Monetazione
Federico II lasciò una traccia molto importante nella monetazione del Regno di Sicilia, visibile specialmente nel controllo della produzione e della circolazione della moneta negli anni 1221-1250. L'uso fiscale della moneta e delle zecche, realizzato attraverso distribuzioni forzate di monete e continue renovationes, fu determinante come fonte di introiti per la Corona (per le riflessioni economiche cf. Martin, 1999 e 2000). Qui si tratterà della monetazione federiciana nel Regno, ma anche in Germania molte monete furono emesse a nome di Federico II, o con la sua effigie, in diverse zecche regie come Nimega nei Paesi Bassi, Dortmund e Aquisgrana nel Basso Reno, Altenburg in Turingia, Ulm e Regensburg in Svevia, e altre ancora (cf. Klein, 1977; Nau, 1977).
Anche diverse monete comunali italiane portano il nome di Federico imperatore, ma spesso in questi casi si tratta di un generico richiamo al nome del sovrano che concesse il privilegio di zecca, e una legenda con Fridericus Imperator può riferirsi sia al primo che al secondo Federico (per queste monete e zecche, oltre al vecchio repertorio del Corpus Nummorum Italicorum, 1910-1943, v. MEC e Guida per la storia delle zecche, entrambi in corso di stampa).
La produzione della moneta nel Regno di Sicilia fu strettamente sotto il controllo regio e centralizzata fin dall'età normanna, ma la centralizzazione fu decisamente più forte dopo il 1221. L'emissione di moneta locale autonoma di rame a Gaeta fu osteggiata da Enrico VI ma in qualche modo continuò e fu soppressa solo con l'inizio dell'autorità imperiale di Federico II (Grierson-Travaini, 1998, pp. 71-72). Anche la produzione di tarì ad Amalfi fu limitata in età sveva a emissioni decisamente simboliche e soppressa anch'essa nel 1221.
Il Regno era amministrativamente diviso in due parti, anche per la distribuzione delle monete, fin dall'età normanna: le zecche siciliane di Palermo e Messina producevano tarì d'oro per tutto il territorio, ma i nominali inferiori erano prodotti rispettivamente in Sicilia, per la distribuzione nell'isola e in Calabria, e nella zecca di Brindisi (Salerno in età normanna), per la distribuzione nelle province settentrionali del Regno, dalla Puglia fino al Tronto e al Garigliano.
Nel sistema monetario normanno dal 1140 i tarì siciliani erano la moneta effettiva di più alto valore, del peso teorico di circa 1 g ciascuno, al titolo aureo di 16 carati e un terzo; il ducale e le sue frazioni erano monete di lega argentea; a queste si aggiungevano monete di rame (follari). Alcuni nominali avevano tradizioni locali differenziate nelle diverse parti del Regno: le kharrube in Sicilia (monetine di lega argentea del peso di circa 0,20 g, originariamente pari a 1/16 di dirhem), i tarì di Amalfi e Salerno in Campania (del peso di circa 0,89 g, con contenuto metallico inferiore a quello dei tarì siciliani e diametro largo e molto sottile). Kharrube e tarì amalfitani furono emessi anche da Enrico VI e Federico, ma specialmente i tarì di Amalfi ebbero una valenza essenzialmente celebrativa (per il contenuto metallico dei tarì siciliani e campani in età normanna e sveva cf. Travaini, 1998).
Enrico VI soppresse la produzione di monete di rame e di tarì continentali, chiuse la zecca di Salerno e introdusse in tutto il Regno denari di circa 1 g e alla lega di 25% di argento, pur continuando l'uso delle kharrube in Sicilia.
I denari svevi di Brindisi e Messina, e fino al 1220 anche in parte di Palermo, non portano indicazione di zecca, ma hanno tipi leggermente diversi; fino a tempi recenti erano stati in gran parte attribuiti indistintamente a Messina-Brindisi, ma la distribuzione dei ritrovamenti ha permesso ora di attribuirne un buon numero all'una o all'altra zecca, dato che le due parti del Regno mostrano presenze diverse (Ead., 1993; Ead., Produzione e distribuzione, 1995). L'analisi dei ritrovamenti monetali, sia di monete isolate e da scavo, sia in ripostigli, ha permesso recentemente importanti nuove conoscenze sulla circolazione monetaria e più in generale sull'amministrazione della moneta, a complemento di quanto era noto grazie alle fonti scritte.
