Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Figura eccezionale, e non solo nel suo essere contemporaneamente attore ed autore teatrale, Molière, personalità esemplare del classicismo, rappresenta l’essenza dell’Uomo sulla quale, suscitando la sua risata, lo guida a riflettere.
Jean-Baptiste Poquelin adotta lo pseudonimo Molière verso il 1644, un anno dopo la costituzione dell’“Illustre-Théâtre”, compagnia in cui — dopo aver contribuito alla sua fondazione — inizia a recitare. La scelta di essere attore distingue Molière dagli altri grandi del classicismo francese come Pierre Corneille (1606-1684) o Jean Racine (1639-1699), autori drammatici, che mai hanno conosciuto, a livello personale, il teatro nel suo concretizzarsi sulla scena. Questa stessa scelta suggerisce una profonda passione da parte del giovane Jean-Baptiste, dato che di certo il suo ambiente familiare non lo avvicina spontaneamente alla professione dell’attore.
Nato, nel 1622, in una famiglia della borghesia parigina, gli studi presso i gesuiti, prima, e quelli di Diritto, poi, non preannunciano la volontà di dedicarsi alla recitazione.
Due compagnie fisse — quella dell’Hôtel de Bourgogne, che appartiene al re, e quella del Théâtre du Marais — dominano l’attività tetarale di Parigi; l’Illustre-Théâtre, nelle stagioni 1643-44 e 1644-45, non riesce a imporsi come terza compagnia della capitale. Molière e i suoi compagni si coprono di debiti e decidono di lasciare Parigi per iniziare un lungo giro nelle città della provincia francese. Molière viene, così, a contatto con un’umanità estremamente varia, negli usi, nei costumi e nel linguaggio, acquisendo un’esperienza ineguagliabile sulle numerose declinazioni dell’essere umano e di cui si ricorderà sia nella sua recitazione che nella sua attività di scrittore per il teatro. Nel 1658, forte ormai di un mestiere teatrale che si è andato consolidando toccando città come Nantes, Poitiers, Tolosa, Narbonne, Grenoble, Lione, Digione, Montpellier o Bordeaux, per non citare che alcune tappe del percorso della compagnia, l’Illustre-Théâtre ritenta la sua fortuna a Parigi e presso la Corte.
Inizia, a questo punto, l’attività di Molière come autore, che ci lascia oltre una trentina di pièces. La compagnia ottiene il patronato di Monsieur, fratello del re, e recita, il 24 ottobre 1658, Nicomède di Corneille, nel palazzo reale del Louvre, davanti a Luigi XIV (1638-1715). Il giovane sovrano apprezza la recitazione dell’Illustre-Théâtre, ma soprattutto il piccolo divertissement — un atto comico in prosa — scritto da Molière (e da lui messo in scena), Il medico innamorato (Le Docteur amoureux). Il re concede alla compagnia di stabilirsi nel teatro del Petit-Bourbon, condividendo la sala con coloro che già la occupano, gli Italiani. Molière trarrà vantaggio anche da questa situazione, assorbendo, riformulando e rielaborando tutto il sapere — relativo, fra l’altro, alla recitazione su canovaccio, alla mimica, all’improvvisazione e alla comicità — che è patrimonio della Commedia dell’arte.
Il teatro di Molière si muove tutto fra le molteplici corde del comico. Grande attore, mimo eccellente, Molière dà prova di una cultura comica amplissima, capace di accogliere e di rivitalizzare in modo personale diverse declinazioni della comicità teatrale e non solo tale: farsa, commedia italiana, commedia spagnola, fabliaux alimentano il suo genio e la varietà, contenutistica ma anche formale, dei suoi testi.
Secondo la tradizione dell’epoca — che prevede, dopo la messa in scena di una grande tragedia, la presentazione di un testo comico —, il 18 novembre 1659, Molière, in coda a Cinna di Corneille, presenta Le preziose ridicole (Les Précieuses ridicules). Commedia in un atto e in prosa che mette alla berlina i falsi preziosi nelle figure di due giovani provinciali venute a Parigi e che pensano che sia sufficiente scimmiottare, malamente, il linguaggio tipico del Preziosismo per essere culturalmente alla moda. Nel testo, che ebbe un enorme successo di pubblico, il comico scaturisce soprattutto dagli eccessi a cui cedono le due provinciali, nel tentativo di riprodurre la raffinatezza dei preziosi. Sovente, il riso, nei testi di Molière, prende la strada dell’eccesso, rivelando come l’autore sia, quindi, un sostenitore dell’equilibrio, della giusta misura e, come tale, espressione del classicismo francese, al pari di Racine, di Boileau (1636-1711) o di La Fontaine (1621-1695). Con il successo, però, si risveglia anche l’odio degli avversari e la reazione di alcuni preziosi che si sentono comunque ridicolizzati dal testo di Molière.
