Monarchia, diarchia, tetrarchia
La dialettica delle forme di governo imperiale fra Diocleziano e Costantino
A partire dall’inizio del regno di Diocleziano fino alla definitiva vittoria di Costantino su Licinio nel 324, un importante motivo ideologico della dialettica politica e infine degli aperti conflitti successivi al termine della prima tetrarchia nel 305 è costituito dall’adesione e dall’aspirazione da parte dei personaggi in gioco a differenti forme di assetto del potere imperiale. Lo si può notare a proposito della monarchia, fondata sulla successione dinastica: sin dall’inizio la forma consueta del potere nell’Impero romano e forma di potere rivendicata dallo stesso Diocleziano in conflitto con l’imperatore sopravvissuto del collegio precedente, Carino. Si pensi poi alla tetrarchia – creata da Diocleziano e Massimiano nel 293 d.C., poi riprodotta dopo l’abdicazione dei due Augusti nel 305 e infine riaffermata nella cosiddetta conferenza di Carnunto del 308 – e alla diarchia, che contava il precedente illustre del regno di Marco Aurelio e Lucio Vero, e che troviamo sotto il regno di Diocleziano dopo la nomina di Massimiano a Cesare e poi ad Augusto rispettivamente nel 285 e nel 286, e poi nel regno di Costantino e Licinio, dopo l’eliminazione di Massenzio e Massimino Daia. È opportuno dunque definire la sostanza e la struttura politica e ideologica di queste forme di governo imperiale preliminarmente alla presentazione della storia delle guerre civili costantiniane1.
Il collegio imperiale formato da due imperatori maggiori – gli Augusti – e due imperatori di rango inferiore – i Cesari, destinati a essere loro successori, nominando poi, al momento della loro successione al rango di Augusti, altri due Cesari – che, nella ricerca storiografica a partire dalla fine del XIX secolo, viene definito ‘tetrarchia’2, è una forma di potere costituita da elementi che, in parte, hanno alle spalle una storia, ma che, nel loro coordinarsi in sistema, non ha precedenti e nemmeno imitazioni successive nell’Impero romano. A partire da Marco Aurelio e Lucio Vero c’erano stati collegi imperiali formati da due o anche tre Augusti, come nel breve periodo fra il 209 e il 211 con Settimio Severo e i figli Caracalla e Geta. Una coppia di Augusti è testimoniata frequentemente nel III secolo: Settimio Severo e il figlio Caracalla dal 198 al 209; Caracalla e Geta dal 211 al 212; Pupieno e Balbino nel 238; Filippo e il figlio Filippo iunior dal 247 al 249; Decio e il figlio Erennio Etrusco nel 251; Treboniano Gallo e il figlio di Decio, Ostiliano, sempre nel 251; Valeriano e il figlio Gallieno dal 253 al 260; infine Caro e il figlio Carino nel 283 e Carino e il fratello Numeriano nel 284. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di una coreggenza di padre e figlio, in cui spesso il figlio è stato Cesare prima di essere nominato Augusto. Il più delle volte, questa coreggenza non comportava una chiara spartizione dei compiti e ancor meno una spartizione di territori: il figlio, che era spesso di età molto giovane, qualche volta seguiva il padre anche nelle spedizioni militari, ma, a quello che si sa, senza un ruolo significativo. C’è però un’eccezione importante. Nella coppia di Augusti Valeriano-Gallieno, il primo opera in ambito orientale, impegnato soprattutto contro i persiani, ma anche contro i goti che avevano invaso la Grecia e l’Asia Minore, mentre al secondo viene affidato il comando degli eserciti occidentali ed egli combatte personalmente in Gallia contro franchi e alemanni. Questa partizione territoriale non viene probabilmente progettata come permanente. Dopo la cattura di Valeriano da parte dei persiani, Odenato, il signore di Palmira, al quale Gallieno affida il controllo della parte orientale dell’Impero, non viene associato all’Impero ma riceve solo il titolo di corrector totius Orientis, e i titoli delle sue vittorie sui persiani vengono assunti dallo stesso Gallieno. Il figlio di Valeriano, dunque, dopo la cattura e poi la morte del padre, mantiene formalmente la totalità del potere imperiale, anche se di fatto l’Impero era diviso in tre parti, in quanto anche le Gallie, a partire dal 260, costituivano una parte scissa dal corpo dell’Impero. Una partizione territoriale del potere imperiale è testimoniata anche con Caro, Carino e Numeriano, immediatamente prima di Diocleziano: al figlio di Caro, Carino, con il titolo di Cesare, viene affidato il governo delle Gallie, con poteri analoghi a quelli di un Augusto, secondo la Historia Augusta3.
L’associazione al potere del proprio successore designato con il titolo di Cesare era un fenomeno comune fin dagli inizi dell’Impero. Anche nel III secolo è una scelta frequente e, a quel che si conosce, generale quando esisteva un figlio legittimo dell’imperatore in carica. Degli imperatori dei quali non sono conosciuti eredi maschi, la successione non segue un progetto imperiale, ma viene decisa in genere dagli eserciti, attraverso l’eliminazione violenta dell’imperatore in carica e l’acclamazione di un successore. Non si può naturalmente sapere quali sarebbero state le scelte di questi imperatori se fossero morti di morte naturale e avessero potuto programmare la loro successione. Nel III secolo è attestato un solo caso di adozione da parte dell’imperatore in carica, quella di Ostiliano, il figlio di Decio, da parte del successore di quest’ultimo, Treboniano Gallo. Il glorioso esempio degli imperatori adottivi del II secolo (che non avevano però eredi maschi) non viene imitato nel III prima, appunto, della prima tetrarchia. Il sistema tetrarchico, con la divisione del potere fra due Augusti e due Cesari adottati dagli Augusti e destinati alla successione, ha precedenti, sotto qualche aspetto, in ben pochi assetti del potere imperiale, che sono messi in evidenza da Frank Kolb4: sostanzialmente quello della compartecipazione al potere dei due fratres Marco Aurelio e Lucio Vero, e quello dell’affidamento delle Gallie con il titolo di Cesare a Carino da parte del padre Caro. Ci sarebbe stato, come si è visto, anche l’esempio di Valeriano e Gallieno, ma l’infelice esito di questo esperimento di divisione del potere fra due Augusti lo rendeva improponibile come modello.
La sostanziale novità del sistema tetrarchico rispetto alle tendenze del tempo ha sollevato fin dalla metà del XIX secolo, nel libro di Jakob Burckhardt Die Zeit Constantins der Grossen, la questione se si sia trattato, fin dal suo inizio, di un progetto consapevolmente perseguito, con il quale Diocleziano si poneva come scopo, al di là delle necessità militari e politiche contingenti, la soluzione dell’instabilità del potere imperiale che aveva caratterizzato tutto il III secolo. Come spesso accade, si sono costituite a questo proposito posizioni polarmente opposte: William Seston e, in tempi più recenti, Timothy Barnes hanno sostenuto che le scelte di compartecipazione del potere, prima con un altro Augusto e poi con due Cesari, così come anche la scelta dell’abdicazione e della continuità del sistema di potere costituito, sono primariamente reazioni a situazioni militari e politiche del momento, che solo in seguito si stabilizzano e vengono pensate e propagandate come sistema5. Al contrario Kolb ha ripreso con dovizia di argomentazioni, soprattutto sul piano della cronologia, la tesi di Burckhardt dell’edificazione consapevole e coerente di un sistema di potere6.
Per affermazione esplicita di Eutropio7, confermata da testimonianze epigrafiche, che lo presentano come nobilissimus Caesar, Massimiano fu associato all’Impero da Diocleziano come Cesare, e la sua prima impresa fu quella di sconfiggere in Gallia il movimento dei Bagaudae. Questi, dalle fonti – Aurelio Vittore, Eutropio e il panegirico di Mamertino in onore di Massimiano del 289 – sono presentati come contadini e pastori che si improvvisano soldati8, ma possono più probabilmente essere considerati un movimento militare fondato sul reclutamento locale nelle campagne che si richiamava, nel nome stesso, alla tradizione celtica, e che, in una regione in cui, poco più di un decennio prima, era stato definitivamente sconfitto un movimento separatista della portata dell’imperium Galliarum, era potenzialmente molto pericoloso9. Giustamente Kolb richiama a questo proposito l’analogia rispetto all’affidamento a Carino con il titolo di Cesare, da parte del padre Caro, del governo della Gallia. Il fatto che l’onomastica completa di Massimiano (Marcus Aurelius Valerius Maximianus) rechi il gentilizio di Diocleziano, Aurelius Valerius (Gaius Aurelius Valerius Diocletianus), fa pensare a un’adozione da parte di quest’ultimo, che richiama l’adozione del proprio successore come Cesare, che caratterizza i primi due secoli dell’Impero e che, come si è detto, pare un fenomeno quasi scomparso nel III secolo. Kolb, pur ammettendo, come avviene in generale nella storiografia, l’adozione di Massimiano da parte di Diocleziano, cerca di negare che questa abbia comportato l’istituzione di un rapporto pater-filius e suggerisce invece una continuità con l’appellativo di frater, come segno di una sostanziale parità fra i due Augusti, che compare già nel panegirico di Mamertino del 289, al quale si è già accennato. L’adozione romana non può però che comportare l’inserimento dell’adottato come filius nella famiglia dell’adottante, che diventa appunto il suo nuovo pater. L’adozione di un frater non è pensabile nella logica del diritto romano. La nomina a Cesare di Massimiano, in una data controversa del 285, sembra collocarsi dunque nel solco di una tradizione consolidata, seppure praticata sporadicamente nel III secolo. La prospettiva comunque cambia rapidamente nell’anno successivo. L’elevazione poi di Massimiano ad Augusto probabilmente l’anno dopo, sebbene se ne possano discutere le ragioni, non è neppure essa in sé un’innovazione: si è richiamato il fatto che questo accade frequentemente con i Cesari del III secolo.