Anche la classificazione dei numerosissimi tipi di tarì federiciani ha presentato molti problemi, mancando su di essi elementi cronologici espliciti e indicazione di zecca (una proposta di classificazione piuttosto organica, basata sia su elementi stilistici e ponderali, sia sulla composizione dei ripostigli, può essere letta in Ead., 1996, e in Grierson-Travaini, 1998, pp. 158-159).
Dati i notevoli progressi recenti nel campo delle attribuzioni e delle datazioni, le opere numismatiche e i principali repertori devono essere consultati tenendo conto degli aggiornamenti, e ciò vale non solo per opere datate quali il Corpus Nummorum Italicorum (XVIII, Italia meridionale, zecche minori, del 1939), o gli studi di Sambon (1912; [1916 ca.]), o Dell'Erba (1929), ma anche per ricerche più recenti (come Spahr, 1976). Lo studio storico delle zecche ha permesso di comprendere meglio il funzionamento della produzione della moneta e di espungere alcune false attribuzioni: si può ora affermare con certezza che non è mai esistita una zecca a Lucera nel periodo 1240-1265, come era stato in passato proposto (D'Amelj, 1861; revisione in Travaini, 1994), mentre pare certo che la zecca di Palermo, che si credeva inattiva dagli inizi dell'età sveva, fosse invece ancora in funzione, seppur sporadicamente, almeno fino al 1220, come del resto attesta la bolla di papa Alessandro IV del 5 settembre 1255, nella quale si confermava alla città di Palermo la zecca, che è esplicitamente dichiarata attiva fino al tempo di Federico imperatore (cf. Travaini, 1994).
Le fonti scritte principali sono: la cronaca di Riccardo di San Germano, interrotta al 1243, con indicazioni precise sugli ordini di battitura di moneta; un formulario redatto intorno al 1285, detto 'di Marsiglia' dall'archivio in cui fu individuato, contenente l'elenco delle emissioni di denari con relativo contenuto di fino dal 1221 fino ai successori di Federico II (pubblicato per la prima volta in Blancard, 1864; Acta Imperii inedita, I, pp. 763-765). A queste si aggiungono molti altri atti della cancelleria imperiale, citati nella Historia diplomatica Friderici secundi, e altre ancora.
La titolatura indicata sui denari di Federico II permette di datarli come segue: 1197-1209 Rex Sicilie; 1209-1212 Rex Sicilie, associato a Costanza d'Aragona; 1213-1220 Romanorum et Sicilie Rex; 1220-1225 Imperator-Rex Sicilie; 1225-1250 Imperator-Rex Ierusalem et
Sicilie
La trattazione della monetazione nel Regno di Sicilia sarà sviluppata come segue: la monetazione sveva nel Regno di Sicilia negli anni di Enrico VI (1194-1197) e di Federico II fino al 1220; la monetazione imperiale dal 1220 al 1250; i successori di Federico II; monete di ribelli; i falsari in età sveva; privilegi ai monetieri; monete di cuoio.
Enrico VI nel suo pur breve regno riuscì comunque a dare un importante nuovo assetto alla monetazione siciliana: lasciando invariata la produzione dei tarì siciliani nelle zecche di Palermo e Messina, Enrico impose un radicale cambiamento sul circolante medio e basso, introducendo i denari di mistura, che erano il nominale caratteristico di tutta l'Europa medievale, e sospendendo la produzione di monete di rame (follari), il cui uso del resto era già stato ridotto in Italia meridionale a favore di denari del Nord Italia e specialmente della Champagne, detti 'provisini' dalla città di Provins (Travaini, Provisini di Champagne, 1999). La produzione dei nuovi denari era concentrata nelle zecche di Palermo, Messina e Brindisi, quest'ultima aperta proprio da Enrico VI per sostituire quella di Salerno (non vi sono documenti relativi all'apertura della zecca di Brindisi, e in passato si era creduto che fosse attiva già in età normanna; un follaro di Ruggero Borsa con legende greche, attribuito a Brindisi, fu più probabilmente battuto a Salerno).
