Monachesimo
Alla ricerca di una vita religiosa perfetta
La parola monaco viene dal greco mònos, che significa «solo». Il monaco è colui che si isola dal mondo per compiere un cammino di ricerca spirituale, caratterizzato dalla rinuncia e dalla preghiera. I primi monaci vissero da eremiti, poi prevalse un modello di vita comunitaria.
Per un monaco è fondamentale l’idea di rinuncia: egli si isola dal mondo per dedicarsi interamente alla ricerca di una vita religiosa perfetta; al ritiro si affiancano pratiche ascetiche, come digiuno, povertà, forme di mortificazione di sé, sostenute dalla meditazione e dalla preghiera. Tutte le forme di monachesimo hanno almeno all’inizio identificato questo percorso con l’eremitismo. I monaci si ritiravano in luoghi inaccessibili, come deserti o alture: questa è la fase dell’anacoretismo (da una parola greca che significa «ritirato», «appartato»). Poi prevalsero forme di vita comunitaria – fase del cenobitismo (dal greco koinòs bìos «vita comune») – nell’ambito delle quali i monaci accettano di osservare delle norme, definite regola, cui sottoporsi per vivere disciplinatamente in comunità.
Si ha notizia di monaci in India, nell’ambito dell’induismo, a partire dal 2° millennio a.C. I monaci erano individui che abbandonavano ogni avere per dedicarsi con assoluta libertà alla meditazione, alla preghiera, al miglioramento di sé. Vivevano di elemosina e pellegrinavano tra luoghi di culto. Ancora oggi, non sono pochi in India coloro che, magari nel corso di una esistenza ‘normale’, si spogliano di tutto per praticare questo genere di vita.
Il modello fu adottato anche dai giainisti e dai buddisti (Buddha e il buddismo), che sono seguaci di altre religioni affermatesi in quell’area (nel 6° secolo a.C.). I buddisti disciplinarono con regole molto complesse l’immissione nella vita monastica e loro monasteri sono diffusi in tutto l’Oriente (e meno frequenti proprio dove il buddismo nacque, ossia in India). In area islamica il monachesimo si identificò nel sufismo (misticismo), a partire dal 9° secolo. Tra il 12° e il 13° secolo i sufi costituirono vere e proprie confraternite.
I primi monaci cristiani appaiono in Egitto, nel 4° secolo. All’inizio vivevano isolati, poi si raggrupparono, organizzandosi in comunità. A spingerli a ciò fu l’esempio di alcuni monaci, s. Antonio abate e Pacomio anzitutto. Antonio, nato in Egitto tra il 251 e il 252, iniziò come eremita, ma finì col raccogliere attorno a sé molti discepoli, attratti dal suo esempio. Pacomio intorno al 322 fondò un monastero in cui si raccolsero un centinaio di monaci. Chi viveva in quel luogo doveva obbedire al capo della comunità e sottoporsi alla regola comune che si proponeva di garantire il bene di tutti. I monaci indossavano un rozzo saio e dormivano in celle separate, però mangiavano, pregavano e lavoravano insieme.
L’esperienza di Pacomio ebbe un grande successo, non solo in Egitto (dove i monaci arrivarono a essere decine di migliaia), ma anche in Palestina, in Grecia e in tutto l’Occidente. Egli aveva trovato la sintesi tra l’ideale di una vita ascetica e l’aspirazione a condividere tale percorso in comunità.
Il fondatore del monachesimo occidentale è però Benedetto da Norcia (nato nel 480 circa e morto nel 547). Nato da famiglia nobile, studiò a Roma per dedicarsi poi alla vita eremitica. Chiamato a governare una prima volta una comunità monastica, quella di Vicovaro, fallì per l’indisciplina dei monaci. Tentò allora una nuova esperienza di vita comunitaria presso Subiaco, dove fondò 12 monasteri, ma anche qui sorsero problemi con i confratelli. Tra il 525 e il 529 arrivò così a Cassino: sulla cima del monte fondò un nuovo monastero, lì dove sorgeva un tempio pagano (sua sorella Scolastica ne istituì a sua volta uno femminile nelle vicinanze).