Il rapporto fra i due Augusti è avvolto in ogni forma di comunicazione con il pubblico, letteraria, numismatica, monumentale, da una geniale costruzione ideologica che fa perno sui due titoli che vengono riconosciuti agli imperatori, Iovius ed Herculius. L’argomento, come è noto, è da lungo tempo oggetto di attenzione da parte della storiografia. La forma stessa degli appellativi porta a escludere che essi sottendano un qualche grado di identificazione dei due imperatori con gli dei di cui portano il nome: Diocleziano e Massimiano non si pensano né sono rappresentati come l’incarnazione di Giove ed Ercole, anche se la loro presenza e la loro azione rendono visibile la presenza e l’azione delle due divinità nel mondo. Nel panegirico indirizzato a Massimiano nel 291, richiamando l’arrivo dei due imperatori in Italia, Diocleziano viene descritto come «Giove visibile e presente», Massimiano invece come «l’imperatore Ercole»10. Giove ed Ercole non sono però solamente gli dei protettori, conservatores Augustorum: i due imperatori ne possiedono le virtù e ne riflettono le persone e i ruoli. Qual è allora il contenuto del rapporto con le divinità richiamato dagli appellativi? Nella letteratura contemporanea qualche sporadico accenno alla questione si trova nei panegirici latini. Nel panegirico indirizzato a Massimiano nel 291, al quale si è appena accennato, i termini sembrano alludere a una filiazione divina degli imperatori. L’oratore vi afferma che la discendenza divina degli imperatori si manifesta nei nomi e ancor più nelle virtù («vos dis esse genitos et nominibus quidem vestris sed multo magis virtutibus approbatis»)11. Nel panegirico pronunciato nel 297 o 298 per il restauro delle scuole di Augustodunum (Autun) da un retore di nome Eumenio, si fa riferimento al fatto che, per la vicinanza del Campidoglio cittadino alle scuole, oltre a Minerva anche Giove padre e Giunone placata potranno udire le lodi degli Iovii e degli Herculii. In questo contesto il richiamo a Giunone può far pensare alla sua ira, poi placata, per l’adulterio commesso da Giove con Alcmena, dal quale nacque appunto Ercole. Giove è il capostipite di entrambe le stirpi, Giovia ed Erculia, direttamente o attraverso Ercole, è pater di Ercole come del Giovio Diocleziano12. Nello stesso panegirico, in relazione al Cesare Costanzo, ne viene richiamato il padre adottivo Massimiano Erculio e l’avo Ercole («avi Herculis et Herculii patris»), mettendo in evidenza come ci fosse una linea genealogica diretta fra Ercole e Massimiano, che si era estesa dopo l’adozione, anche a Costanzo13. In questo clima ideologico si spiega forse l’affermazione, che appare molto più esplicita di quella discretamente affacciata nei panegirici, di una sua origine divina, dal dio Marte, che Lattanzio attribuisce a Galerio, accostandolo dunque a Romolo14.
Kolb sostiene la tesi secondo cui negli appellativi Giovio-Erculio non si rifletterebbe, come ampiamente sostenuto nella storiografia, la distanza gerarchica fra i due imperatori, la cui eguaglianza viene esaltata nei panegirici anche in rapporto alle figure divine dalle quali discendono15. Bisogna premettere che nei panegirici dell’epoca che si possiedono, indirizzati a Massimiano e al suo Cesare Costanzo o comunque, nel caso del panegirico per il restauro delle scuole di Augustodunum, collocati sotto il loro regno, si può pensare che non sia riprodotta un’ideologia tetrarchica per così dire neutrale, bensì un’ideologia in cui sono valorizzati e messi in luce gli aspetti che esaltano il ruolo di Massimiano e la sua funzione ‘erculea’. La rappresentazione dunque della sostanza e delle prerogative degli dei Giove ed Ercole, e di quella degli Augusti che in qualche misura le riflettono, va letta come più ‘chiaroscurata’ e, in qualche punto, più ambigua di come potrebbe apparire a prima vista. Ci sono certamente passi in cui viene celebrata l’uguaglianza dei due imperatori. Il panegirico a Massimiano del 289 esalta gli imperatori come «ambedue generosissimi, ambedue fortissimi e per questa vostra somiglianza sempre più concordi e, cosa che è più certa di ogni consanguineità, fratelli nelle virtù»16. Per lo stesso panegirista i due imperatori governano in piena parità di poteri come i due re spartani, discendenti da Eracle17. La collaborazione tra i due dei e i benefici che da essa trae Giove in occasione della guerra contro i Giganti viene richiamata dallo stesso panegirista, accentuando i meriti di Ercole: a lui si deve gran parte della vittoria di Giove, al punto che il premio che egli ottiene – di essere accolto fra gli dei dell’Olimpo – è almeno pari al ruolo che ha avuto nel restituire loro il cielo («provò che aver ricevuto dagli dei il cielo non era cosa maggiore che averlo loro restituito»)18. La vittoria di Giove sui Giganti è dovuta, nel mito, soprattutto ai fulmini che egli stesso scagliò contro di loro, come è riconosciuto nella stessa monetazione di Massimiano, in cui Giove è rappresentato come folgoratore nel conflitto contro i Giganti. In termini analoghi, poco prima il panegirista aveva detto che Massimiano, ricevendo il potere da Diocleziano, con la sua azione aveva reso un beneficio superiore a quello ricevuto19. Questa esaltazione della parità dei due Augusti, e della collaborazione paritaria tra i due dei ai quali essi si richiamavano, non può tuttavia mascherare o nascondere del tutto, nei panegiristi che celebrano Massimiano, alcune verità evidenti, circa la superiorità di Giove su Ercole e quella di Diocleziano su Massimiano. È significativo lo sviluppo del secondo panegirico a Massimiano, in cui l’oratore, dopo aver richiamato l’espressione virgiliana, «tutto è pieno di Giove» (Iovis omnia plena)20, e dopo aver commentato che Giove è signore dello spazio celeste, ma è infuso nel mondo, introduce un tema dichiaratamente encomiastico, dichiarando la presenza ubiquitariamente paritaria di entrambi gli imperatori e concludendo con un’affermazione dello stesso registro: «che meraviglia c’è che, poiché il mondo può essere pieno di Giove, esso possa essere pieno anche di Ercole?»21. Anche in questi panegirici, la regalità appartiene a Giove, non a Ercole: se talora le sfere di azione sembrano distinte, a Giove il cielo, a Ercole la terra, Giove è rector, Ercole solo pacator, senza che a lui vengano attribuite le caratteristiche di regalità e di pacatio orbis che sono, per esempio, di Augusto. Non sorprende dunque che in qualche documento Giove possa essere associato anche a Massimiano e che il suo potere possa essere fatto discendere dal dio dal quale, in ultima analisi, deriva ogni potere regale. I panegiristi d’altronde non possono nascondere, per quanto si sforzino di evitare di porlo in primo piano, il fatto che il potere imperiale era stato concesso a Massimiano da Diocleziano, che rimaneva dunque in una posizione di superiorità come auctor imperii. Anche in questo caso è significativa l’elaborazione del discorso nel panegirico del 289. Massimiano riceve un beneficio da Diocleziano con la chiamata a condividere il potere, al quale egli risponde con un beneficio di pari – o addirittura superiore – valore con la sua azione. Questo è evidentemente un tratto di adulazione encomiastica, che non può essere fondato sull’ideologia politica: un oratore non orientato in senso favorevole a Massimiano, per non dire legato a Diocleziano, non avrebbe mai presentato in questo modo i rapporti fra i due imperatori. Di più: l’oratore afferma che Diocleziano prega Massimiano di assumere il potere, in quanto legato da una parentela dei loro numina «essendo tu stato invocato ad assumere il compito di restaurare lo Stato dalla divinità a te imparentata [a cognato tibi numine]». La parentela con Massimiano era stata però creata da Diocleziano con l’adozione del collega, e comunque il riconoscimento del suo carattere erculio e della parentela Giovio-Erculia, come di fatti che non potevano essere ignorati, proveniva da Diocleziano stesso dopo la nomina di Massimiano ad Augusto e frater. Una lettura dei rapporti diversa e vicina a quella dioclezianea si può trovare in un rilievo dell’arco di Galerio a Tessalonica, in cui vengono celebrate le vittorie del Cesare sui sasanidi nel 297/298. I quattro tetrarchi vi sono rappresentati insieme. I due Augusti siedono su un globo e sono incoronati da una Vittoria che vola attorno a loro. Il solo Diocleziano però viene rappresentato frontalmente e con lo scettro nella mano sinistra, diversamente da Massimiano: la differenza di rango è dunque chiaramente evocata22.
