MONACHISMO (fr. monachisme; sp. monacato; ted. Mönchtum; ingl. monasticism)
Tutta la terminologia del monachismo, ricca già nel greco di sinonimi, risale a μόνος "solo". Secondo l'etimologia, dunque, il monaco è il solitario: colui che si isola dal mondo esteriore e dalla società umana per uno scopo essenzialmente religioso. I motivi che concorrono nel determinare questo bisogno d'isolamento e di solitudine si possono considerare contenuti tutti nella distinzione tra sacro e profano, che è alla base dell'ascetismo (v.) e in quella tra il mondo dei fenomeni, della materia, ecc., e il mondo invece della realtà spirituale e religiosa, distinzione che costituisce uno degli elementi fondamentali del misticismo (v.). Mediante l'isolamento, cui si accompagnano pratiche ascetiche (povertà, digiuno o almeno astensione da determinati alimenti, castità, mortificazioni varie) e religiose (preghiera, meditazione, ecc.), il monaco compie la sua rinuncia al "mondo", il suo distacco da esso, e cerca di realizzare una vita religiosamente sempre più alta e più intensa, che ha per scopo ultimo il conseguimento della salvezza: raggiunta sia per mezzo di un perfezionamento morale, sia attraverso il misticismo. Ascetismo e mistica, che qualcuno ha voluto contrapporre l'uno all'altra come atteggiamenti spirituali sostanzialmente diversi, anzi contrastanti, sono entrambi, come si è detto, fattori costitutivi del monachismo: benché la prevalenza dell'uno sull'altro possa forse fornire anche un criterio per una classificazione dei diversi tipi di monachismo che la storia religiosa ci presenta. Certo è che l'isolamento - il quale, temporaneo, si ritrova anche in molti riti d'iniziazione - ha per scopo l'attuazione di un rinnovamento, che si può considerare come una vera e propria rinascita spirituale. Non è dunque un caso che il monachismo abbia assunto particolare importanza storica e sia fiorito soprattutto in quelle religioni, nelle quali anche l'ascetismo e la mistica hanno avuto le loro manifestazioni più elevate: le religioni dell'India l'islamismo e il cristianesimo.
Ma quella solitudine, appunto perché va soprattutto intesa come rinnegamento di una serie di valori, al cui posto ne viene esaltata un'altra, e come sostituzione di un'ideale di vita (la vita contemplativa) a un altro, pertanto non solo negativamente, come rinuncia, ma positivamente, come dedizione completa della personalità (anche, in certi casi, fino al totale rinnegamento di essa) a uno scopo religioso, non è necessariamente solitudine assoluta, intesa in senso materiale. Anzi, storicamente si può constatare un processo, che si verifica in quasi tutte le religioni, per cui il monachismo tende a passare, da una prima fase durante la quale prevale il concetto dell'isolamento assoluto in luoghi inaccessibili o quasi (fase dell'anacoretismo), a una seconda, nella quale predominano invece le forme di vita monastica associata (fase del cenobitismo) e per conseguenza sottoposta a una regola e organizzata, in maniera che può essere più o meno perfetta. E talvolta, il risorgere di forme di entusiasmo religioso le quali promuovono una rinascita dell'ideale monastico del tipo anacoretico, può assumere il carattere anche di una riforma, se non di una vera e propria rivoluzione religiosa. Ma la spontanea tendenza ad associarsi da parte di persone animate dai medesimi ideali e miranti al medesimo scopo, è generalmente più forte d'ogni altra: e a questo predominio del cenobitismo contribuiscono altresì il bisogno di estrinsecare la vita religiosa nel culto, e la tendenza che mistici e asceti provano ugualmente, di comunicare altrui le loro esperienze e di costituire anche talvolta vere e proprie scuole.
