Hiroshima, mon amour
(Francia/Giappone, 1958, 1959, bianco e nero, 91m); regia: Alain Resnais; produzione: Argos Film/Como Film/ Daiei Motion Picture/Pathé/Overseas; sceneggiatura: Marguerite Duras; fotografia: Takahashi Mishio, Sacha Vierny; montaggio: Henri Colpi, Jasmine Chasney, Anne Sarraute; scenografia: Esaka, Antoine Mayo, Maurice Petri; costumi: Gérard Collery; musica: Giovanni Fusco, Georges Delerue.
Due corpi nudi, abbracciati, in una camera d'albergo: un'attrice francese e un architetto giapponese che si occupa anche di politica. Il luogo è la città di Hiroshima, quattordici anni prima devastata dalla bomba atomica e ora velocemente proiettata verso il consumismo e l'oblio della guerra. In un gioco ossessivo di domande e di ricordi, i due amanti rievocano la tragedia nucleare non conosciuta di persona, i corpi martoriati dalle radiazioni, gli ospedali, il museo, i soccorsi e lo sterminio inatteso di quel giorno d'estate: duecentomila morti, ottantamila feriti in soli nove secondi. La donna francese è prossima a ripartire per l'Europa; lei è a Hiroshima per interpretare un film sulla pace, una coproduzione internazionale, e l'incontro con l'architetto giapponese è avvenuto la sera prima, casualmente: una conoscenza nuova eppure ferocemente intima, viscerale. Sì, è strano conoscersi a Hiroshima, un luogo così intriso di morte da evocare uno slancio vitale forsennato; quando l'architetto domanda cosa Hiroshima abbia rappresentato in Francia, la donna risponde: "La fine della guerra". I due sono entrambi sposati, ma la loro reciproca, talora dolente attrazione li conduce a smarrire il senso del presente e a fondersi nella dimensione del passato. Questo soggiorno a Hiroshima porta la donna a rievocare la giovinezza trascorsa nella città natale di Nevers e il suo primo amore, un soldato tedesco ucciso sul finire della Seconda guerra mondiale. I ricordi e le emozioni si fanno sempre più intensi, anche perché il giapponese in un gioco ambiguo e amoroso di domande e provocazioni si sostituisce al soldato tedesco. In un girovagare senza fine per la città nipponica, la donna incontra più volte l'amante, che la implora di non partire per la Francia. Pur soffrendo, lei non recede dalla sua decisione, anzi, rivolta all'uomo afferma: "Ti dimenticherò, ti ho già dimenticato", sillabando infine "Hiroshima è il tuo nome"; e il giapponese replica: "Sì, e il tuo nome è Nevers, Nevers en France".
Definito sovente come il 'cineasta della memoria', Alain Resnais è uno dei registi più rappresentativi della Nouvelle vague, l'avanguardia di autori francesi che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, ha saputo imprimere una svolta innovativa agli stilemi e ai principi ispiratori del cinema postbellico. In particolare, Resnais con Hiroshima, mon amour ha dato avvio, assieme ad altri colleghi, al nuovo corso di una cinematografia che stava per cambiare radicalmente il rapporto tra autore, narrazione e spettatore, coinvolgendo quest'ultimo in una partecipazione attiva e interattiva con l'opera e con l'artista. In questo senso, Hiroshima, mon amour è emblematico, in virtù del tentativo di richiamare l'attenzione di ciascuno sui ricordi e sulle emozioni profonde che la memoria può far scaturire.
La memoria, appunto: un flusso ininterrotto di sensazioni e immagini che sin dall'inizio accosta i corpi svestiti dei due amanti ai corpi piagati dalle radiazioni micidiali, e poi lunghe inquadrature, spesso carrellate, su missili, ospedali, musei, brani di documentari sulle vittime rese orripilanti dal fungo atomico. Su queste immagini incombe l'orrenda profezia: "Ma ciò accadrà di nuovo", riferita ai pericoli della guerra fredda e alle potenzialità distruttive dell'uomo. Il paesaggio urbano scarno, ispirato da un capitalismo algido e anonimo, contrasta con le atmosfere della camera d'albergo in cui i due amanti si scambiano calde effusioni, confessando la necessità del contatto, del reciproco abbraccio, sfidando quasi l'impenetrabilità dei corpi. La macchina da presa scivola soffusamente sulla carne, col suo movimento avvolge le membra dei due protagonisti. I dialoghi, i ricordi, la poesia sono srotolati dal regista e da Marguerite Duras con levità e cura estreme; ai monologhi della donna, quasi dispiegati in stato ipnotico, fanno da contrappunto i gesti, i volti, i paesaggi rammendati dal Tempo. Persino il juke-box di Hiroshima sembra seguire il filo del ricordo, allorché da esso paiono levarsi le note del piccolo valzer francese legato alla Nevers dell'adolescenza.