La vita comunitaria era organizzata a Montecassino da una regola elaborata con grande equilibrio e moderazione. I monaci non erano sottoposti a norme particolarmente severe e tutto era predisposto per garantire una serena vita comune, come in una famiglia naturale di fratelli governata da un padre. Questi era l’abate, che era aiutato da altri superiori e dal consiglio dei confratelli. Il monastero era una specie di Stato autosufficiente, luogo di preghiera e di lavoro, e il precetto ora et labora, ossia «prega e lavora», racchiude l’essenza del monachesimo benedettino (abbazie). I monaci lavoravano nei campi, ma anche nelle biblioteche dei monasteri, dove si dedicavano allo studio e alla copia manuale delle Sacre Scritture, di libri liturgici e di altri testi.
Nel tempo di Benedetto fiorirono tuttavia altre esperienze monastiche, come quelle di Cassiodoro e di s. Colombano. Cassiodoro (vissuto tra il 490 e il 580) ebbe un ruolo politico rilevante nella ricerca di una intesa tra i Romani e i Goti; con l’esplodere del conflitto tra questi ultimi e i Bizantini si ritirò in Calabria, e a Vivario, nei pressi di Squillace, dove era nato, fondò un monastero, dotato di una ricca biblioteca.
Qui promosse una intensa attività culturale: traduzioni di opere greche, scritti di formazione religiosa, copia manoscritta di testi antichi. Con ciò indicò un modello di attività poi proficuamente seguito nel mondo monastico. Colombano era invece irlandese, e visse tra il 540 e il 615. Fondatore di vari monasteri in Francia, in quello di Luxeuil elaborò una regola assai rigorosa, che prescriveva un percorso di realizzazione spirituale caratterizzato da dure pratiche penitenziali. La regola di Colombano ebbe ampia diffusione iniziale, poi finì col prevalere quella di s. Benedetto.
Nel generale scadimento della vita civile, economica e politica che seguì la fine dell’Impero Romano, i monasteri costituirono piccole isole quiete e operose. I monaci tramandarono la cultura dell’antichità studiandone e riproducendone le opere. Non solo, costituirono pure un vivaio di uomini colti e preparati che vennero continuamente utilizzati da papi e imperatori per opere di evangelizzazione ma anche, per esempio, per attività come la bonifica di terreni incolti.
Ciò portò a uno snaturamento della missione monastica: i monaci erano sempre più impegnati nelle cose del mondo, e le ricchezze e i possedimenti dei monasteri diventavano sempre più grandi. Tra l’8° e l’11° secolo un ampio movimento di riforma scosse così il monachesimo. Fu soprattutto per iniziativa dei monaci del monastero francese di Cluny, nel 10° secolo, che questo nuovo spirito religioso prese forme più mature. Da Cluny si affermò un messaggio di riforma spirituale della Chiesa, che doveva riscattarsi dalla corruzione che la dominava e dalle ingerenze del potere politico che subiva. I monaci di Cluny, che definirono una nuova regola, eliminarono l’obbligo di dedicare parte del tempo al lavoro manuale: i religiosi dovevano anzitutto dedicarsi alla preghiera e al silenzio. Cluny e la rete dei monasteri collegati, infine, per evitare interferenze delle autorità locali, civili ed ecclesiastiche, si posero direttamente sotto la dipendenza della Santa Sede.
Cluny divenne una potenza (religiosa ed economica) e finì a sua volta con il decadere. Tra l’11° e il 12° secolo ciò determinò nuove fondazioni di ordini benedettini che si proponevano un’applicazione più rigorosa della regola: camaldolesi, virginiani, cistercensi, e ancora in seguito silvestrini, olivetani e così via.
Ma il modello monastico, nonostante tutto questo, declinò. A partire dal 13° secolo i nuovi ordini mendicanti imposero modelli di vita religiosa diversi, fondati sulla partecipazione, sulla presenza sociale attiva. I monasteri finirono per costituire soprattutto serbatoi di rendite ecclesiastiche e molte congregazioni a poco a poco vennero soppresse.
Soltanto nell’Ottocento il monachesimo benedettino ebbe un risveglio. Nel 1964, poi, papa Paolo VI, riconoscendo la funzione avuta dai benedettini soprattutto nei secoli bui dell’Alto Medioevo, ha proclamato Benedetto da Norcia patrono d’Europa.