Abbiamo ricordato il monachismo indiano. Nel brahmanesimo, monaci propriamente detti sono i bhikṣu, giunti al quarto degli āśrama o stadî, caratterizzato dalla rinuncia a ogni avere, per dedicarsi con assoluta libertà spirituale alla meditazione. Nell'induismo, la vita monastica consiste pure prevalentemente nei pellegrinaggi: i monasteri sono in genere piccoli, eccetto che presso i grandi santuarî; i monaci mendicano, non lavorano. Dal brahmanesimo hanno derivato le loro istituzioni monastiche anche il jainismo e il buddhismo, il quale si distingue perché ammette alla vita monastica i fedeli senza distinzione e cioè non soltanto gli appartenenti alle caste superiori. Il monachismo buddhistico ha subito un'evoluzione, nel senso di un'organizzazione più complessa, specie per quanto riguarda le condizioni dell'ammissione alla vita monastica, e i relativi periodi di prova. Il monachismo buddhistico è fiorito ovunque questa religione si è diffusa, creando grandi centri di vita religiosa, a Ceylon come nel Siam e nella Birmania (v. buddhismo, VIII, p. 42) come nell'Asia centrale e nel Tibet (v. lamaismo), nel Giappone e, forse in minor misura, anche nella Cina e nella Corea.
Nel monachismo indiano, specialmente nel buddhistico, è stato indicato da A. Hilgenfeld il precursore di quello cristiano, a spiegare la genesi del quale si sono addotte, volta a volta, le varie tendenze ascetiche di cui si ha traccia nel mondo classico e nel giudaismo, dai druidi della Gallia (A. Bertrand, Nos origines. IV. Les druides et le druidisme, Parigi 1897; tesi che è inutile discutere) ai misteri dell'età ellenistica, al neoplatonismo e al neopitagorismo, e alle comunità ascetiche degli Esseni e dei Terapeuti, ecc. Una teoria che per qualche tempo ha incontrato molto favore è quella che riannodava le prime comunità monastiche cristiane (sorte appunto in Egitto) ai "reclusi" (κάτοχοι) dei templi di Serapide: ma sulla natura di costoro si discute (vedi asilo, IV, p. 939).
Il monachismo cristiano. - Occorre in primo luogo mantenere ferma la distinzione tra i monaci propriamente detti e i frati mendicanti (quali i francescani e i domenicani), i chierici regolari (quali i gesuiti), i canonici regolari, e le altre forme di vita religiosa nelle diverse congregazioni (p. es., oratoriani, redentoristi, ecc.). Il monachismo propriamente detto è oggi rappresentato soltanto nelle chiese orientali e, nella Chiesa cattolica, dai basiliani e dai benedettini con tutte le varie ramificazioni di questa grande famiglia. Gli elementi che - non isolatamente, ma neppure tutti insieme e comunque in varia misura - caratterizzano tuttavia il monachismo sono in primo luogo la pratica della povertà (almeno individuale), della castità, dell'umiltà e dell'ubbidienza; le varie forme di mortificazione (digiuno, veglia, ecc.; spesso e, in qualche caso, importantissimo il silenzio); la solitudine (assoluta o relativa, isolamento cioè del monastero o anche della comunità monastica); la preghiera; il lavoro, manuale o spirituale; e, in Occidente, la stabilità della dimora in un determinato monastero per tutta la vita. La vita cenobitica ha imposto, come si è detto, la necessità di osservare una regola, di cui la storia del monachismo ci presenta diversi esempî, da quelle di S. Antonio, di Pacomio, di Scenuti, di Tommaso di Marga e di S. Basilio in Oriente, a quelle di Cassiano, di S. Fruttuoso, di S. Colomba, di S. Cummiano, di S. Colombano, di S. Benedetto, ecc., in Occidente. Altra necessità della vita cenobitica è quella di affidare la direzione del monastero a un capo (archimandrita, egumeno, abate, preposto: i due primi nomi sono prevalsi in Oriente, il terzo è diventato d'uso generale in Occidente) e ad altri superiori che lo assistono (priore, sottopriore, ecc.; particolare importanza ha il cellerario, cui vengono spesso devoluti, con la cura delle provviste, tutta l'amministrazione del monastero e gli affari temporali in genere). I monaci si distinguono altresì per l'abbigliamento, che in genere deve servire a mostrare anche esternamente la loro povertà e umiltà, e che in genere risale alle vesti usate in antico dagli strati più umili della popolazione, e divenute poi d'uso tradizionale tra i monaci. Ricordiamo tra esse la tunica, munita di cintura, il cappuccio (il cucullus nell'antichità era destinato a proteggere il capo dalla pioggia, e poteva essere ripiegato sulle spalle, poi si trasformò; v. cocolla) e lo scapolare.