Dopo Don Garcia di Navarra (Dom Garcie de Navarre) (febbraio 1661) e La scuola dei mariti (L’école des maris) (giugno 1661), Molière ottiene un altro grande successo con La scuola delle mogli (L’école des femmes), realizzata nel dicembre 1662.Grande comédie, cioè commedia in cinque atti e in versi, il testo, ancorato alla realtà ed all’epoca contemporanee di Molière, veicola, attraverso il mezzo della comicità, un significato alto. Focalizza, infatti, un problema morale (la libertà individuale e il plagio intellettuale), attraverso il personaggio del vecchio Arnolphe — soggetto di situazioni comiche — che, per timore di essere tradito, decide di sposare la sua giovane pupilla, Agnès, cresciuta nell’ignoranza e nella reclusione, lontana da ogni realtà e pronta per essere allevata secondo i suoi desideri egoisti e repressivi. Anche in questo caso, il successo è speculare alle polemiche che la pièce scatena, in parte per il suo contenuto, in parte per la sua struttura. Molière risponderà alle critiche con un’altra pièce, un solo atto in prosa, dal titolo La Querelle de L’école des femmes (1663).
Il 12 maggio 1664, nel quadro dei “Piaceri dell’isola incantata”, feste con cui Luigi XIV omaggia, a Versailles, la sua favorita, Louise de La Vallière (1644-1710), Molière mette in scena per la corte Tartufo (Tartuffe). La potentissima cabala dei Devoti, sostenuta anche dalla madre del re, Anna d’Austria (1601-1666), reagisce violentemente davanti alla figura del falso devoto che, in questa prima versione, porta anche l’abito ecclesiastico (tratto che, in seguito, Molière eliminerà). Tartufo viene così vietato. Nemmeno la sua versione rivista ed addolcita, intitolata significativamente L’Impostore (L’Imposteur), dopo la sua messa in scena del 5 agosto 1667, conosce un destino migliore. È chiaro come Molière, nelle diverse versioni, intenda sempre stigmatizzare la figura del devoto ipocrita, rendendolo un tipo sociale. Ancora una volta, la commedia ha un alto significato morale e, nel contempo, offre un quadro di costume sulla società contemporanea. Si palesa una specie di costante del teatro di Molière che su tanti tratti mostra indulgenza nei confronti dell’Uomo, ma mai nei confronti dell’ipocrisia e delle sue manifestazioni. Bisognerà, però, attendere il 1669 perché Tartufo, ulteriormente ritoccato, possa essere liberamente messo in scena.
Nel 1665, Molière ottiene un notevole successo con Don Giovanni o il convitato di pietra (Dom Juan ou le Festin de pierre), commedia in cinque atti in prosa, ambientata in Sicilia. Il testo ricorre a una figura e a un argomento molto popolari, noti al pubblico parigino anche grazie alla compagnia degli Italiani. Fra le molteplici fonti di Don Giovanni, egoista, corrotto, egocentrico e, ancora una volta, anche ipocrita (nel proclamare una fede che non ha), c’è El burlador de Sevilla (1630) dello spagnolo Tirso de Molina (1584-1648). Rispetto alle fonti, Molière riduce al minimo l’elemento tragicomico; mantiene, però, quello meraviglioso (che sollecita particolarmente l’interesse del pubblico) e accentua i tratti farseschi. Questi sono veicolati soprattutto dalla figura di Sganarello, valletto di Don Giovanni, attraverso momenti di comico verbale e di comico di situazione che spesso, nel teatro di Molière, sono affidati alle figure dei servi e dei valletti.
L’atmosfera teatrale muta con Il misantropo (Le Misanthrope), cinque atti in versi, messi in scena il 4 giugno 1666 al Teatro del Palais-Royal. È di certo la commedia più cupa di Molière. Il protagonista, Alceste, si caratterizza per la sua costante collera nei confronti del mondo, in cui corruzione e ipocrisia dominano incontrastati, persino nella figura della giovane vedova, Climène, di cui si è innamorato e che è innegabilmente una coquette. Non solo il rapporto fra i due non potrà avere futuro, ma Alceste, a causa della sua intransigente virtù e della schiettezza con cui la proclama a tutti, sarà progressivamente isolato dalla società e si ritirerà dal mondo. Alceste è, in maniera più esplicita dei personaggi precedenti, un essere monomaniacale, un essere la cui dimensione psicologica è conformata da un solo tratto, ingigantito agli occhi dello spettatore. Lo stesso accadrà con la figura dell’Avaro o quella del Malato immaginario. Significativamente, in questi casi, il titolo fa precedere il nome da un articolo determinato: il misantropo e non un misantropo. Ciò palesa come si tratti di figure che assurgono allo statuto di tipo umano e il tipo, in quanto tale, incarna un aspetto dell’umanità valido in ogni tempo e in ogni luogo: avari, ipocondriaci, misantropi s’incontrano sempre e dovunque. Ancora una volta, confermando di essere splendida espressione del classicismo, Molière focalizza, quindi, l’uomo in generale. Il discorso di Alceste, le sue pesanti e violente critiche alla società a lui contemporanea, hanno un contenuto che è difficle, per lo spettatore, non condividere. Eppure, di Alceste si sorride spesso, quando non si ride di lui. Questa apparente ambiguità si risolve se si ricorda uno dei principi portanti della visione del mondo del classicismo, in cui l’equilibrio e la giusta misura sono virtù fondamentali: ciò che dice Alceste è vero, ma Alceste, nella sua insofferenza per le ipocrisie che la vita mondana sembra non saper evitare, è eccessivo, dimentica il giusto mezzo e ciò, sempre, secondo la scala dei valori del mondo classico, è riprovevole. L’uomo del giusto mezzo, l’honnête homme, l’uomo dabbene — concetto fondamentale della società mondana di questi anni — è da identificare piuttosto in Philinte, solo vero amico di Alceste, sostenitore di quella che definisce una “vertu traitable”, una “virtù accomodante”, e che non lascerà solo il misantropo nemmeno nel buio destino che si delinea nella chiusa della pièce.