Il ruolo di Enrico VI è stato riconosciuto solo recentemente; si era ritenuto a lungo che il disordine monetario nel Regno, con ampia circolazione di denari stranieri in Italia meridionale, fosse durato fino ai primi provvedimenti federiciani del 1221 (così ancora in Grierson-Travaini, 1998, p. 167), ma la composizione di ripostigli occultati negli anni di Enrico VI mostra la presenza di soli denari del Regno, senza monete straniere; tutti i ripostigli finora noti dall'Italia meridionale con provisini di Champagne non contengono denari svevi e sembrano databili agli ultimi anni del periodo normanno: questo pare suggerire che già Enrico, introducendo i nuovi denari, avesse tentato anche di imporre il monopolio di circolazione, abolendo o limitando il flusso dei denari stranieri (Travaini, Romesinas, provesini, 1999; Ead., Moneta locale, 2002). Alcuni denari di Enrico VI portano anche il nome di Costanza d'Altavilla, e in Sicilia (1196-1197) fu emesso un tipo di denaro con Federico associato al trono, molto diffuso: sul dritto un'aquila con legenda E.IMPERATOR, e sul rovescio il busto coronato del piccolo Federico con legenda FREDERIC'REX (tutti i tipi dei denari svevi nel Regno sono illustrati e descritti in Travaini, 1993; sono descritti, ma non tutti illustrati, in Grierson-Travaini, 1998, che aggiornano Spahr, 1976).
Il cambiamento nella monetazione imposto da Enrico toccava anche l'iconografia: egli volle piegare l'indipendenza della città di Gaeta, gelosa della sua monetazione locale, ponendo sui follari di rame il suo busto coronato e sottolineandovi la "maestà imperiale" (si noti che nel 1123 i cittadini di Gaeta costrinsero il duca normanno a rinunciare al progetto di una nuova moneta di rame con la sua effigie; cf. Travaini, Esiste il "ritratto", 2002). Lo stesso busto coronato egli pose anche sui tarì di Amalfi, dai quali eliminò ogni traccia delle iscrizioni in arabo che erano state la loro caratteristica. Il consolidamento del Regno determinò poi la chiusura temporanea delle due zecche locali. Sui nuovi denari l'immagine principale era un'aquila ad ali spiegate, e sui tarì siciliani, che restavano la moneta di più alto valore in tutto il Regno, la legenda abbandonava l'uso delle titolature islamiche sostituite ora dai titoli imperiali occidentali di "Enrico Cesare Augusto" traslitterati in arabo, Harir Qaysar Awghust (Grierson-Travaini, 1998, p. 443). Tra il 1195 e il 1197 si data anche un denaro da poco scoperto emesso a nome di Marcovaldo di Annweiler, vicario imperiale nella Marca, chiaramente ispirato al tipo dei nuovi denari apulienses di Enrico VI (Matzke, 2003): questo denaro dimostra quale importanza avesse assunto il vicario giungendo anche a battere moneta.
Alla morte di Enrico VI, nel 1197, la monetazione di Federico II riprese alcune caratteristiche arabo-normanne, certamente volute dalla madre Costanza, secondo la tradizione normanna. Forse a questo periodo deve essere attribuita anche una monetina di rame a nome di Costanza (Constancia Imperatrix), con un'aquila sul dritto, probabilmente battuta a Messina nel 1197 (Grierson-Travaini, 1998, nr. 492, p. 167). A Palermo furono prodotte alcune kharrube di basso argento che su un lato portano scritto in cufico il nome della zecca (madinat Siqilliyyah) e sull'altro il nome di Federico con il titolo islamico al-mu ῾aẓẓam, 'il sublime', titolo usato da tutti gli Altavilla (ibid., p. 444), legenda che si trova anche sui tarì siciliani di classe B, mancanti però di indicazione di zecca (per i titoli islamici come al-mu ῾aẓẓam usati dai sovrani normanni e da Federico II cf. Johns, 1986).
I primi tarì di Federico con data certa furono battuti ad Amalfi: alcuni portano associati i nomi di Federico e della madre Costanza, in latino e in arabo; su uno di questi tarì è indicata la data su entrambi i lati in arabo: su un lato l'anno 1198 dell'era cristiana e sull'altro l'anno 595 dell'Egira: il 595 cominciò il 3 novembre 1198, e Costanza morì il 27 dello stesso mese, e pertanto la moneta è databile esattamente al novembre di quell'anno (Grierson-Travaini, 1998, p. 165). Si tratta comunque di monete rarissime, a conferma del loro carattere 'dimostrativo'.