Il monachismo cristiano ebbe principio, come s'è detto, in Egitto, nel sec. IV, e i primi asceti vissero separati, come anacoreti; poi, sentendo il bisogno di una scambievole comunione, cominciarono a stabilirsi vicini fra loro, per potersi assistere a vicenda, materialmente e spiritualmente; arrivarono così a formare delle vere e proprie colonie di monaci (v. laura), aventi ognuna la sua chiesa, in cui un sacerdote amministrava agli altri i sacramenti e li rendeva per tal modo partecipi della vita propriamente ecclesiastica. Ma un passo più deciso verso la vita associata fu fatto nell'alta Tebaide da Pacomio, fellāḥ copto, che, dopo aver menato vita anacoretica verso il 322 fondò a Tabennisi sulla riva orientale del Nilo a nord di Tebe uno stabilimento di eremiti facenti vita comune (koinòs bíos, onde cenobiti in opposizione ad anacoreti), il quale conteneva molte celle unite tra loro, ma divise dall'esterno da un muro di cinta (coenobium, monasterium, claustrum). Poiché quello di Tabennisi divenne presto insufficiente, si fondò un cenobio più grande a Pebu (attualmente Fayyūm) e quindi altri più piccoli dipendenti dal primo, nel numero complessivo di 11, due dei quali per donne, fondati dalla sorella di Pacomio, Maria. La vita comune aveva per base la rinunzia alla liberta individuale degli anacoreti e la stretta obbedienza al capo di ciascun cenobio e alla regola comune che aveva in mira il bene comune di tutti, sia spirituale sia corporale; tutti vestivano ugualmente un rozzo saio stretto da un cordone, con una pelle di capra o di pecora sulle spalle e un cappuccio sul capo; ciascuno abitava e dormiva separato nella sua cella, ma prendevano in comune il cibo, regolarmente vegetariano, e dicevano in comune mattina e sera le preghiere; durante il giorno facevano ogni sorta di lavori dentro il chiostro o fuori in campagna, e nelle feste si radunavano in chiesa per prendere parte alle sacre funzioni; solo per bisogno potevano comunicare con gli estranei, ma esercitavano verso di loro la più larga ospitalità. Siccome entrando in un cenobio non si legavano con voti ad esso, potevano uscirne quando volevano, o, se loro piaceva, passare ad un altro: giacché i diversi cenobî formavano insieme una specie di congregazione, a capo della quale stava il superiore di Pebu, la comunità madre, presso la quale due volte all'anno tutti i monaci si radunavano. Ben presto sorse un'altra consimile istituzione, che aveva per centro un cenobio impiantato in un vecchio castello presso il villaggio di Atripe, di rimpetto ad Akhmīm, sulla catena libica; ivi dal 385 fu abate Scenuti, uomo di eloquente parola, i cui discorsi in lingua copta sono arrivati fino a noi, e di rigida disciplina, sì da punire egli stesso le trasgressioni alla regola con le percosse; morì nel 452, a 118 anni.
Da allora i cenobî si moltiplicarono per tutto l'Egitto; cenobitî e anacoreti non si contarono più, e la loro forma attirava dai più lontani paesi i visitatori, i quali alla loro volta, tornati in patria, si facevano propagatori della vita monastica. Così nella vicina Palestina Ilarione di Gaza trasportò la vita anacoretica, mentre Epifanio, poi vescovo di Salamina in Cipro, fondò una colonia cenobitica presso Eleuteropoli tra Gaza e Gerusalemme. In seguito sorsero monasteri ovunque fosse memoria di qualche avvenimento biblico - così il celebre monastero di S. Caterina ai piedi del monte Sinai, dove Dio era apparso a Mosè - ma soprattutto nei dintorni di Betlemme e di Gerusalemme, che si popolarono di anacoreti e di cenobiti, la cui fama presto raggiunse e forse superò quella dello stesso Egitto. Anche la Siria, così occidentale come orientale; non rimase indietro; in essa però, forse per il carattere più rozzo degli abitanti, prevalse la forma di vita anacoretica, portata talora agli ultimi eccessi di rigore.