I panegiristi del periodo diarchico, dal 286 al 293, più volte richiamati, presentano questo sistema come perfetto e del tutto adeguato alle necessità politiche e militari del momento, né ne lasciano intravvedere future evoluzioni, evocando la questione della successione ai due imperatori. Diocleziano non aveva eredi maschi, a differenza di Massimiano, che aveva invece un figlio, Massenzio, il cui futuro glorioso era stato richiamato in termini vaghi dal panegirico di Mamertino del 289. I due imperatori si erano incontrati a Milano nel 291 e forse in quell’occasione si era discusso anche della successione e delle aspirazioni di Massimiano per il figlio Massenzio. Una decisione non viene evidentemente presa in quell’occasione. La diarchia restava apparentemente, per il momento, un sistema perfetto.
Il sistema diarchico compare nella storia e nella propaganda costantiniana per un periodo relativamente breve – dopo la vittoria di Costantino e Licinio sulla coppia di tyranni Massenzio e Massimino Daia nel 312/313 – e di stabilità minata da una parte dall’intenzione di ricostruire in qualche modo un sistema tetrarchico, dall’altra dall’idea di muovere decisamente verso un sistema dinastico. La diarchia Costantino-Licinio, come si vedrà, ha caratteri molto diversi da quella Diocleziano-Massimiano e nasce anzi dal disfacimento del sistema di potere e dell’ideologia politica e religiosa della tetrarchia. Costantino è riconosciuto dal Senato come l’Augusto maggiore e offre in moglie al collega la sorella Costanza. Tuttavia il potere di Licinio non discende dalla volontà di Costantino, come affermerà Eusebio dopo il 324, né ha un’origine comune. Costantino e Licinio si presentano come la coppia di buoni sovrani che hanno eliminato i due tiranni Massenzio e Massimino, ripristinando la libertà e la legalità, operando separatamente in Occidente e in Oriente. Nella celebrazione cristiana, della quale è autore Eusebio di Cesarea, nel discorso per l’inaugurazione della basilica di Tiro, composto in un periodo di concordia fra gli imperatori, presumibilmente nel 314/315, entrambi in modo paritario sono celebrati come i due imperatori cari a Dio (θεοφιλεῖς), nei quali culmina il Suo intervento nella storia, che era cominciato dai patriarchi giudaici, con la punizione dei persecutori23 e il definitivo riconoscimento imperiale della religione cristiana.
Nel 293 è creato il sistema tetrarchico con la nomina di due Cesari, Costanzo e Galerio, l’uno Erculio, l’altro Giovio. I due Cesari vengono adottati dagli Augusti, sono dunque loro filii, e loro eredi al trono, ma anche loro generi, dal momento che ne sposano le figlie. Viene dunque creata una famiglia imperiale, divisa in due rami, ma con un’origine comune, da cui sono escluse, a differenza delle famiglie imperiali precedenti, le donne, alle quali non viene riconosciuto alcun titolo imperiale. Si è visto che nei due panegirici indirizzati a Massimiano – anche in quello pronunciato dopo l’incontro dei due Augusti a Milano nei primi mesi del 291 – non ci sono allusioni a questo sviluppo, né al problema della successione, che presumibilmente era ben presente ai due imperatori, data anche la frequenza nel III secolo, per il timore di usurpazioni, di una sollecita proclamazione degli eredi al trono attraverso la loro nomina a Cesari. Si può immaginare, anche se non se ne hanno attestazioni, che restassero aperti nel rapporto fra i due imperatori il problema di Massenzio e quello dello squilibrio fra la situazione di Massimiano, che appunto aveva un figlio che poteva succedergli, e di Diocleziano, che invece non aveva figli maschi. Perché la questione viene risolta solo nel 293? Le posizioni degli studiosi sull’argomento sono divise: ci sono autori, come Seston, che ritengono che ci siano in questo momento necessità militari urgenti che fanno propendere per questa soluzione; altri, come Kolb, che ritengono invece che questo non fosse un momento particolarmente preoccupante da tale punto di vista e che quindi la scelta della nomina dei Cesari sia da considerare finalizzata a stabilizzare il sistema di potere in una prospettiva più ampia24. A quanto si sa, la situazione militare non era difficile allo stesso modo – in quel momento – nelle due partes imperii. In Britannia durava dal 286 o 287 l’usurpazione di Carausio, contro il quale era fallito un tentativo di ripristinare l’ordine da parte di Massimiano25. Ci si può chiedere, con Kolb, per quale ragione contro di lui un Cesare non fosse stato nominato prima del 293, ed è una domanda alla quale, allo stato della documentazione disponibile, non si può dare risposta26. In Oriente l’aggressività del regno sasanide si manifesta, sorprendendo i romani e il loro alleato armeno, con il re Narseh, che invade l’Armenia nel 296. La rivolta egiziana di L. Domitius Domitianus e Aurelius Achilleus, contro la quale si impegna personalmente Diocleziano, fa presupporre un contemporaneo impegno di Galerio contro i persiani, e potrebbe dunque essersi verificata in quegli stessi anni27. Aurelio Vittore ed Eutropio mettono in relazione la nomina dei due Cesari con un complesso di difficoltà militari interne ed esterne: l’usurpazione di Carausio in Britannia, l’aggressività persiana sul confine orientale, quella dei quinquegentani in Mauritania e la ribellione di Achilleus in Egitto28. Ma il nesso cronologico fra questi avvenimenti e la nomina dei Cesari è espresso in termini generici e non li collega puntualmente al 293. Si può dare ragione a Kolb, dunque, sul fatto che la decisione di nominare i Cesari non sia, almeno principalmente, determinata da ragioni contingenti. Il testo più vicino al 293, il panegirico al Cesare Costanzo del 297 o 298, richiama come motivazioni della scelta da una parte la preoccupazione di un più efficace governo dell’Impero sul piano militare (mettendo però in rilievo che in quel momento la situazione ai confini era consolidata, tranne il caso della Britannia, in cui però l’offensiva decisiva era già stata progettata), dall’altra la volontà di trasmettere il potere ai filii, i Cesari destinati alla successione29. La rappresentazione della situazione militare dell’Impero potrebbe essere ottimistica, ma nella sostanza il panegirista potrebbe cogliere a grandi linee le motivazioni della nomina dei Cesari, che sono di carattere generale e non legate a situazioni contingenti: una più sicura gestione della situazione militare, data la pluralità dei fronti aperti, e la definizione della successione. Le ragioni per le quali queste esigenze portano alla nomina dei Cesari nel 293 e non in un altro momento, allo stato della documentazione disponibile, sfuggono. D’altronde, come osserva giustamente Kolb, se la cooptazione di nuovi reggenti fosse dovuta solo a necessità militari, sarebbero più opportunamente stati nominati altri due Augusti.
