere fatto rientrare nell’ambito di un generale disagio personale, e di una rivolta adolescenziale contro il proprio ambiente, la definizione del suo rapporto con la cultura e il mondo occidentale comincia a fissarsi nel successivo soggiorno londinese tra l’ottobre 1888 e il giugno 1891. Recatosi in Inghilterra per conseguire l’abilitazione alla professione legale, Gandhi cerca in un primissimo tempo di uniformarsi ai costumi europei, prende lezioni di ballo, di musica, di francese. Ma questi tentativi, ben presto abbandonati, sono solo svaghi momentanei, e restano senza traccia. Più significativa è l’esperienza di studio. Per quanto i corsi impartiti alle Inns of Court non siano particolarmente gravosi, Gandhi non solo studia coscienziosamente il diritto britannico nelle sue varie parti (common law, equity), ma acquisisce una buona cognizione anche del diritto romano. Un patrimonio di conoscenze che rimane parte integrante del suo bagaglio intellettuale. L’influenza occidentale più significativa, però, si definisce in altra maniera, sollecitando per via indiretta una più piena identificazione con le tradizioni e i costumi del suo Paese.
Vegetariano per tradizione religiosa e per abitudine, più che per intima convinzione, nelle prime settimane del soggiorno inglese Gandhi ha difficoltà ad alimentarsi e deve far ricorso a una dieta spartana e improvvisata (pane, burro, tè). Dopo qualche tempo, però, scopre un circolo vegetariano, grazie al quale non solo risolve i suoi problemi alimentari e religiosi, ma si appassiona alle tematiche nutrizioniste. Da quel momento, il vegetarianesimo come forma di igiene naturista assume per lui un’importanza decisiva, perché offre una conferma sperimentale alla consuetudine di origine religiosa. Proprio sul bollettino della società vegetariana Gandhi pubblicherà i suoi primi articoli. Un processo analogo si riscontra per la religione. A Londra il futuro leader indiano viene a contatto con esponenti teosofisti (anzi per alcuni mesi è anche membro della Società teosofica londinese), ed è indotto a studiare l’induismo e i testi fondamentali del cristianesimo. Nell’atmosfera inglese, insomma, la particolare forma di induismo praticata in famiglia (il jainismo visnuita) aperto e tollerante, vissuto fino ad allora in maniera quasi passiva, non solo conosce un primo risveglio, ma diventa ancora più disponibile al dialogo interreligioso. Tratto significativo di questo processo è il fatto che la lettura delle Gita e di altri testi vedici avviene per il tramite di traduzioni inglesi. In sintesi, il contatto con ambienti non conformisti della cultura britannica consente a Gandhi una prima riappropriazione del proprio bagaglio culturale indiano attraverso la mediazione europea.
Rientrato in India, Gandhi non riesce a inserirsi brillantemente, come i suoi familiari hanno sperato, nella professione legale né a Rajkot né a Bombay. Così, nel 1893, accetta di trasferirsi in Sudafrica, per seguire un contenzioso legale per conto di una società commerciale indiana. Il soggiorno sudafricano si prolungherà, tranne per alcune brevi interruzioni, per oltre un ventennio, e in questa fase Gandhi metterà a punto in modo definitivo la sua visione del mondo e la propria personalità pubblica, anche se manterrà un atteggiamento lealista verso il governo imperiale.
A contatto con la discriminazione razziale cui erano soggetti gli indiani, Gandhi rivela rapidamente insospettabili qualità di leader. Ben presto affianca all’attività legale l’impegno per la difesa dei diritti degli Indiani residenti in Sudafrica, che lo assorbe sempre più. In questa fase i contatti con la cultura europea non sono meno intensi di quelli che ha conosciuto a Londra.
Sollecitato da missionari cristiani, che speravano di convertirlo, approfondisce lo studio delle principali religioni. In tal modo Gandhi matura quel sincero apprezzamento per il cristianesimo che resterà una delle componenti della sua visione religiosa, saldamente ancorata nella tradizione induista, ma aperta e incline a un sincretismo pratico. A fare da tramite con la cultura occidentale contribuiscono in modo decisivo alcuni amici europei vegetariani, teosofisti, o comunque su posizioni non conformiste, che spesso collaborano con le sue iniziative a favore della comunità indiana. Fra questi vanno ricordati gli inglesi Albert West, Henry Polak, ed Hermann Kallenbach, un ebreo tedesco.
Nel 1894, su sollecitazione di Kallenbach, Gandhi legge gli scritti sociali e religiosi di Lev Tolstoj. Questa lettura marca una tappa decisiva nel suo percorso di maturazione interiore. Il principio della non resistenza al male, il precetto di rendere bene per male sono idee illuminanti per Gandhi che le raccoglie e le fa proprie con entusiasmo. Da Tolstoj deriva anche un rifiuto per la civiltà moderna, caratterizzata dall’urbanesimo soffocante e dalla prevalenza della tecnica e del macchinismo, come l’invito a una religione purificata, non incrostata da superstizioni.