La vita eremitica dunque è sorta e nel principio si è largamente propagata in mezzo alle popolazioni indigene, copta dell'Egitto e semitica della Siria e della Palestina. Presto però venne conosciuta e fu coltivata anche dai Greci, i quali naturalmente impressero ad essa il loro spirito di ordine e di moderazione. Come la vita anacoretica ebbe un forte sostenitore ad Alessandria in S. Atanasio, il quale nella sua vita di S. Antonio dipinse idealmente la figura del primo eremita con colori presi dalla vita degli asceti e mistici ellenisti, neopitagorici e neoplatonici, così la vita cenobitica introdotta nell'Asia Minore da Eustazio di Sebaste ebbe in Basilio di Cesarea un fervente seguace e un consumato teorico. I suoi scritti ascetici anche se non tutti provengono da lui (più probabilmente genuine sono le Regulae fusius tractatae e le brevius tractatae e i Sermones ascetici), hanno fino ad oggi formato la base della vita monastica in Oriente. Essi non contengono una vera regola, ma riflessioni e insegnamenti di somma sapienza pratica per la vita dello spirito, che poggiano sulle verità insegnate non solo dalla Bibbia, ma anche dai filosofi cinici e stoici. Loro presupposto fondamentale è che il monachismo, l'abbandono cioè completo del mondo nella vita dell'eremo, è il cristianesim0 perfetto, la via più diretta di salvazione, non però nella forma anacoretica che presenta molti pericoli per l'anima, ma nella forma cenobitica, la quale rispecchia perfettamente la primitiva comunità dei cristiani che erano un cuore solo e un'anima sola, e quindi meglio dell'universalità dei fedeli si presta per l'esecuzione del precetto dell'amore di Dio nella preghiera comune, e dell'amore del prossimo col servizio ed aiuto che i monaci si rendono tra loro e che possono anche esercitare verso gli estranei, quando questi ricorrano alla loro direzione spirituale. In questo più ampio e completo esercizio della carità evangelica, che permetteva ai monaci perfino di abbandonare l'eremo per andare a coprire un seggio episcopale quando ne erano creduti degni, si distingue il cenobitismo di Basilio da quello di Pacomia. Un'altra differenza, proveniente dallo spirito gotico, consiste nella grande influenza che, come sull'ascesi ellenistica la filosofia, così sul monachismo ha avuto la speculazione teologica e la contemplazione mistica culminante nell'estasi. Il che spiega come nelle grandi questioni teologiche, tanto agitate nei secoli IV e V, hanno preso parte vivissima e talora decisiva, malgrado il distacco che professavano dalla vita del mondo, i cenobî d'Oriente, seguaci ora dell'una e ora dell'altra scuola; mentre i monasteri dell'Egitto, eredi dell'antico spirito incolto, intervenivano piuttosto in senso contrario, per la semplicità della fede contro la speculazione teologica.
Più tardi, il cenobitismo orientale continuò a fiorire, specie nei grandi monasteri di Costantinopoli, in particolare degli acemeti e degli studiti; più tardi ancora, nella grande e complessa organizzazione monastica del monte Athos.
In Occidente, la vita monastica fu conosciuta alquanto più tardi che in Oriente; e grande impressione destarono in Roma i due monaci egiziani che S. Atanasio vi condusse seco. In ogni modo, verso la metà del sec. IV il monachismo cominciava a fiorire anche in Occidente: sempre più numerosi fedeli si dedicarono alla vita ascetica, sia in Palestina, fondandovi anche monasteri, sotto l'influsso di S. Girolamo e di Rufino, come Melania, Paola ed Eustochio, sia nell'Occidente stesso, dove le varie forme di vita monastica, cioè prima l'anacoretica e poi la cenobitica, ricevettero grande impulso per opera di S. Ambrogio in Milano, del papa S. Damaso in Roma, di S. Eusebio di Vercelli, di S. Paolino di Nola, di S. Martino di Tours, di S. Onorato e di S. Cesario d'Arles e di molti altri. Tra il sec. IV e il V si trovano monasteri, si può dire, in tutte le diocesi dell'Italia settentrionale e in varî luoghi della centrale e meridionale; nella Gallia, vanno ricordati i monasteri di Arles, di Marsiglia e di Lérins; nell'Africa, un grande impulso alla vita monastica venne da S. Agostino. Non mancarono tuttavia gli avversarî del monachismo, e soprattutto dell'ascetismo, quali Gioviniano e Vigilanzio; specialmente nella Spagna, monaci e asceti rimasero a lungo sospetti di priscillianismo (v. priscilliano); ma, più tardi, anche la Spagna ebbe una fiorente vita monastica, per opera di S. Isidoro, di S. Fruttuoso di Braga, di S. Martino di Braga e di Leandro di Siviglia. Alla diffusione della vita monastica nel Norico giovò assai l'opera di S. Severino, mentre in Italia occorre appena ricordare, qui, i nomi di Cassiodoro e di S. Benedetto da Norcia, con il cui ordine il monachismo occidentale si è quasi immedesimato.