Dopo Anfitrione (Amphitryon) (gennaio 1668), una nuova grande commedia mette a fuoco un’altra figura che acquisisce tutto il suo spessore psicologico a partire da un unico tratto, il vizio dell’avarizia. L’Avaro (L’Avare) è rappresentato il 9 settembre 1668 e Molière, come spesso accade, recita nel ruolo del protagonista, Arpagone. Si ritrovano, sempre mediati da situazioni altamente comiche, argomenti cari alla riflessione di Molière: oltre all’avarizia, la tirannia domestica e l’egoismo.
Seguiranno una paio di commedie-balletto: Monsieur de Pourceaugnac (ottobre 1669) e Il borghese gentiluomo (Le Bourgeois gentilhomme), rappresentato per la prima volta a Chambord, il 14 ottobre 1670. La presa in giro di un ricco borghese che vuole imitare il comportamento e il modo di vivere dei nobili piace molto alla corte che ne decreta il successo prolungato. Le musiche che accompagnano i balletti (parte integrante della commedia, oggi raramente messi in scena) di Pierre Beauchamp (1631-1705) sono del grande Jean-Baptiste Lully (Giovanni Battista Lulli, in origine; 1632-1687).
Le furberie di Scapino (Les fourberies de Scapin) (1671), tre atti in prosa, conoscono scarso successo. È poi la volta delle Donne sapienti (Les Femmes savantes), riflessione sorridente sui costumi dell’epoca i cui tre atti in alessandrini sono messi in scena l’11 marzo 1672. Per l’ennesima volta, la riflessione di Molière è più articolata di ciò che potrebbe parere a uno spettatore poco attento: le donne che vogliono istruirsi non sono grottesche e criticabili per tale motivo, ma perché lo fanno ricorrendo a pedanti ignoranti che credono di gran valore e che da loro, riprendendo in eco il motivo dell’ipocrisia, sono così ingannate.
Il 17 febbraio 1673, alla quarta rappresentazione del Malato immaginario (Le Malade imaginaire), nella cerimonia che chiude questa commedia-balletto in tre atti, Molière si sente male: è l’ultima tappa della malattia polmonare che si è manifestata, per la prima volta, verso il dicembre 1665 e che adesso porta con sé l’attore che muore alcune ore dopo essere stato riaccompagnato a casa. Il malato immaginario tradisce lo scetticismo radicale di Molière nei confronti della scienza medica e, soprattutto, di quella che ai suoi occhi è la ciarlataneria dei medici, ma è anche l’ennesima rappresentazione dell’interesse egoistico che si accompagna all’insincerità, per esempio nella figura di Béline, giovane moglie di Argante, che, al di là dell’atteggiamento che si vuole attento e premuroso verso il marito “malato”, attende con ansia la sua morte per impadronirsi dei suoi averi.
Con la scelta di presentare individui che assurgono alla dimensione di tipi umani e sociali, Molière sposta sistematicamente la riflessione da un livello individuale a un livello generale, universale. Indignandosi soprattutto davanti a chi si rivela foriero di sentimenti insinceri, espressione di quell’ipocrisia che contrasta una morale di autenticità che alimenta un’ampia parte del suo pensiero, Molière dimostra la volontà di evidenziare mali, difetti, storture perché, prendendone atto, l’umanità abbia la possibilità di correggerli. Il teatro di Molière, in modo squisitamente personale, tende, quindi, secondo la lezione del classicismo cui appartiene, ad illuminare gli spettatori, a svolgere un’altissima funzione didattica che, scatenandone il riso, è tutta tesa ad agire in favore dell’umanità.