L’investitura dei Cesari avviene con ogni probabilità congiuntamente il 1° marzo del 293, anche se su questa contemporaneità sono stati avanzati dei dubbi30. Il panegirico al Cesare Costanzo celebra già nel 297 o 298 il 1° marzo come la data della proclamazione di entrambi i Cesari31. Almeno formalmente, i due Cesari possedevano allo stesso modo degli Augusti gli elementi essenziali del potere imperiale, l’imperium e la tribunicia potestas, avevano parte nelle proclamazioni di vittoria e nei cognomina ex virtute, avevano diritto all’allocuzione dominus noster, soprattutto avevano la prerogativa di condurre spedizioni militari importanti e di fregiarsi del titolo delle vittorie conseguite. È incerta l’estensione delle loro competenze sul piano civile. Si può pensare che disponessero in qualche misura del diritto di emanare editti, lo ius edicendi32, anche se questi, come i documenti della tetrarchia, erano presentati come disposizioni collettive di tutto il collegio imperiale. Probabilmente non avevano accanto a loro un prefetto del pretorio. Un’iscrizione ritrovata a Brescia33 è una dedica al Cesare Costanzo dei due prefetti del pretorio in carica, uno dei quali è Hermogenianus. il giurista autore sotto Diocleziano del Codex Hermogenianus, il secondo invece è Asclepiodotus, che riportò la vittoria decisiva contro l’usurpatore Allectus, nella spedizione condotta dal Cesare Costanzo. Uno dei due prefetti dunque opera in Oriente, l’altro in Occidente. Il numero di due prefetti attestato nell’iscrizione citata sopra esclude che, come qualche studioso aveva ipotizzato, anche i Cesari della prima tetrarchia avessero alle loro dipendenze dei prefetti del pretorio. L’ipotesi più accettabile è, al momento, quella formulata da André Chastagnol, cioè che potessero essere mandati a collaborare con un Cesare il prefetto del pretorio dipendente dall’Augusto Massimiano o forse uno dei due dipendenti da Diocleziano.
La subordinazione dei Cesari agli Augusti era manifesta però nel titolo di figli degli Augusti, filii Augustorum, destinati, come lo stesso titolo rende evidente, alla successione. La novità della decisione di Diocleziano e Massimiano, che viene ribadita nel 305, al momento dell’abdicazione dei due Augusti in carica, e anche nel 308 nella cosiddetta conferenza di Carnunto, sta essenzialmente nel fatto che i due Cesari che vengono adottati come filii dagli Augusti sono personaggi in età adulta e di provata esperienza, soprattutto sul piano militare, che, sia pure in una posizione subordinata, possono effettivamente assolvere a impegni importanti e collaborare concretamente alla tenuta dell’Impero.
Il sistema tetrarchico, come lo abbiamo sommariamente descritto, probabilmente proprio per la sua novità e dunque per la difficoltà a essere accettato senza resistenze è oggetto di un’operazione propagandistica su vasta scala, tendente a esaltare l’unità e la perfetta concordia dei quattro reggenti34. I nomi dei quattro imperatori sono associati nei media più comuni e quindi destinati a un pubblico ampio e generico, come i militari – qualunque sia la regione in cui sono collocati – o gli editti, ovunque siano affissi; le monete emesse nelle zecche di ciascun imperatore recano l’effigie e il nome anche degli altri colleghi; in molti luoghi dell’Impero vengono costruiti, in siti centrali e frequentati delle città, monumenti celebrativi della tetrarchia, con statue e iscrizioni di ciascun imperatore35 o, come nel caso delle statue dei tetrarchi della Biblioteca Vaticana e di S. Marco a Venezia, con gli imperatori raffigurati abbracciati a coppie. Ciò che impressiona nell’iconografia tetrarchica, sia in quella monetale, sia in quella monumentale, è la sostanziale identità fisica delle persone imperiali raffigurate. Il messaggio che ne promana è che la condivisione del potere imperiale non indebolisce, ma anzi rafforza l’unitarietà del governo e del comando. Questa straordinaria compattezza del collegio imperiale è fondata, in tale rappresentazione, non su un meccanismo istituzionale, ma su una straordinaria qualità morale che accomuna i quattro imperatori: la concordia e l’esclusiva attenzione al bene dello Stato. È significativa, un secolo dopo, la memoria della tetrarchia presso il cristiano Orosio: «un consorzio di molti imperatori, fondato sulla reciproca tolleranza [patiens consortium], una grande concordia e un potere condiviso […] che ora è sollecito al bene comune»36. Orosio non presta attenzione alla tetrarchia come sistema, che definisce semplicemente un consorzio di molti imperatori, ma alle doti morali degli imperatori che la compongono, doti che ne fondano il successo, altrimenti impensabile. Analogo è, in un tempo non molto distante, l’elogio delle virtù e della dedizione allo Stato di tutti e quattro gli imperatori nella Historia Augusta37.
Al di là della concordia e dell’unità dei quattro imperatori esaltata dalla loro propaganda, contribuiva in maniera essenziale alla compattezza del collegio una precisa gerarchia, che aveva il suo vertice in Diocleziano. Lo stesso appellativo di Giovio, richiamandosi al dio supremo, dal quale proveniva ogni potere regale sulla terra, malgrado – come si è visto – gli sforzi dei panegiristi di Massimiano di minimizzarne il significato, indicava un’indiscutibile superiorità sull’Augusto collega e, a maggior ragione, sui Cesari. Lo riconosce in fondo anche un contemporaneo ostile come Lattanzio, quando, alla fine del regno di Diocleziano, attribuisce all’influenza decisiva di Galerio sul suo Augusto la responsabilità di due scelte fondamentali come la persecuzione dei cristiani e l’abdicazione e la nomina dei nuovi Cesari: le decisioni si impongono quando, almeno formalmente, è Diocleziano ad accettarle e a renderle esecutive. Nella narrazione di Lattanzio la decisione della persecuzione viene semplicemente comunicata per lettera a Massimiano e a Costanzo, che non vengono nemmeno consultati preventivamente perché, come osserva l’autore, «il loro parere, pur su questioni di tale importanza, non era atteso»38. Per Lattanzio, Massimiano obbedisce senza riserve, mentre Costanzo lascia distruggere gli edifici di culto cristiani, ma non prende provvedimenti che tocchino l’incolumità fisica delle persone. Prescindendo dalla volontà, che è di Lattanzio, di minimizzare le responsabilità del padre di Costantino nella Grande persecuzione (ma Eusebio di Cesarea le esclude del tutto), si potrebbe pensare, ammettendo che la notizia dell’autore cristiano non sia un’invenzione apologetica, che già nelle lettere inviate ai funzionari per l’invio degli editti imperiali Costanzo ne avesse in qualche modo offerto una lettura mitigata. Qualche anno dopo, nell’epistola inviata dal prefetto del pretorio di Massimino, Sabino, per ordine evidentemente dell’imperatore, ai governatori provinciali per trasmettere loro l’editto di Galerio39, viene fornita una lettura non del tutto conforme al testo originale dell’editto, con accenti e reticenze tipiche dell’atteggiamento di Massimino nei confronti dei cristiani. Il Cesare Costanzo può aver assunto un atteggiamento in qualche misura analogo nell’accogliere e diffondere nel territorio da lui governato gli editti di Diocleziano sulla persecuzione dei cristiani, ponendo l’accento, per esempio, sul fatto che le sanzioni contro le persone dovevano essere applicate solo come extrema ratio, di fronte a resistenze insuperabili e provocatorie. Se non lo avesse fatto, ci sarebbero stati governatori che avrebbero potuto, senza ricevere obiezioni, applicare alla lettera gli editti e dare ai provvedimenti anticristiani, anche in Gallia, un’applicazione dura come ebbero altrove. Anche al momento della nomina dei nuovi Cesari nel 305, secondo la narrazione di Lattanzio, la decisione viene presa da Diocleziano e Galerio, senza coinvolgere gli altri due membri della tetrarchia. Galerio anzi risponde, di fronte alla volontà di Diocleziano di decidere «con il parere concorde di tutti», che non c’è bisogno di alcuna consultazione, in quanto i due tetrarchi d’Occidente avrebbero dovuto in ogni caso accettare le decisioni prese a Nicomedia da Diocleziano insieme a lui stesso. Lattanzio esagera il ruolo di Galerio fino a rendere quasi caricaturale la debolezza di Diocleziano nei suoi confronti. Sembra addirittura capovolgere le posizioni dei due imperatori, dal momento che, alla fine, attribuisce a Galerio la difesa del sistema tetrarchico come era stato pensato da Diocleziano, mentre l’Augusto seniore avrebbe anche accettato una tetrarchia formata da quattro Augusti. Pur con queste evidenti deformazioni, la narrazione di Lattanzio potrebbe riflettere la situazione reale dei rapporti tetrarchici, attribuendo un valore decisivo alla decisione presa da Diocleziano, sia pure sotto l’influenza di Galerio. Il Cesare occidentale nominato in questa occasione, Severo, non era certamente, d’altronde, un personaggio gradito a Massimiano, come dimostrerà il seguito degli avvenimenti, e sembra quindi essere una scelta che l’Augusto d’Occidente subisce piuttosto che condividerla. Abbiamo anche altri esempi importanti della preminenza di Diocleziano nel governo dell’Impero, anche per quanto riguarda territori che non gli sono sottoposti direttamente. Il famoso editto di condanna dei manichei è contenuto in un rescritto al proconsole d’Africa Iulianus. L’editto è inviato a nome dei tetrarchi, ma è emanato ad Alessandria, dunque da Diocleziano, che riceve una relazione e dà disposizioni sul trattamento penale dei manichei a un alto funzionario della parte di Impero soggetta a Massimiano40. La tradizione storiografica è sostanzialmente unanime nel riconoscere questa preminenza a Diocleziano. L’imperatore Giuliano offre di questo rapporto una descrizione icastica: gli imperatori della tetrarchia «si tenevano le mani e avanzavano non di pari passo ma come un coro intorno a Diocleziano, gli uni volendo fargli come da guardie del corpo e corrergli davanti, mentre egli lo proibiva non volendo prevaricare»41.