Ma prima che ciò avvenisse, un'altra grande fioritura di monachismo si verificava tra i Celti, soprattutto dell'Irlanda, la cui chiesa ebbe prevalentemente carattere monastico e missionario: basterà ricordare l'opera di S. Colomba di Iona, del suo omonimo, ma dal nome latinizzato in S. Colombano, nonché i numerosi monasteri d'origine celta fondati sul continente europeo, sui Vosgi, lungo il Reno e sul lago di Costanza, nella Germania, nella Svizzera e in Italia. Questi centri monastici esercitarono una grande influenza sulla cultura e sulla vita religiosa dell'Europa; basterà accennare quanto alla prima, ai numerosi manoscritti d'origine irlandese e, quanto alla seconda, alla disciplina penitenziale e in particolare alle indulgenze (v.).
Le regole monastiche più diffuse in Occidente durante l'epoca barbarica furono appunto quelle di S. Colombano e di S. Benedetto; poi prevalse la seconda. Tra le caratieristiche distintive di essa, accenneremo all'obbligo della stabilitas, cioè il divieto di vagare di convento in convento, e della obbedienza al paterno governo dell'abate. Prescriveva inoltre un'ascesi moderata, la pratica esatta della liturgia nel culto divino (divinum officium, opus Dei), l'esercizio del lavoro manuale, avente principalmente per oggetto la coltivazione dei campi anche in vaste zone. Con questo, la vita monastica in Occidente assumeva in confronto dell'orientale un carattere di maggiore attività pratica, più conforme, sia allo spirito del Vangelo, sia alle esigenze culturali della società umana; e ciò tanto più quando, dietro l'impulso di Cassiodoro, fondatore del monastero detto Vivarium in Calabria (circa 538) vi si aggiunse l'attività letteraria, consistente specialmente nel trascrivere gli antichi codici al fine di conservare i più illustri documenti dell'antichità classica e cristiana.
Per tal modo l'ordine benedettino ebbe presto larga diffusione, favorito sia dai papi, che se ne servirono per le missioni tra i popoli barbari, sia dagl'imperatori che se ne servirono per l'istruzione e l'educazione del popolo nei loro stati e per la bonifica dei terreni incolti; il che però, per i frequenti contatti con i secolari e la facilità di accumulare beni terreni, fu anche causa di rilassamento della disciplina e di raffreddamento nella prosecuzione dell'ideale monastico, che avrebbe dovuto massimamente consistere nel distacco dal mondo e nella cura della salute dell'anima propria. Da qui venne che la storia del monachismo occidentale, dal sec. VIII al XII, fu dominata da un largo movimento di riforma. Fino dal 779, S. Benedetto, abate del monastero di Aniano nella Francia meridionale, si adoperò attivamente per il ristabilimento della stretta regola benedettina, con la proibizione ai monaci di dedicarsi agli studî e al lavoro scientifico, ed ebbe da Ludovico il Pio la facoltà di diffondere la sua riforma in Aquitania e poi nella Francia intera. Quest'opera riformatrice fu ripresa e allargata nel sec. X dal monastero di Cluny nella Borgogna, fondato dal duca Guglielmo di Aquitania nel 910, intorno al quale si costituì la congregazione cluniacense, vasta rete di monasteri sparsi non solo in Francia, ma anche in Italia, Germania, Spagna e Inghilterra; per agire più efficacemente essa si rese indipendente da qualsiasi autorità locale, e si pose sotto la protezione e la giurisdizione diretta della Santa Sede, alla quale poi prestò valido aiuto per la riforma generale della Chiesa e per la sua liberazione dalle ingerenze indebite del potere laicale.