La classificazione dei tarì siciliani di Federico II è stata molto dibattuta; si era ritenuto che fossero tutti databili entro il 1231, anno di introduzione dell'augustale, che li avrebbe di fatto sostituiti, ma sembra invece dimostrato il contrario: prima del 1229 è probabile che i tarì siciliani, con contenuto metallico di 16 carati e un terzo, siano stati coniati solo in Sicilia, e così del resto anche la maggior parte dei denari fino al 1221, anche se resta ancora da definire la circolazione del periodo 1197-1220 in Italia meridionale. Mentre in Sicilia sono relativamente diffusi i denari emessi a nome di Federico, questi sono rarissimi in Italia meridionale, tanto da avvalorare l'ipotesi, già più volte sostenuta da vari autori, che la zecca di Brindisi fosse rimasta inattiva dal 1197 al 1220 (Travaini, 1994). Anche tutti i denari cosiddetti "delle nozze con Costanza d'Aragona" (1209) con i nomi di Federico e Costanza, ritenuti celebrativi da alcuni, furono battuti probabilmente a Palermo e a Messina, non solo nel 1209, ma in varie emissioni; l'assenza di rinvenimenti in Italia meridionale porta a escludere che se ne fossero prodotti anche a Brindisi (Costanza d'Aragona fu la più amata delle mogli di Federico e l'unica a essere ricordata su monete).
Nel marzo 1212 Federico partì per la Germania e durante la sua assenza dal Regno si ebbero sporadiche emissioni di denari e tarì in Sicilia. La zecca di Brindisi continuò a essere chiusa: fu verosimilmente inattiva nel 1215 e nel 1218: nel 1215 Federico concesse all'Ordine teutonico di Gerusalemme la domus in Brindisi ‒ che era stata proprietà dell'ammiraglio Margaritone ‒ ad eccezione della parte destinata alla gabella e alla zecca: "sed quia manifestum est theloneum et monetam que usque ad moderna tempora in sepedicta domo Margariti exercebantur, ad nostrum pertinere demanium, ea omnia scilicet theloneum et monetam ab ista concessione et donatione excepta esse volumus, nostris dumtaxat et regiis servitiis reservanda" (Historia diplomatica, I, 2, pp. 428 e 919). Il 3 gennaio 1218 Federico II concesse all'Ordine teutonico la rendita annuale di 150 once di tarì di Sicilia, da ricavare dai proventi della zecca, dogana e altri redditi della città di Brindisi ("in proventibus siccle, duane et aliorum redditum civitatis nostre Brundusii"): in entrambi i casi la menzione della zecca va considerata in un elenco delle possibili fonti di reddito cittadino, e non significa necessariamente che fosse attiva in quel momento, come talvolta è stato ipotizzato (Acta Imperii inedita, I, p. 123). Si noti nell'atto del 1218 l'uso del termine siccla anziché moneta dell'atto precedente: il termine italiano zecca deriva dall'arabo sikka attraverso la mediazione dell'esperienza delle zecche normanne e sveve del Regno; in generale nell'Italia centrosettentrionale si conservò l'uso di moneta per riferirsi alla zecca come istituzione e diritto di battere moneta, introducendo progressivamente il termine zecca per indicare l'edificio e le funzioni dell'impianto. Nell'atto federiciano del 1218 siccla è usato per la zecca-istituzione (la forma latinizzata sicla prendeva forse ispirazione dal siclum, antica moneta spesso citata nella Bibbia; v. Travaini, Zecca, 2000).
I tarì siciliani ebbero nel primo periodo legende in arabo corretto, poi deformate progressivamente. I tarì siciliani anteriori al 1220 appartengono a due classi, distinte principalmente in base alla legenda (Travaini, 1996; Grierson-Travaini, 1998, pp. 158, 167): classe A, tarì con iniziali federiciane al centro del dritto (FE, FR, FC) circondate da legenda in arabo con il nome di Enrico VI (Harir Qaysar Awghust): per numero e varietà sembra difficile attribuire tutta la loro produzione al solo breve periodo in cui il piccolo Federico fu associato al trono del padre; per tale motivo sembrano meglio attribuibili ai primi anni di Federico da solo; classe B, legenda in arabo con il nome di Federico come sui tarì di Amalfi (Fridrik malik Siqilliyyah); in questa classe si distinguono due gruppi: tarì recanti al centro del dritto un'aquila; tarì con legenda simile ma più stilizzata, recanti al centro del dritto piccoli segni, come una F, un globetto (secondo chi scrive anche questi sono attribuibili a Messina, mentre Grierson li ritiene di Brindisi).