Una scelta essenziale per fondare la continuità del sistema può certamente essere considerata quella dell’abdicazione dei due Augusti nel 305. La questione dibattuta è, anche in questo caso, se si sia trattato di una scelta programmata da tempo o se essa sia stata invece provocata da situazioni impreviste e contingenti. Le fonti cristiane, come Eusebio di Cesarea e Lattanzio, attribuiscono la scelta a una malattia42; Eutropio, invece, come l’imperatore Giuliano, dà la responsabilità alla vecchiaia di Diocleziano43 – cosa che non è smentita dal panegirico indirizzato a Massimiano e Costantino nel 307, che nega semplicemente che questa giustificazione possa valere anche per l’imperatore Erculio44. La vecchiaia come motivazione dell’abdicazione non esclude certo una scelta preordinata e programmata. La malattia invece potrebbe almeno aver accelerato la decisione, ed è difficile pensare che la lunga descrizione da parte di Lattanzio dell’evoluzione della malattia nel corso di oltre un anno sia del tutto inventata. L’edificazione del palazzo dioclezianeo di Spalato come luogo di ritiro per l’imperatore, la cui data di progettazione non può essere fissata, ma che plausibilmente risale a qualche anno prima del 305, testimonia comunque a favore di una decisione lungamente maturata e posta presumibilmente in relazione con le celebrazioni del ventennale dell’Impero, suo e del collega Massimiano: date che erano state sincronizzate, come anche quelle del decennale dei Cesari.
La riproduzione dopo l’abdicazione di un sistema tetrarchico identico al primo, in cui ci fossero cioè due Augusti e due Cesari, che erano adottati come successori, rifiutando una successione dinastica, era anch’essa programmata o, come qualcuno ha affermato, addirittura un dogma? Nella narrazione di Lattanzio è Galerio ad affermare la perpetuità del sistema: «Rispose [Galerio] che dovesse essere conservato in eterno l’assetto del potere che egli [Diocleziano] aveva creato, che cioè vi fossero due regnanti maggiori, che detenessero il sommo potere, e due minori, che fossero loro di aiuto»45. Lo stesso Lattanzio lascia intendere che al momento vi erano altre soluzioni in gioco: quella di quattro Augusti e quella che prendeva in considerazione la nomina a Cesari dei figli di Massimiano e di Costanzo, Massenzio e Costantino, proposte che egli attribuisce addirittura a Diocleziano e che vengono respinte da Galerio. È difficile pensare che la soluzione dei quattro Augusti fosse sostenuta da Diocleziano, perché di fatto sopprimeva il sistema di successione creato da lui stesso nel 293 e lasciava indefinita e condizionata dalla situazione e dalle scelte di ognuno dei quattro la questione della successione. Di fatto questa è la situazione che viene creata da Galerio nel 310, quando riconosce anche a Costantino e a Massimino, oltre che a sé stesso e a Licinio, il titolo di Augusto. D’altra parte il principio dinastico continuava ad aleggiare all’interno del sistema tetrarchico e non era limitato solo al figlio di Costanzo e a quello di Massimiano, cioè a Costantino e Massenzio. L’autore del panegirico a Costanzo Cesare nel 297, prospettando il futuro delle due stirpi al potere, i Giovii e gli Erculii, lascia incerto se la continuità debba essere prodotta dalla successione dinastica o dall’adozione, accennando all’augurio che le stirpi future siano consacrate agli imperatori provenienti da queste stirpi: «Chiediamo […] che siano consacrate a coloro che educate o che educherete»46. Il verbo educare appare però più adeguato all’educazione prestata ai figli o comunque a persone adottate in età giovanile, se non addirittura infantile, piuttosto che ai Cesari adottati in età matura della prima e della seconda tetrarchia. L’autore del panegirico sembra dunque pensare per il futuro a una forma di successione più ‘normale’ nelle due stirpi dominanti. Nella seconda tetrarchia, secondo Lattanzio, anche Galerio pensava, dopo il suo ritiro, di nominare Cesare il figlio Candidiano, messo poi a morte da Licinio47. Secondo Eusebio di Cesarea, anche Massimino aveva associato al potere i suoi figli, che vennero poi anch’essi messi a morte da Licinio48.
La tetrarchia realizzata da Diocleziano era una costruzione apparentemente geniale per tentare di risolvere gli annosi problemi dell’instabilità del potere imperiale e della necessità di impegni militari contemporanei in settori del confine lontani fra loro, in cui era opportuno che intervenisse una figura imperiale per evitare il rischio di usurpazioni. Era però, come giustamente osserva Werner Eck, un sistema artificioso, che intendeva sostituirsi a un principio, quello dinastico, giudicato ‛naturale’ da regnanti e sudditi49. La questione dinastica, che era stata occultata prima dell’abdicazione degli Augusti nel 305, si affaccia prepotentemente sulla scena imperiale subito dopo, nel 306. Per sperare che il sistema reggesse, era necessaria anzitutto una personalità carismatica che facesse da perno e fosse capace di tenere a freno ogni tendenza centrifuga50. Dopo Diocleziano, Galerio non fu capace di esercitare efficacemente questo ruolo e andò incontro, nei suoi tentativi di preservare la compattezza del sistema, a clamorosi insuccessi, come il fallimento della sua spedizione contro Massenzio. Il ruolo di Cesare, cioè di imperatore subordinato, se pur destinato alla successione, difficilmente poteva essere accettato da personaggi in età relativamente matura, che si sentivano militarmente forti e importanti per la tenuta dell’Impero, come Costantino e Massimino. Oltretutto Galerio, insieme allo stesso Diocleziano, nel cosiddetto congresso di Carnunto del 308 prende una decisione anomala nella logica tetrarchica, quella di nominare Augusto, in sostituzione di Severo – eliminato da Massenzio e Massimiano – un personaggio che non era mai stato Cesare, Licinio: scelta che non poteva che far esplodere le insoddisfazioni all’interno del collegio e minare alla radice la disciplina tetrarchica. Poco dopo, nel 310, lo stesso Galerio tenta di stabilizzare la situazione riconoscendo il titolo di Augusto anche a Costantino e Massimino, ma così compiendo un altro passo decisivo verso la dissoluzione del sistema.
Come si vedrà in seguito, la proposta di Costantino a Licinio di nominare Cesare Bassiano, prima del conflitto del 316, implica probabilmente un progetto di ricostituzione di una forma tetrarchica, con la nomina di un Cesare anche nella parte governata da Licinio. Dopo l’eliminazione di Massenzio e Massimino, si costituisce una diarchia sostanzialmente equilibrata, prima del 316, anche se, a differenza della diarchia Diocleziano-Massimiano, fondata su differenti principi di legittimazione, che possono essere reciprocamente riconosciuti solo per convenienza politica. Costantino mette in evidenza l’eredità dinastica dal padre Costanzo e, ancor prima, da Claudio Gotico. Licinio era stato invece nominato Augusto da Galerio e Diocleziano nel 308, nell’ambito di un sistema tetrarchico, che era ormai delegittimato dopo la damnatio memoriae di Massimiano e la condanna cristiana della prima tetrarchia – con l’eccezione di Costanzo – come promotrice della persecuzione contro i cristiani. Tuttavia anche nella celebrazione da parte cristiana di Eusebio di Cesarea, presumibilmente prima della riscrittura degli ultimi libri della Storia ecclesiastica dopo la definitiva vittoria di Costantino su Licinio nel 32451, i due imperatori sono celebrati come coppia paritaria di imperatori cari a Dio, che sconfigge i tiranni persecutori. Dopo il conflitto del 316 l’equilibrio si sposta a vantaggio di Costantino, e Licinio deve accettare, nella nomina a Cesari nel 317 dei figli di Costantino – Crispo e Costantino iunior – e di suo figlio Licinio iunior, una logica dinastica, sia pure articolata in due dinastie, nella quale egli ha titoli di legittimità inferiori a quelli del collega52. La scelta cristiana di Costantino accresce le dissimmetrie tra i due colleghi. Costantino diventa naturalmente il potere di riferimento dell’episcopato cristiano in tutto l’Impero e Licinio può giungere a sospettare, come lascia intendere Eusebio, che anche i vescovi dei suoi territori siano legati a Costantino più che fedeli a lui. Questo conflitto anche di ideologie politiche sfocerà poi nell’affermazione costantiniana della monarchia, che riflette sulla terra l’ordine e la volontà di Dio53, del Dio cristiano, con l’affermazione del carattere patrimoniale, per la sua stirpe, del potere imperiale54. È significativo che, verso la fine del regno di Costantino, nel discorso per il suo trentennale, Eusebio di Cesarea richiami implicitamente un confronto tra il sistema di potere costantiniano – un Augusto e i suoi tre figli Cesari – e il sistema tetrarchico: anche il sistema costantiniano è una quadriga, in cui però la concordia, che appare più ‘naturale’ e più fondata, dipende dal fatto che Costantino è l’auriga che guida come eccellenti puledri i suoi figli55.