Ma lo spirito di riforma, affievolitosi nella stessa congregazione cluniacense, salita presto a grande potenza e ricchezza, diede luogo alla fondazione d'istituti monastici nuovi, che per lo più presero anch'essi per base la regola benedettina, intesa però con maggiore rigore. In Italia rivisse perfino l'antico eremitismo, per opera del greco Nilo (morto nel 1005) da Rossano in Calabria, che prima menò vita solitaria in parecchi luoghi e poi fondò il monastero di Grottaferrata presso Frascati; inoltre per opera di S. Romualdo da Ravenna, che fondò nel 1012 a Camaldoli presso Arezzo una colonia di eremiti, da cui ebbe origine la congregazione camaldolese, la quale ricevette massimo incremento da S. Pier Damiani priore dell'eremo di Fonte Avellana. Un savio contemperamento della vita eremitica con la cenobitica fu praticato dalla congregazione di Vallombrosa, istituita nel 1036 da S. Giovanni Gualberto presso Firenze sua patria, e ad esso mirò in Francia S. Brunone, fondatore nel 1084 della Certosa presso Grenoble. L'abate benedettino Roberto di Molesmes fondò nel 1098 un nuovo monastero a Cîteaux (Cistercium) presso Digione, che acquistati nuovi statuti (Charta caritatis del 1118) divenne il centro di un ordine nuovo, e per opera di S. Bernardo salì a grande fama, in specie in Francia e in Germania. Altri rami della grande famiglia benedettina si possono considerare i silvestrini, fondati nel 1227 da Silvestro Gozzolini (morto nel 1267), gli olivetani, fondati da Bernardo Tolomei da Siena (morto nel 1348), altro tentativo di contemperare la vita eremitica con la cenobitica. Ancora vanno ricordati gli umiliati, fondati da S. Giovanni Oldrado (morto nel 1159), l'ordine di Pulsano fondato da S. Giovanni di Matera (morto nel 1139), mentre all'amico di lui Guglielmo di Vercelli (morto nel 1142) si deve la fondazione del santuario di Montevergine; i fiorensi, fondati da Gioacchino da Fiore, l'ordine di Grammont presso Limoges, fondato da S. Stefano di Muret (morto nel 1142), e quello di Fontevrault, fondato da Roberto d'Arbrissel, rinnovando l'antica istituzione dei doppî monasteri; infine, i mechitaristi.
Ma dal sec. XIII si può dire che, nonostante le riforme, continui e si aggravi sempre più la decadenza. Alle mutate condizioni dei tempi corrispondevano nuove forme di pietà e nuovi modi di attuare la perfetta vita religiosa e incomincia l'epoca della fioritura degli ordini mendicanti; invece, dopo la riforma protestante, che, dopo aver condannato in teoria i voti monastici per bocca di Lutero soppresse o distrusse i monasteri in grandissima parte della Germania, nell'Europa settentrionale e nell'Inghilterra, incomincia l'epoca dei nuovi ordini religiosi - quali la Compagnia di Gesù - nei quali si esprimono e trovano attuazione gl'ideali della Controriforma cattolica. Ciò nondimeno l'ordine benedettino diede sempre prova di grande vivacità. Basterà accennare alla riforma dei monasteri compiuta da Martino V, inviando monaci sublacensi a Melk in Austria, nonché l'opera svolta in Italia dalla congregazione cassinese o di S. Giustina, fondata dal medesimo papa, in Lorena, dalla congregazione di S. Vannes; in Francia, da quella di S. Mauro (v. maurini); e al grande impulso preso dall'ordine benedettino nella Francia, nel Belgio e in Italia nel corso del sec. XIX, nonché anche in Inghilterra e in Germania, ecc., particolarmente dopo la guerra mondiale.
Del resto, anche tra le denominazioni cristiane sorte dalla Riforma protestante, il monachismo non incontra più un'avversione così completa e generale come un tempo, né quale ebbe a subire, soprattutto durante l'era dell'illuminismo e nel sec. XIX, anche in paesi cattolici, e così nell'anglicanesimo come in alcuni circoli luterani si notano tentativi di far risorgere forme di vita religiosa associata, sul modello del monachismo cattolico.
Bibl.: F. Cabrol e A. S. Geden, Monasticism, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, VIII, Edimburgo 1915; J.-M. Besse, Les moines d'Orient avant le concile de Chalcédoine, Parigi 1901; E. Buonaiuti, Le origini dell'ascetismo cristiano, Pinerolo 1928 (con bibl.); J. Wagenmann, Entwicklungsstufen des ältesten Mönchtums, Tubinga 1929; U. Berlière, L'ordine monastico (trad. it.), Bari 1928; G. Morin, L'idéal monastique, 4ª ed., Parigi 1929; H. Koch, Quellen zur Geschichte der Askese u. d. Mönchtums in d. alt. Kirche, Tubinga 1933. V. inoltre: ascetismo, nonché gli articoli relativi ai diversi ordini religiosi e ai personaggi ricordati nel testo.