Alcuni cosiddetti 'gettoni di vetro' recanti l'immagine di un'aquila ad ali spiegate sono stati attribuiti al tempo di Enrico VI e ai primi anni di Federico II. Simili tondelli di vetro diffusi nel mondo arabo e ben noti nella Sicilia aghlabita e fatimita sono più spesso considerati quali pesi monetali, ma alcuni studiosi hanno preferito interpretarli in qualche caso quali gettoni con funzioni monetali: i tipi con aquila sono certamente attribuibili all'età sveva (un esemplare fu rinvenuto negli scavi di Monte Iato) e una loro possibile funzione monetale è stata eventualmente collegata alla mancanza di monete di rame abolite da Enrico VI (chi scrive ritiene ancora aperto il problema; per un dibattito sull'uso di questi oggetti: Balog, 1981; Bates, 1981; D'Angelo, 1995; Novak, 1997).
Per il periodo iniziale del regno di Federico, a parte le poche emissioni di tarì amalfitani e denari dei suoi primissimi anni, si può affermare che fino al 1220 le zecche continentali restarono probabilmente inattive e che quelle siciliane produssero denari e tarì in modo discontinuo. A proposito dell'iconografia delle monete di questo periodo si può segnalare la preminenza dell'aquila sui denari e tarì di classe B; il globo crucigero e una stella crescente sono raffigurati su uno dei denari battuti a nome di Costanza di Aragona.
Si apre ora l'ampio capitolo della monetazione sotto Federico II imperatore (1220-1250). Incoronato imperatore a Roma il 22 novembre 1220, lo Svevo tornò nel Regno e iniziò l'opera di riorganizzazione, che includeva notevoli provvedimenti monetari.
I primi denari che indicano il titolo imperiale di Federico sono molto rari e sono stati scoperti solo recentemente: raffigurano il sovrano in trono con globo e scettro, e sono forse databili tra il 1220 e il 1221, prima delle ordinanze imperiali e forse a scopo celebrativo in Sicilia già prima del ritorno di Federico.
Nel settembre 1221, come riferisce Riccardo di San Germano, ordinò la coniazione di nuovi tarì ad Amalfi e denari imperiali a Brindisi, ma anche, sebbene non ricordati nelle fonti scritte, tarì siciliani di un tipo del tutto nuovo (classe C): sul dritto per la prima volta una legenda latina, F.IMPERATOR, e al centro un'aquila la cui corona risulta posta nella legenda, esattamente come nel denaro attribuito a Messina per il 1221 (Grierson-Travaini, 1998, p. 169): la datazione di questi tarì siciliani dovrebbe essere compresa tra il 1221 e il 1231.
Un grosso d'argento, nominale tipico dell'Italia centrosettentrionale del tempo, è stato in passato attribuito al Regno e datato al 1221; sul dritto la legenda FRIDERICVS II, intorno alla testa coronata volta a destra; sul rovescio la legenda ROM IMPR AVG, intorno a croce cantonata da trifogli. Il tipo di nominale e i ritrovamenti in area emiliana e lombarda suggeriscono invece una diversa attribuzione, probabilmente nella zecca di Vittoria, durante l'assedio di Parma nel 1247: si noti in questa moneta d'argento l'uso del numerale 'secondo', per distinguere bene Federico II dal nonno Barbarossa, numerale non necessario nel Regno, dove Federico era il primo sovrano di quel nome (Bazzini-Ottenio, 2002). La coniazione dei tarì amalfitani nel 1221, estremamente rari, aveva soprattutto una funzione celebrativa, e infatti poco dopo, il 17 settembre 1222, Federico chiuse definitivamente la zecca di Amalfi. Diversa era invece la portata dell'emissione dei denari.
L'imposizione di moneta delle regie zecche a corso forzoso era fonte di cospicui guadagni, e Federico si organizzò per poter sfruttare al massimo le possibilità offerte dalle zecche, controllandone sempre più efficientemente organizzazione e personale a tutti i livelli; lo studio delle zecche ha dimostrato del resto quale fosse stato il loro ruolo anche nello sviluppo organizzativo della produzione della moneta nell'Italia comunale, a partire dallo stesso termine zecca (Travaini, 1988; Ead., Sedi di zecca, 2001).