Per evitare di leggere il conflitto fra Costantino e Massenzio con gli occhi della sua rappresentazione nella propaganda costantiniana immediatamente successiva alla battaglia di ponte Milvio, è necessario richiamare brevemente le mutevoli prospettive dei due futuri contendenti e i loro reciproci rapporti a partire dall’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, nel 305, e dal costituirsi, dunque, della seconda tetrarchia. L’operazione è tutt’altro che facile, dal momento che la letteratura contemporanea, che pure è relativamente abbondante (e non solo quella di parte cristiana), è generalmente orientata in senso filocostantiniano e comunque non conserva tracce di una lettura degli avvenimenti in una prospettiva diversa da quella del vincitore di ponte Milvio. Prospettive differenti, sia pure limitate ai rapporti ufficiali, si possono leggere, invece, nelle testimonianze epigrafiche e numismatiche, raccolte e interpretate con grande accuratezza da Thomas Grünewald56.
Nel 293, al momento dell’elevazione a Cesare di Costanzo Cloro e Galerio, il figlio di Massimiano ed Eutropia può forse essere considerato troppo giovane per essere preso in considerazione come Cesare di Massimiano. Nel panegirico, tuttavia, pronunciato a Treviri alla presenza di Massimiano in occasione del natale di Roma, il 21 aprile 289, il retore Mamertino lascia intravedere questa prospettiva, parlando di Massenzio come di una progenie divina (divinam immortalemque progeniem) che si trova ancora in età scolare sotto la guida di un precettore, ma è già predestinato alla gloria57. Se mai però c’era stata per Massimiano questa prospettiva di successione dinastica, essa tramonta nel 293, quando suo Cesare viene nominato Costanzo Cloro. Al momento, tuttavia, dell’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, nel 305, la presenza e le aspirazioni del figlio di Massimiano, Massenzio, come anche del figlio di Costanzo, Costantino, difficilmente possono essere ignorate. Nella Morte dei persecutori, il retore cristiano Lattanzio, che scrive questa opera informata e acuta, ma fortemente tendenziosa, immediatamente dopo gli eventi del conflitto tra Costantino e Massenzio, nel 314/315, costruisce su questo tema una discussione fra Diocleziano e Galerio, in cui proprio il primo sostiene la legittimità delle aspirazioni dei figli dei due Augusti58. Il sistema tetrarchico, seppure fondato sulla diversa dignità dei due imperatori maggiori, gli Augusti, rispetto ai Cesari, non è necessariamente, nella sua logica, in conflitto con una successione dinastica in casi eccezionali, purché il figlio in questione sia realmente degno della successione. Quando, nel 293, vengono nominati Cesari Costanzo e Galerio, Diocleziano non ha eredi maschi e il figlio di Massimiano, Massenzio, non è ancora abbastanza maturo per la nomina.
Questo principio, vale a dire che la successione dinastica non sia in certi casi in conflitto con la logica tetrarchica fondata, in ultima analisi, sulla scelta del migliore, rappresenta presumibilmente il punto di vista di Costantino dopo la sua acclamazione a imperatore e fino all’accordo con Massimiano, nel 307, ed è accettato da Galerio, anche se, nella narrazione di Lattanzio, non senza grande irritazione59. L’opera di Lattanzio, però, come si è detto, è chiaramente tendenziosa e mette in opposizione fin dal principio, alla luce degli eventi successivi, Costantino e Galerio, il campione prescelto dal dio cristiano e l’ispiratore della persecuzione tetrarchica. Quando il padre di Costantino, Costanzo, invia una lettera a Galerio chiedendo che sia mandato presso di lui il figlio, l’imperatore non lo trattiene e lo lascia partire, nella stessa narrazione di Lattanzio, anche se meditando di tendergli insidie60. Di queste insidie non parla, però, un’altra fonte ben informata sulla prima parte del regno di Costantino fino alla sua vittoria su Licinio, la cosiddetta Origo Constantini imperatoris, il primo dei due testi anonimi pubblicati nel 1636 da Henri Valois e perciò denominato anche Anonymi Valesiani pars prior. Questo testo si limita ad affermare il fatto oggettivo che Galerio rimanda Costantino dal padre, senza insinuare riserve e complotti: tunc Galerius patri remisit («allora Galerio lo rimandò al padre»). Si può leggere dunque al di là della narrazione, di sapore romanzesco, delle insidie di Galerio e dell’avventurosa fuga di Costantino, anche nel testo di Lattanzio61, il dato storico che Galerio acconsente alla richiesta del collega e che Costantino giunge sano e salvo dal padre. Tra l’altro, Costantino non raggiunge il padre a York quando questi è in punto di morte, come narra questa versione della vicenda, ma (se si segue l’Origo Constantini.e il panegirico del 310), a Boulogne, prima che egli ritorni in Britannia, dove tempo dopo morirà. Galerio doveva ovviamente essere consapevole delle conseguenze del permesso dato a Costantino di raggiungere il padre ed essere presentato all’esercito che questi comandava, se Costanzo fosse morto. Nella lettera a Galerio, non si può escludere che Costanzo presentasse, come motivazione per il richiamo del figlio, le sue condizioni di salute e che, quindi, la partenza di Costantino e gli sviluppi che sarebbero potuti derivarne fossero concordati con Galerio.
D’altra parte, Galerio aveva fatto, tempo prima, anche un gesto importante a favore di una candidatura al collegio imperiale del figlio di Massimiano, Massenzio. In una data imprecisata, ma certo dopo il 293, anno della sua nomina a Cesare, Galerio aveva dato in sposa la figlia Valeria Maximilla appunto a Massenzio. Questo matrimonio era avvenuto naturalmente con l’accordo di Massimiano e poneva Massenzio in relazione sia con gli Iovii, Diocleziano e Galerio, di cui il primo era suocero del secondo, sia con gli Herculii, Massimiano e Costanzo, tra i quali esisteva la stessa relazione, ponendolo in evidenza per una futura successione, presumibilmente al suocero stesso Galerio. Si potrebbe, dunque, pensare che, contrariamente alla narrazione di Lattanzio, a Galerio piuttosto che a Diocleziano vada attribuito il sostegno alle candidature di Massenzio e Costantino, al momento dell’abdicazione dei due Augusti della prima tetrarchia. In questo momento, però, la candidatura di Massenzio, come quella di Costantino, per ragioni che non possiamo conoscere interamente, vengono a cadere: i due Cesari, Costanzo e Galerio, diventano Augusti, mentre sono nominati Cesari due personaggi relativamente oscuri, Severo in Occidente e Massimino Daia in Oriente. Le prospettive di Costantino e Massenzio, a questo punto, sono divaricate, ma non necessariamente conflittuali, dal momento che gli ambiti territoriali sui quali esercitano le loro ambizioni sono differenti e per entrambi la logica dinastica è indubbiamente più forte di quella tetrarchica. Costantino ottiene, il 25 luglio 306, di succedere al padre nelle Gallie, forse con il consenso preliminare di Galerio, mentre Massenzio, escluso dalla successione al padre in Italia e in Africa, vede come un ostacolo alle proprie ambizioni sui territori posti sotto il potere del padre, il Cesare divenuto Augusto alla morte di Costanzo Cloro, Severo. Tra Costantino e Massenzio la logica politica porta a un atteggiamento di non ingerenza e forse di benevola neutralità. Massenzio riconosce Costantino quale Cesare, come attestano iscrizioni e documentazione numismatica, e Costantino non interviene nel conflitto fra Massenzio e Massimiano contro Severo. Non molto dopo, Costantino, come si desume dal VI panegirico, pronunciato di fronte a Massimiano e Costantino, nel dicembre 307, è disposto a riconoscere la situazione d’instabilità nella quale l’Italia e Roma sono cadute dopo il ritiro di Massimiano, sotto il governo cioè di Severo62.