Data la particolare propensione per l’azione, l’interesse per le tematiche religiose e lo studio di particolari autori non rimane confinato all’approfondimento intellettuale, ma ha una ricaduta pratica. In altri termini, la difesa degli indiani abitanti nelle colonie europee dell’Africa meridionale va di pari passo con la scoperta della sua vocazione di asceta e di riformatore religioso oltre che politico. Basti por mente al fatto che la prima idea di una comunità agricola gli viene in seguito alla visita a un monastero vegetariano trappista posto nelle vicinanze di Durban, fatta nella primavera del 1895.
Più in generale, dai contatti e dalle sollecitazioni degli amici europei Gandhi matura una critica al modo di vita dominante nei Paesi civilizzati, ed è indotto alla ricerca di alternative da sperimentare in prima persona, con scelte che si fanno a mano a mano più radicali. Nel 1904, dopo la lettura del libro di John Ruskin, Unto this Last (A quest’ultimo, 1862), consigliatoli da Polak, Gandhi decide di abbandonare la vita cittadina e di fondare una colonia agricola. Il libro di Ruskin, di cui Gandhi cura una traduzione in gujarati, sua lingua madre, è una critica all’economia politica classica in cui alle nozioni di utilità, ricchezza, scambio si contrappone il principio della solidarietà umana, l’invito all’eliminazione del superfluo, e la sollecitazione all’armonia fra le diverse parti della società. Gandhi non recepisce il sostrato romantico ed estetizzante della posizione di Ruskin, ma lo legge come un breviario di azione, assortendolo a Tolstoj e facendone la guida per un esperimento di vita comunitaria.
Questa svolta nella vita privata trova riscontro anche nelle campagne politiche. Se fino a ora le iniziative per la difesa della comunità indiana nelle colonie sudafricane è stata condotta con mezzi legali, a questi si affianca la scelta della disobbedienza civile. In questo caso la pratica precede la teoria, perché è solo nel 1908, mentre è recluso nel carcere di Volksrust in Transvaal, che Gandhi legge il saggio di David Henry Thoreau, Civil Disobedience (La disobbedienza civile, 1849). A quest’epoca (1909-1910) risale anche un importante scambio epistolare con Tolstoj, alle cui teorie si ispira la comune agricola.
Nel 1909, per rispondere agli argomenti degli indiani estremisti che praticano il terrorismo, scrive Hind Swaraj (Autogoverno dell’India), che costituisce anche una sintesi del suo pensiero sul mondo moderno. L’opera è composta in forma di dialogo, ispirato a Platone, di cui Gandhi ha letto e parafrasato l’Apologia di Socrate. Il libretto è una critica della civiltà occidentale, basata sulle macchine e sulla scienza, perché materialista, tendenzialmente irreligiosa e quindi necessariamente imperialista, cui andava contrapposta la civiltà indiana, attenta invece agli aspetti spirituali. Le idee sono in buona parte quelle derivate da Ruskin, Carlyle, Tolstoj e dalle posizioni teosofiche, ma messe al servizio di una piena valorizzazione della tradizione indiana. Tuttavia, per quanto recisa sia la condanna dello stile di vita occidentale, lo scopo del lavoro è quello di sollecitare l’edificazione di una più armonica civiltà, capace di contemperare modernità e tradizione, spiritualità e progresso. L’atteggiamento tenuto sul piano più direttamente politico costituisce l’esatto pendant di questa posizione culturale. Gandhi, infatti, non si limita a ricorrere alla disobbedienza civile, o resistenza passiva, come metodo di lotta, ma si sforza di caratterizzare in modo singolare le azioni da lui promosse, e di ripensare le tecniche di pressione politica all’interno del quadro categoriale della propria cultura. Così le campagne di agitazione vengono denominate satyagraha (“forza della verità”), e l’ahimsa (“non violenza”) è sì il principio ispiratore delle azioni politiche, ma si pone anzitutto come un ideale supremo al quale tendere. In questa visione anche la divinità finisce per identificarsi con la legge morale, o verità, che va perseguita attraverso un’incessante ricerca interiore.
Rientrato definitivamente in India nel 1914, Gandhi diventa tra il 1919 e il 1920 (quando ha oramai superato ogni residuo di lealismo) il leader del Partito del Congresso e il principale esponente del movimento di Liberazione Nazionale indiano. Al momento del ritorno in patria la sua visione del mondo è fissata e non subirà più mutamenti notevoli. Tuttavia essa non si trasforma mai in una dottrina dogmatica, convivendo, invece, con uno stile di leadership sensibile al compromesso e all’adattamento pratico, e che non promuove mai l’odio dell’avversario. La condanna del mondo moderno è spesso ribadita, ma viene in qualche modo sfumata perché proposta in termini operativi e sperimentali e non imposta coattivamente.