Fu probabilmente proprio al momento del suo ritorno nel Regno che Federico decise di riaprire la zecca di Brindisi, e non prima: era quello infatti il momento in cui più necessario appariva il recupero di una produzione di moneta nelle province continentali. La zecca di Brindisi veniva a far parte di un più ampio progetto per l'organizzazione del nuovo stato federiciano (per le donazioni e protezioni concesse nell'aprile 1221 allo zecchiere messinese Pagano Balduino, incaricato di riattivare la zecca brindisina, cf. Historia diplomatica, II, 1, pp. 169-171, e Travaini, 1994): secondo alcuni le concessioni sarebbero prova dell'attività della zecca di Brindisi già prima del 1220, ma secondo chi scrive Federico con esse volle incoraggiare e stimolare la fedeltà dello zecchiere, da cui pretendeva in cambio il segreto sul vero valore dei denari di lega che si accingeva a produrre; questa donazione in fondo non era gran cosa, di fronte ai più estesi privilegi che Federico più tardi, nel 1238, in momenti di grande bisogno di moneta, avrebbe concesso a tutti i monetieri di Brindisi e Messina.
La necessità di garantirsi la fedeltà degli zecchieri e la loro segretezza era dovuta alla natura delle emissioni di denari che il nuovo assetto monetario stabiliva nel Regno, nel momento stesso in cui i denari stranieri venivano deliberatamente aboliti dalla circolazione insieme con tutti i vecchi tipi. Le zecche di Brindisi e Messina dovevano produrre monete da distribuire in tutte le terre, contro un cambio forzoso di volta in volta fissato dalla Corona. Ma i denari tra il 1221 e il 1250 vennero svalutati fortemente, e il loro cambio imposto era progressivamente più lucroso per la Corona.
I denari di mistura del 1221 non furono bene accolti: erano stati distribuiti al cambio forzoso di 16 per tarì, quando il loro valore effettivo avrebbe dovuto dare almeno 23 denari per tarì. Fin dall'inizio, perciò, i denari imperiali furono considerati 'falsi'; Federico, allora, decise di stroncare ogni accusa e di imporre con forza i suoi denari: il 10 settembre 1222 proibì l'uso interno di moneta aurea, impose il monopolio di circolazione dei denari, precisando che avrebbe punito chiunque avesse osato definire falsi i nuovi denari.
Provvedimenti mirati a ridurre l'intrinseco della moneta erano comunemente utilizzati dai sovrani medievali ma mai forse al livello di Federico II, il quale ottenne così anche un'accusa di falsario da parte di papa Gregorio IX nella bolla di scomunica del 26 marzo 1239, proprio dopo la fortissima svalutazione ordinata il 19 luglio 1238 durante l'assedio di Brescia, sulla quale si tornerà più avanti.
Per imporre con effetto il monopolio di circolazione nel Regno, l'imperatore aveva bisogno innanzi tutto di emettere un quantitativo di moneta sufficiente alla circolazione interna, e in secondo luogo di una capillare organizzazione burocratica di controllo. Fino a tempi recenti non era stato possibile valutare il successo o meno degli ordini di Federico, ma la ricerca sistematica dei dati numismatici ha permesso ora di verificare l'effettivo controllo imperiale sul circolante. I ripostigli monetali del tempo non mostrano presenza di denari stranieri e sono composti da uno o al massimo due tipi di denari di zecca regia, segno cioè che le monete non restavano a lungo in circolazione ma venivano sostituite continuamente tramite le successive renovationes imposte dall'amministrazione ritirando le vecchie monete (Travaini, "Renovatio monetae", 2002).
Nel dicembre 1225 fu ordinata una nuova emissione di denari, con riduzione di fino, recanti il titolo di re di Gerusalemme, assunto dal mese di novembre in seguito alle nozze con Iolanda, figlia di Giovanni di Brienne. Nel gennaio 1228 vi fu una nuova abbondantissima emissione di denari, distribuiti forzosamente in tutto il Regno in cambio di oro. Federico aveva bisogno di fondi per la sua crociata, ma questa volta rinunciò a ridurre ulteriormente il fino dei denari, accontentandosi di guadagnare sulla quantità, e probabilmente anche sul peso, come spesso avveniva in caso di manovre monetarie. Più tardi, vittorioso nella crociata e nella lotta contro il papa, Federico si accinse alle grandi riforme nel suo Regno. Di nuovo in primo piano furono i provvedimenti legati alla moneta, con la creazione dell'augustale, i cui preparativi ebbero inizio già nel 1229.