Dopo l’eliminazione dell’Augusto di Occidente, Severo, i rapporti fra Massenzio – e soprattutto il padre Massimiano, ora rientrato in gioco dalla sua residenza in Lucania – e Costantino entrano in una fase nuova. Per uscire dall’isolamento, Massenzio e Massimiano ricercano l’accordo con Costantino nella prospettiva di creare un blocco occidentale, che prolunga sostanzialmente la situazione nella prima tetrarchia in Occidente e di applicare il principio dinastico, con il figlio di Costanzo e il figlio di Massimiano al governo dei territori un tempo dei rispettivi padri. L’Erculio rende visita al figlio di Costanzo a Treviri, per trattare i termini di questa alleanza suggellata dal matrimonio di Costantino con la figlia di Massimiano, Fausta. Le prospettive di questo accordo sono, però, differenti per le due parti, come forse è differente anche il progetto di Massenzio rispetto a quello di Massimiano, almeno nella forma che esso assume nel rapporto che si stabilisce in Gallia con Costantino. La testimonianza dell’epigrafia e della numismatica di Massenzio in questo periodo rende evidente che il figlio di Massimiano si arroga il titolo di Augusto, lasciando a Costantino quello di Cesare: un rapporto di dignità che il figlio di Costanzo non può certo accettare63. La monetazione costantiniana di questo periodo ignora infatti completamente Massenzio, che non è menzionato neanche dal panegirico pronunciato nel 307 di fronte a Costantino64. Il panegirista riconosce la superiore autorità di Massimiano Erculio ed esalta la necessità di un suo ritorno al potere in Italia e a Roma, senza fare riferimento alla posizione del figlio, Massenzio. In questa prospettiva, l’intruso appare Massenzio, che è scavalcato dal padre e dal cognato, e su questa linea presumibilmente sembra muoversi Massimiano, che, al suo ritorno a Roma, cerca di strappare la porpora al figlio, secondo la testimonianza contemporanea della Morte dei persecutori di Lattanzio, per poi, dopo il fallimento del tentativo, ritornare presso Costantino in Gallia. È interessante osservare che in questo momento è Costantino che potrebbe uscire da una logica tetrarchica, presentando sé stesso, oltre a Massimiano, come Augusto, mentre a questa logica sembra richiamarsi in qualche misura Massenzio, che, come si è visto, presenta sé stesso come Augusto e Costantino come Cesare.
Lo scenario cambia ancora quando Diocleziano, Massimiano e Galerio si incontrano l’11 novembre 308 a Carnunto, per regolare la situazione occidentale del potere, ormai fuori controllo. Dal convegno emerge una scelta imprevista e, per certi versi, sconcertante. Al posto dell’Augusto Severo, eliminato da Massenzio e Massimiano, è nominato Augusto, senza essere mai stato Cesare, un compagno d’armi di Galerio, Licinio. Rimane al suo posto, come Cesare, Costantino, mentre continua a non essere offerto alcun riconoscimento a Massenzio. Costantino punta presumibilmente, attraverso l’investitura ad Augusto da parte di Massimiano e l’imparentamento con lui, a farsi riconoscere dai colleghi Augusto d’Occidente, assieme a Massimiano, nella prospettiva di succedergli anche in Italia e in Africa, secondo una linea di continuità che lo presenta come figlio di Costanzo e nipote di Massimiano, in quanto questi, al momento della sua investitura a Cesare, ha adottato il padre65. Con ciò le sue ambizioni entrano in aperto conflitto con quelle di Massenzio, che nutre le stesse speranze di successione. Sembra intendere questa situazione l’usurpatore africano acclamato imperatore contro Massenzio, Lucio Domizio Alessandro, che potrebbe sollecitare l’alleanza di Costantino, riconoscendo a lui, come a sé stesso, il titolo di Augusto66. Il convegno di Carnunto, secondo la testimonianza di Lattanzio, elimina il titolo di Cesare per Costantino e Massimino Daia e lo sostituisce con quello di filius Augustorum («figlio degli Augusti»)67. Il titolo, come si ricava dalle attestazioni documentali, si riferisce alla filiazione simbolica da due Augusti, che, come ha messo in evidenza Alexandra Stefan, non possono che essere i due Augusti in carica al momento, cioè Galerio e Licinio. Questa soluzione esclude definitivamente la possibilità che a Massenzio sia riconosciuta, a sostegno delle sue aspirazioni, la filiazione naturale da Massimiano, che ha partecipato all’incontro e sottoscritto l’accordo.
Nel 310, lo scenario subisce ulteriori cambiamenti. Massimiano, rifugiatosi in Gallia presso Costantino, entra in conflitto con quest’ultimo e viene eliminato. In conseguenza di questi avvenimenti, Costantino abbandona ogni richiamo al rapporto con l’imperatore messo a morte e al proprio inserimento nella linea Erculia, sviluppando, come testimonia il panegirico del 310, un’autonoma linea di legittimità dinastica che, al di là del padre Costanzo, era fatta risalire a un grande imperatore del III secolo, Claudio il Gotico (268-270). A Massenzio non resta altro, per giustificare la sua posizione, che fare riferimento ancora alla filiazione da Massimiano Erculio, al di là del conflitto che li aveva divisi nel 308, e al di là della rinuncia al valore politico di questa filiazione, alla quale Massimiano stesso aveva aderito nel convegno di Carnunto. Ora l’isolamento di Massenzio è totale e la sopravvivenza del suo potere, dunque, del tutto improbabile. Resta, però, incerto chi debba assumersi il compito della guerra contro l’usurpatore. A Carnunto, alla fine del 308, ne era stato investito Licinio. Nel 310 stesso – ed è un mutamento di atteggiamento di non secondaria importanza, dato il peso che le titolature dei membri del collegio imperiale avevano avuto fino a quel momento – l’Augusto anziano Galerio riconosce anche a Massimino Daia e Costantino il titolo di Augusto68.
C’è però nel 311, prima del conflitto fra Costantino e Massenzio, un ulteriore cambiamento dello scenario: la morte di Galerio, nell’aprile di quell’anno. Massimino Daia è il primo a muoversi dopo questo evento: l’Asia Minore viene rapidamente occupata e Licinio non può fare altro che fronteggiare militarmente il collega sugli stretti, prima di giungere a un accordo. Le questioni sollevate sono complesse. Ora gli Augusti sono tre, Massimino, Costantino e Licinio, secondo un ordine determinato dalla loro anzianità nel potere, senza tenere più conto del fatto di essere stati Cesari o Augusti, senza alcun Cesare, e con un quarto Augusto riconosciuto come usurpatore dagli altri tre. Il sistema tetrarchico è ora definitivamente affossato. L’accordo fra Licinio e Massimino aveva prodotto una spartizione dei territori che erano stati governati da Galerio: Licinio aveva occupato tutto l’Illirico, annettendo le diocesi Mesica e Tracica, mentre Massimino aveva aggiunto all’Oriente l’Asia Minore, le diocesi Asiana e Pontica. Da queste acquisizioni Licinio può sentirsi, almeno parzialmente, soddisfatto. D’altra parte, alla luce della nuova situazione, gli accordi di Carnunto possono apparire inadeguati. Licinio era stato nominato Augusto in questo contesto, con il compito di sostituire Severo, e dunque implicitamente di eliminare il suo eversore, Massenzio, velut adversum Maxentium pugnaturus, come afferma l’Origo Constantini. Ora, però, il ruolo che era di Severo, e prima di lui di Massimiano Erculio, di unico Augusto d’Occidente, non è più attuale. Anche Costantino, Augusto nelle Gallie, può rivendicare per sé, salvo accordi con Licinio, il compito di eliminare Massenzio.
1 W. Seston, Dioclétien et la tétrarchie, I, Guerres et reformes (284-300), Paris 1946; T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1981; Id., The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge (MA)-London 1982; F. Kolb, Diocletian und die erste Tetrarchie. Improvisation oder Experiment in der Organisation monarchischer Herrschafts?, Berlin-New York 1987; S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs. Imperial Pronouncement and Government. AD 284-324, Oxford 1996; W. Kuhoff, Diokletian und die Epoche der Tetrarchie. Das römische Reich zwischen Krisenbewältigung und Neuaufbau (248-313 n. Chr.), Frankfurt 2001; F. Kolb, Herrscherideologie in der Spätantike, Berlin 2001; Diokletian und die Tetrarchie: Aspekte einer Zeitenwende, hrsg. von A. Demandt, A. Goltz, H. Schlange Schöningen, Berlin-New York 2004; A.K. Bowman, Diocletian and the First Tetrarchy. A.D. 284-305, in The Cambridge Ancient History, XII, The Crisis of the Empire. A.D. 193-337, ed. by A.K. Bowman, D.A. Garnsey, Av. Cameron, Cambridge-New York 2005, pp. 67-89; E. Lo Cascio, The New State of Diocletian and Constantine: From the Tetrarchy to the Reunification of the Empire, ivi, pp. 170-183, in partic. 179 segg.; Die Tetrarchie. Ein neues Regierungssystem und seine mediale Präsentation, hrsg. von D. Boschung, W. Eck, Wiesbaden 2006.