Riassuntivamente l’azione di Gandhi, in questa lunga stagione della maturità, che va appunto dal 1914 alla tragica morte, per mano di un estremista indù, nel gennaio 1948, pochi mesi dopo la concessione dell’indipendenza, si svolge su di un duplice piano. Un ambito di riforma sociale e religiosa e uno più propriamente politico. Il primo vede la promozione di iniziative di autoeducazione pubblica: filatura a mano, diffusione di principi d’igiene nei villaggi, lotta contro l’intoccabilità. Il secondo si sostanzia nella organizzazione di campagne di disobbedienza civile di massa volte a scalzare il dominio inglese in India. Tuttavia questo duplice livello di azione è animato da una spinta unitaria profonda. Al di là della cronaca spicciola di quegli anni, delle diverse posizioni assunte volta a volta, delle campagne non violente promosse in varie fasi, o della capacità di mediare tra le molte anime del movimento indipendentista, l’azione di Gandhi possiede, infatti, una definita finalità nazionalista. Essa consiste soprattutto nello sforzo di rendere gli Indiani coscienti delle loro capacità e orgogliosi della propria cultura, per superare ogni complesso d’inferiorità rispetto ai dominatori stranieri. Secondo la formula di Tagore il maggior merito di Gandhi sarebbe stato quello di “aver instillato, con la sua opera miracolosa, la libertà dalla paura e dalla debolezza negli animi dei suoi connazionali”. Da qui la costante insistenza sulla necessità di un miglioramento della società indiana come premessa necessaria per conquistare l’indipendenza.
In questo sforzo di agitazione politica, di riforma religiosa e di sollecitazione morale e civile l’apporto della cultura occidentale è ridotto. Certo, gli elementi mutuati nella fase di formazione restano, ma incorporati nella sua visione. Pure, durante i lunghi soggiorni in prigione, che spesso intervallano le campagne non violente, le intense letture, a parte quelle religiose, sono soprattutto di ambito anglosassone ed europeo. In questi periodi Gandhi legge, fra l’altro, storici come Gibbon, Lecky, Salvemini, e scrittori come Shaw, Kipling, Wells, Goethe e mantiene sempre un rapporto privilegiato con la cultura occidentale. Tant’è vero che nella sua foltissima produzione pubblicistica non è difficile ritrovare una larga messe di esempi, topoi e riferimenti alla storia europea antica e moderna.
Già in vita Gandhi è assai popolare in Europa, dove le sue campagne hanno da subito vasta risonanza nell’opinione pubblica. Una prima consacrazione, per così dire, la si ha con il libro che lo scrittore francese Romain Rolland gli dedica nel 1923. A questo volume molti altri faranno seguito, anche e soprattutto nel mondo anglosassone. Più in generale Gandhi è noto anche al pubblico comune. La marcia del sale (1930), il lungo prologo a una delle campagne di disobbedienza civile più fortunate, ad esempio, è seguita con interesse e il Mahatma diventa una figura popolare dei cinegiornali del tempo. Memorabile, più che per i risultati pratici conseguiti, per consolidare la sua popolarità, è anche il soggiorno a Londra, tra il 1931 e il 1932, in occasione della seconda conferenza della tavola rotonda, convocata dal governo britannico per valutare eventuali riforme costituzionali per l’India.
A questa generale popolarità ha fatto riscontro anche una non facilmente precisabile influenza etico-politica. Vari gruppi e personalità si sono ispirati al suo esempio. Fra gli altri si possono ricordare Lanza del Vasto in Francia, Aldo Capitini prima, e il Partito Radicale di Marco Pannella poi, in Italia. In tempi più recenti Gandhi ha esercitato una suggestione anche sul movimento ecologista europeo, in particolare su alcuni settori dei verdi tedeschi, e questo non solo e non tanto nei suoi profili strettamente politici, ma anche per la diffusione di medicine alternative, di pratiche naturiste e vegetariane, come parte di quel più generale risveglio d’interesse per la spiritualità orientale che ha conosciuto una nuova voga a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.
Ancora ai nostri giorni, per quanto sia universalmente conosciuta l’immagine del piccolo uomo in perizoma, Gandhi non è diventato un’icona postmoderna, buona a tutti gli usi. La non violenza come ideale di vita che richiede sprezzo del pericolo e totale sacrificio di sé, lontanissimo dal pacifismo imbelle e ignaro; la sua critica al mondo moderno, cui corrisponde la pratica coerente di uno stile di vita ascetico, ne fanno un ospite scomodo per i conformismi di ogni colore. Semmai, la tolleranza profonda che lo anima, la propensione, anche dopo un conflitto molto duro, a ricercare compromessi accettabili, il rifiuto della coercizione sono motivi che rendono universale il suo insegnamento e offrono ragioni di consonanza anche a chi non apprezza il radicalismo di certe posizioni, o l’eccessiva mescolanza fra religione e politica che ne caratterizza l’azione. Più in generale, la sua figura e la sua opera sono avvertite come un esempio eloquente di come esista una possibilità di comunicazione e di dialogo fra culture diverse. La sintesi di questo atteggiamento si può ritrovare ancora in un discorso dell’aprile 1947, con il quale l’anziano leader invita l’Oriente a conquistare l’Occidente attraverso la verità e l’amore.