Dunque, ancora la memoria; stavolta non i morti di Hiroshima, ma la nostalgia di Nevers, la cittadina in cui è nato e morto l'amore della giovane francese per il soldato tedesco, un amore che la spinse sull'orlo della follia. Le dissolvenze incrociate ci conducono indietro di un quindicennio, a quella malattia amorosa che rendeva la giovane donna così somigliante alla Giovanna d'Arco di Renée Falconetti, fotografata da Dreyer in un chiaroscuro immortale. E da questo viaggio a ritroso riemergiamo grazie alle analogie del montaggio, quando l'immagine dell'abbraccio della ragazza con la madre si raccorda all'abbraccio della donna, nell'oggi di Hiroshima, con il suo amante nipponico. Il fascino dei primissimi piani e dei dettagli sottolinea una nuova estetica, già sottoscritta da André Bazin, padre teorico e vessillifero della Nouvelle vague, e da Alexandre Astruc: la caméra-stylo, la cinepresa da usare come una penna stilografica, lasciando che essa si posi lievemente per scrivere le effimere, levigate strofe della vita e ricomporre poeticamente un'esperienza interiore; ed ecco allora la donna smarrirsi nella peregrinazione notturna, splendida sequenza dentro la Hiroshima semideserta dei taxi, dei bar elegantemente illuminati, delle insegne fluorescenti e dei neon, una città estranea eppure così familiare allorquando alla stazione si incontra nuovamente l'amante orientale, divenuto ormai un alter ego della propria memoria. La scia di consapevolezza che qui unisce ricordi e attualità della coppia improvvisata ‒ fusione ma non confusione, come avverrà più avanti in L'année dernière à Marienbad ‒ mantiene viva l'inevitabilità del distacco imminente e mortale (se la vita risiede solo nella condivisione del ricordo) e della diversità: "Il tuo nome è Hiroshima", "Il tuo nome è Nevers". Osserva in proposito Jean-Louis Leutrat che il ricordo dell'amore per il tedesco dissolve il sentimento che la protagonista nutre per l'amante giapponese, quasi che un'immagine si giustapponesse perfettamente all'altra, adombrandola per sempre. È proprio questo, ci pare, il gioco preferito della memoria, quello di sovrapporre un oggetto, una persona, un'emozione a un'altra vissuta in precedenza, senza però cancellare del tutto quel passato cui un filo invisibile ci lega. Un'esperienza, nel medesimo tempo, vitale e mortale: come a Hiroshima.
Interpreti e personaggi: Emmanuelle Riva (lei), Okada Eiji (lui), Pierre Barbaud (il padre), Stella Dassas (la madre), Bernard Fresson (il tedesco).
J. Domarchi, J. Doniol-Valcroze, J.-L. Godard, P. Kast, J. Rivette, E. Rohmer, Hiroshima, notre amour, in "Cahiers du cinéma", n. 97, juillet 1959.
H. Colpi, Musique d'Hiroshima, in "Cahiers du cinéma", n. 103, janvier 1960.
M.-C. Ropars-Wuilleumier, L'écran de la mémoire, Paris 1970.
L. Williams, Hiroshima and Marienbad. Metaphor and metonymy, in "Screen", n. 1, Spring 1976.
G. Mercken-Spaas, Deconstruction and Reconstruction in 'Hiroshima mon amour', in "Literature/Film quarterly", n. 4, October 1980.
J.-L. Leutrat, 'Hiroshima, mon amour': étude critique, Paris 1994.
S. Arecco, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Recco 1997.
Sceneggiatura: M. Duras, Hiroshima, mon amour, Paris 1960.