Intanto, prima di parlare delle monete di Federico, vale la pena ricordare un tentativo di emissione pontificia a Gaeta nel 1229, quando l'esercito di Gregorio IX aveva invaso i confini settentrionali del Regno, mentre Federico si trovava alla crociata. Questo papa, che seppe dare importanza notevole ai segni e ai simboli del potere adottando per la prima volta il vessillo papale con le chiavi di s. Pietro, concesse a Gaeta il privilegio di battere moneta argentea recante su un lato l'immagine della testa di s. Pietro e il nome della città, e sull'altro l'immagine dello stesso papa e il suo nome (Paravicini Bagliani, 1998; Travaini, Esiste il "ritratto", 2002). Probabilmente questa moneta non fu mai prodotta: Federico tornò nel Regno nello stesso anno e riprese controllo di tutti i suoi domini, ma il progetto era significativo dal punto di vista dell'immagine e della propaganda, dato che allora non vi erano monete con ritratto né tra le serie papali, né tra le serie dello stesso Federico in Italia meridionale (ve ne erano in Sicilia): l'augustale del 1231 può considerarsi anche come una buona risposta alle pretese papali.
Nel 1229 Federico tolse all'Ordine teutonico quella parte della domus Margariti a Brindisi che gli aveva donato nel 1215. La zecca di Brindisi, che aveva sede in alcuni locali di quella domus, era già stata riattivata nel 1221 per l'emissione dei denari; nel 1229 Federico, riappropriandosi dell'intero edificio, cominciò ad ampliare la zecca, in vista della creazione degli augustali, che furono battuti a Brindisi e Messina a partire dal dicembre 1231; è questo uno dei primi dati a noi noti sull'ubicazione di una zecca medievale in ambienti demaniali. Come si è già detto, è probabile che a Brindisi esistesse dal 1221 soltanto la sicla argenti e che solo nel 1229 vi sia stata organizzata la sicla auri, in locali adiacenti ma separati, con diverse maestranze e diversi ufficiali responsabili, secondo una divisione che sarà più tardi documentata ad esempio nelle grandi zecche di Firenze e Venezia. Ciò sembra confermato anche dal fatto che solo dopo il 1230 si ritrova nelle fonti la specificazione di sicla denariorum o sicla nostra argenti, diversa dalla sicla auri (cf. Acta Imperii inedita, I, p. 707, a. 1248; la documentazione sulla separazione tra la sicla argenti e la sicla auri diviene più ricca in età angioina: v. Travaini, Sedi di zecca, 2001). Riccardo di San Germano, al dicembre 1231, riferì espressamente che gli augustali d'oro erano prodotti in entrambe le zecche di Brindisi e Messina, quasi a voler evidenziare la novità dell'oro a Brindisi.
Recentemente gli studi di Kowalski hanno permesso di individuare con buona probabilità gli augustali battuti a Brindisi, con due globetti ai lati della testa dell'aquila, e a Messina, senza globetti. La creazione dell'augustale è stata più volte posta in rapporto con le vicende monetarie mediterranee: Roberto Lopez aveva favorito l'ipotesi che il titolo dell'augustale, di 20 carati e mezzo, fosse basato sul tenore aureo dell'oro "di pagliola" che affluiva in Sicilia sia dalla Tunisia, sotto forma di tributo, sia da Genova per vie commerciali (Lopez, 1953, p. 33; Abulafia, 1983, p. 244); è vero tuttavia che il titolo aureo dell'oro di pagliola variava da 20 a 22 carati (riferimenti a diverse fonti sui valori variabili in Travaini, 2003, p. 286), e quindi, benché fornisse gran parte del metallo per la nuova coniazione grazie ai tributi dell'emiro hafside di Tunisi, non poteva essere modello per il titolo dell'augustale, modello da cercare più probabilmente nel titolo degli iperperi di Nicea di Giovanni III (1222-1254), il quale, dopo un periodo di decadenza e grande svilimento dell'oro, aveva riportato gli iperperi allo standard del XII sec., appunto di 20 carati e mezzo. L'augustale, così, aveva il titolo dell'iperpero bizantino, e inoltre, con un peso teorico di 5,31 g, aveva un peso di fino di 4,54 g, come il dinar hafside.
