Makhmalbaf, Mohsen
Regista, sceneggiatore e montatore cinematografico iraniano, nato a Teheran il 29 maggio 1957. Il suo cinema, scaturito dal contatto diretto con le prime esperienze artistiche sviluppatesi dopo la rivoluzione islamica del 1979, nasce dallo sforzo di coniugare temi religiosi e sociali in forma di apologhi e giunge a una rappresentazione esteticamente alta e figurativamente simbolica della realtà. M. ha saputo elaborare un progetto artistico e produttivo libero e personale, per quanto saldamente inserito nella temperie culturale del suo Paese, teso a unire le potenzialità educative di un cinema volto a emancipare l'individuo e la forza incantatrice delle immagini, che spesso carica di una nitida valenza allegorica. Cresciuto in un quartiere povero di Teheran, svolse fin da bambino umili lavori; iniziò a interessarsi all'arte nel corso dei quattro anni scontati nelle prigioni dello shāh Reẓā Pahlavī per aver aggredito un poliziotto durante un'azione di guerriglia urbana compiuta dal gruppo di milizie islamiche di cui M. faceva parte. Uscito dal carcere poco dopo la rivoluzione del 1979, abbandonò la politica per impegnarsi nel campo artistico, convinto della necessità di contribuire alla rifondazione culturale della società iraniana. Realizzò in pieno clima postrivoluzionario il suo film d'esordio, Tobe-ye Nasuh (1982, Il pentimento di Nasuh), un apologo morale dedicato a un insensibile impiegato di banca che cerca di redimersi: prodotto, come i successivi, dall'organizzazione per la propaganda islamica, il film pone a confronto una visione religiosa della vita con una concezione della realtà di stampo materialista, sviluppando un tema che ritorna anche negli altri film realizzati da M. in questa prima fase: Du chashm-e bi su (1983, Due occhi senza luce), Este'aze (1984, Rifugiarsi in Dio) e Baykot (1985, Il boicottaggio). Ma è stato con l'opera successiva che il cinema e la carriera del regista hanno subito una svolta decisiva: strutturato in tre episodi che colgono altrettanti spaccati di vita derelitta nella Teheran contemporanea, Dastforush (1986; L'ambulante) rivela infatti un linguaggio complesso, pieno e universale, che coniuga efficacemente elementi di realismo, espressionismo e simbolismo con tematiche proprie della cultura islamica. La definitiva consacrazione di M. è giunta quindi con Baysikelran (1987; Il ciclista), film sviluppato con stile surreale e simbolico e incentrato sulla storia di un uomo che, per pagare l'operazione della moglie malata, accetta di pedalare per una settimana in una piazza a favore degli scommettitori. Divenuto una vera e propria star in patria e apprezzato dalla critica mondiale, M. ha continuato il suo cammino con coerenza, realizzando tre rigorosi drammi a sfondo sociale: ῾Arusi-ye khubān (1988, Il matrimonio dei buoni), Nobat-e ῾asheqi (1990, Tempo d'amare) e Shabhā-ye Zayande Rud (1990, Notti sullo Zayande Rud). Una nuova svolta alla sua opera è stata impressa dal successivo Ruzi ruzegāri cinema (1991, C'era una volta il cinema), in cui la storia fantastica di un monarca che rinuncia al proprio regno per amore della diva di un film è l'occasione per offrire una partecipe sintesi storica del cinema iraniano, ma soprattutto l'opportunità per elaborare una riflessione sul valore catartico del grande schermo e sulla sua capacità di offrire al popolo un'identità culturale. Si tratta, del resto, di un tema che si proietta sia sul successivo Honar Pishe (1992, L'attore), in cui il divo Akbar ῾Abdi interpreta sé stesso in bilico tra crisi professionale e familiare, sia sul più riuscito Salām sinema (1994, Salve cinema), con il quale il regista ha potuto concretizzare l'idea di celebrare il centenario dell'invenzione del cinema attraverso i volti delle migliaia di semplici persone accorse a Teheran per sostenere un provino per un suo film.
Ormai padrone di un linguaggio in grado di mettere in correlazione la realtà storica, culturale e sociale del suo Paese, M. nella seconda metà degli anni Novanta ha realizzato una serie di opere di grande compiutezza. A questo periodo appartiene un capolavoro come Gabbe (1995), sospeso tra racconto popolare e ricerca documentaria, in cui la narrazione segue il disegno di un tradizionale tappeto tessuto dalle tribù nomadi del Sud-Est iraniano; un riuscito ritorno ai moduli 'realistici' precedenti è stato Nun va goldun (1995; Pane e fiore), in cui il regista ricostruisce con il poliziotto con cui si era scontrato in gioventù l'episodio che gli era costato qualche anno di carcere. Una dimensione anche troppo metaforica caratterizza invece Sokout (1998; Il silenzio), apologo sulla necessità di seguire liberamente la propria ispirazione interiore, basato sul racconto di un bambino cieco attratto dalla musica di un suonatore di strada. Alla tragedia del popolo afghano oppresso dal regime talebano è infine dedicato Safar-e Qandahār (2001; Viaggio a Kandahar), atto d'accusa ampiamente lirico e decisamente simbolico, realizzato dal regista con la sua ormai consolidata società di produzione, la Makhmalbaf Film House, che sostiene e sviluppa progetti dello stesso regista e dei suoi collaboratori ‒ tra i quali anche la figlia Samira ‒ e si dedica alla formazione di nuove leve di registi iraniani.
Intervista con Mohsen Makhmalbaf, in L'Iran e i suoi schermi, a cura di F. Bono, Venezia 1990, pp. 167-82; T. Masoni, Makhmalbaf e l'elefante, in "Cineforum", 1996, 360, pp. 44-49; Mohsen Makhmalbaf, a cura di A. Barbera, U. Mosca, Torino 1996.