2 Cfr. D. Vollmer, Tetrarchie. Bemerkungen zum Gebrauch eines antiken und modernen Begriff, in Hermes, 119 (1991), pp. 435-449; W. Kuhoff, Aktuelle Perspektiven der Diokletian-Forschung, in Diokletian, cit., pp. 10-26; H. Leppin, Zur Geschichte der Erforschung der Tetrarchie, in Die Tetrarchie, cit., pp. 13-30, in partic. 14.
3 h.A. Car. XVI 2.
4 F. Kolb, Diocletian, cit., 42; pp. 66-67.
5 W. Seston, Diocletien, cit.; T.D. Barnes, New Empire, cit. Cfr. H. Leppin, Zur Geschichte, cit.
6 F. Kolb, Diocletian, cit.
7 Eutr., IX 20,3.
8 Aur. Vict., Caes. 39,17; Eutr., IX 20,2; Paneg. 10(2)4,3.
9 Cfr. R. Van Dam, Leadership and Community in Late Antique Gaul, Berkeley-Los Angeles-London 1985, pp. 25-58; J. Drinkwater, Patronage in Roman Gaul and the Problem of Bagaudae, in Patronage in the Ancient Society, ed. by A. Wallace Hadrill, London-New York 1989, pp. 189-203; P. Badot, D. De Decker, La naissance du mouvement bagaude, in Klio, 74 (1992), pp. 324-370. V. Neri, I marginali nell’Occidente tardoantico. Poveri, infames e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998, pp. 400-417.
10 Paneg. 11(3)10,5.
11 Paneg. 11(3)2,4: «Voi rendete manifesto il fatto di essere generati da questi dei nei vostri nomi, e molto di più nelle vostre virtù», cfr. ivi, 3,2.
12 Paneg. 9(5)7,3.
13 Paneg. 9(5)8,1.
14 Lact., mort. pers. 9,9.
15 F. Kolb, Diocletian, cit., pp. 99 segg.
16 Paneg. 10(2)9,3.
17 Paneg. 10(2)9,4.
18 Paneg. 10(2)4,2.
19 Paneg. 10(2)3,1.
20 Verg., ecl. 3,60.
21 Paneg. 11(3)14,2-4.
22 Cfr. F. Kolb, Herrscherideologie, cit., pp. 158 segg.; D. Boschung, Die Tetrarchie als Botschaft der Bildmedien. Zur Visualisierung eines Herrschaftssystems, in Die Tetrarchie, cit., pp. 360 segg.
23 È bene precisare che, in ogni caso, Eusebio stesso non può definire Massenzio un persecutore.
24 W. Seston, Diocletien, cit., pp. 89 segg.; F. Kolb, Diocletian, cit., pp. 68 segg.
25 Cfr. da ultimo, H.P.G. Williams, Carausius: A Consideration of the Historical, Archaeological and Numismatic Aspects of His Reign, Oxford 2004.
26 F. Kolb, Diocletian, cit., p. 71.
27 Cfr. F. Kolb, Die Datierung des ägyptischen Aufstands unter L. Domitius Domitianus und Aurelius Achilleus, in Eos, 76 (1988), pp. 325-343.
28 Aur. Vict., Caes. 39,20-24; Eutr., IX 22,1.
29 Paneg. 9(5)3,3.
30 W. Seston, Diocletien, cit., pp. 92 segg. mette in valore la testimonianza del Chronicon paschale, una cronaca bizantina del VII secolo, che colloca una contemporanea proclamazione dei due Cesari a Nicomedia il 21 maggio del 293. Lo studioso ipotizza due proclamazioni in date diverse dei Cesari, quella di Costanzo il 1° marzo e quella di Galerio il 21 maggio, date che vengono armonizzate in seguito.
31 Paneg. 9(5)3,3.
32 Cfr. S. Corcoran, Empire, cit., pp. 267-268.
33 AE 1987, 456. Cfr. A. Chastagnol, Un nouveau préfet du prétoire de Dioclétien: Aurelius Hermogenianus, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 78 (1989), pp. 65-68.
34 Cfr. le sintesi di F. Kolb, Herrscherideologie, cit., pp. 32-34 e W. Eck, Worte und Bilder. Die Herrschaftskonzept Diocletians im Spiegel öffentlicher Monumente, in Die Tetrarchie, cit., pp. 323-347.
35 Cfr. D. Boschung, Die Tetrarchie als Botschaft, cit., pp. 349-380.
36 Oros., hist. VII 26,5. Cfr. H. Brandt, Die Tetrarchie in der Literatur des 4. Jhs. n. Chr., in Die Tetrarchie, cit., p. 401.
37 h.A. Car. XVIII 3-4.
38 Lact., mort. pers. 15,6.
39 Sull’analisi di questo testo (Eus., h.e. IX 1,4-6) cfr. V. Neri, Documenti e narrazione storica nel libro IX della Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, in Adamantius, 14 (2008), pp. 218-228.
40 Mos. et Rom. legum collatio XV 3. Cfr. S. Corcoran, Empire, cit., pp. 135-136.
41 Iul., Caes. 315A-B.
42 Lact., mort. pers. 17,4-18, 7; Eus., h.e. VIII 13,11.
43 Iul., Caes. 315B; Eutr., IX 27,1.
44 Paneg. 7(6)9,2. Cfr. per le fonti storiografiche antiche sull’episodio, F. Kolb, Diocletian, cit., pp. 128-131.
45 Lact., mort. pers. 18,5.
46 Paneg. 8(4)19,4-20,1.
47 Lact., mort. pers. 20,3.
48 Eus., h.e. IX 11,7.
49 W. Eck, Herrschaftskonzept, cit., p. 326.
50 Cfr. B. Bleckmann, Bemerkungen zum Scheitern des Mehrherrschaftssystems: Reichsteilung und Territorialansprüche, in Diokletian, cit., pp. 74-94.
51 Cfr. V. Neri, Les éditions de l’Histoire ecclésiastique (livres VIII-IX): bilan critique et perspectives de la recherche, in Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique. Commentaire, tome I: études d’introduction, éd par S. Morlet, L. Perrone, Paris 2012, pp. 151-183.
52 Cfr. J.-P. Callu, Naissance de la dynastie constantinienne: le tournant de 314-316, in “Humana sapit”: études d’antiquité tardive offertes à L. Cracco Ruggini, éd. par J.M. Carrié, R. Lizzi Testa, Turnhout 2002, pp. 111-120.
53 Cfr. R. Farina, L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio dei Cesarea: la prima teologia politica del cristianesimo, Zürich 1966; F. Kolb, Herrscherideologie, cit., pp. 86-89.
54 Cfr. I. Tantillo, “Come un bene ereditario”: Costantino e la retorica dell’impero-patrimonio, in Antiquité Tardive, 6 (1998), pp. 251-264.
55 Eus., l.C. 3,4. Cfr. F. Kolb, Herrscherideologie, cit., 61-63.
56 Th. Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, (Historia Eunzelschriften 64), Stuttgart 1990, p. 24.
57 Paneg., 10(2),14,1.
58 Lact., mort. pers. 18, 8-14.
59 Lact., mort. pers. 25,3.
60 Lact., mort. pers. 24,5.
61 Lattanzio riporta a questo proposito un tratto che compare in molte versioni successive della vicenda (Aur. Vict., Caes. 40,2; Epit. 41,2; Zos. II 8,3), cioè che Costantino, per evitare di essere inseguito, rende inutilizzabili i cavalli del servizio postale di Stato, il cursus publicus.
62 Paneg. 6(7),10.
63 Th. Grünewald, Constantinus, cit.
64 Ivi, pp. 35-38, dove Grünewald sostiene la tesi che il luogo in cui il panegirico fu pronunciato, in occasione del matrimonio fra Costantino e Fausta, sia stato Arles.
65 Cfr. la testimonianza di un’iscrizione della provincia Narbonese II (CIL XII 5555), con il commento di Th. Grünewald, Constantinus, cit., p. 34.
66 Cfr. la testimonianza di un’iscrizione africana di Sicca Veneria (CIL VIII 22, 183), con il commento di Th. Grünewald, Constantinus, cit., p. 44.
67 Lact., mort. pers. 32,5. Cfr. A. Stefan, Le titre de filius Augustorum de Maximin et de Constantin et la théologie de la tétrarchie, in Prosopographie et histoire religieuse. Actes du colloque ténu en l’université Paris XII-Val de Marne les 27 et 28 octobre 2000, éd. par M.F. Baslez, F.Prévot, Paris 2005, pp. 329-349.
68 Lact., mort. pers. 32, 5.