La creazione degli augustali non offuscò il successo dei tarì, che molto probabilmente dal 1231 furono emessi anche a Brindisi oltre che a Messina. Lo stesso imperatore di Nicea Giovanni III, dopo aver riportato l'iperpero al titolo di 20 carati e mezzo come nel XII sec., lo riportò più tardi al titolo di circa 16 carati, come i tarì siciliani. Proprio le guerre di Federico II contribuirono alla diffusione dei tarì siciliani, e non solo degli augustali, in Italia settentrionale dove ebbero un discreto uso anche alcuni decenni dopo l'introduzione del fiorino d'oro nel 1252.
A questo periodo appartengono i tarì siciliani delle classi D ed E, entrambi con legende pseudoarabe deformate e geometriche, attribuibili alle due zecche di Messina e Brindisi probabilmente in base a diversi segni sul rovescio (criterio simile a quello individuato per distinguere gli augustali delle due zecche): classe D, con uno o più globetti al centro del dritto (Messina?); classe E, con aquila al centro del dritto (Brindisi?).
Mentre gli augustali, di taglio regolare, potevano essere spesi a numero, i tarì, di peso sempre più irregolare, erano spesi a peso, pesati con bilance; il fenomeno degli spezzati d'oro si estese sempre più man mano che le monete si allontanavano dallo standard del tarì-peso teorico: in età sveva si trovano tarì pesanti fin oltre 10 g e pezzetti di tarì del peso di un decimo di grammo. Benché già nei primi tarì normanni si osservi una discreta variabilità dei pesi, ancora vi si riscontra un peso medio assai vicino allo standard del tarì-peso teorico; specialmente a partire dal tempo di Guglielmo II (1166-1189) i tarì siciliani mostrano una variabilità dei pesi sempre maggiore, conseguenza dell'abbandono dello standard ponderale nella preparazione, in zecca, dei tondelli da coniare: questo cambiamento era in sintonia con quanto era stato introdotto già in altri paesi del Mediterraneo e il fenomeno dei frammenti di oro accanto ai pezzi interi era comune anche ad altre serie auree circolanti nel Mediterraneo, come nel caso dei bisanti del Regno di Gerusalemme (Travaini, 2003, pp. 55-56).
Si riteneva che il tarì-peso di 0,89 g fosse stato introdotto già in età normanna, ma lo studio di alcuni ripostigli di tarì normanni ha invece dimostrato che almeno fino al regno di Guglielmo I (1154-1166) il tarì-peso era ancora di 1,05 g, secondo il sistema ponderale fatimide. Il peso stan-dard si ridusse progressivamente e forse già intorno al 1200 a Messina si valutava su 0,89 g mentre a Palermo ancora resisteva lo standard più elevato. Nel 1231, con la creazione dell'augustale, Federico introdusse una riforma ponderale con la quale cercò di imporre in tutto il Regno pesi e misure uniformi: "pondus generale regni" (Historia diplomatica, IV, 1, p. 265). Fino al 1232 sono documentati riferimenti a pagamenti in once di tarì "al peso di Messina", "al peso di Barletta", "al peso di Cosenza" (Martin, 1999, p. 171), ma dal 1232, dopo le Costituzioni di Melfi, si parla di "peso del Regno": che cosa significa veramente? quanto diversi tra loro erano i pesi locali? le diversità erano forse solo di uso notarile, facendo riferimento al peso di una città nel senso di responsabilità del locale ufficio dei pesi per il controllo delle bilance e dei pesi monetali? A queste domande è difficile rispondere. Una fonte importante, il Liber Abbaci di Leonardo Fibonacci ci informa che intorno al 1202 (anno in cui fu composto il Liber) l'oncia di Messina era già divisa in 30 tarì ("tareni 30 faciunt ibi unciam 1"), e che l'oncia di Palermo era composta da 27 tarì e un terzo ("uncia Panormi est tareni 1/3 27"; Scritti di Leonardo Pisano, 1857, p. 93): è bene precisare che i tarì-moneta erano gli stessi in uso in tutto il Regno, ciò che variava era lo standard al quale erano pesati, e sul quale verosimilmente anche i prezzi erano calcolati .
L'augustale divenne la moneta di riferimento delle scritture subito dopo la sua introduzione e le penali risultano fissate in augustali, e tali restarono a lungo nel Regno anche dopo che l'augustale cessò di essere coniato e utilizzato, come per esempio negli statuti di Teramo del 1440. Fortunatamente lo stesso testo ci informa del valore di quell'augustale ormai fantasma: "augustalis de argento valoris quindecim carlenorum de argento" (Statuti del Comune di Teramo, 1978, pp. 578-579; Travaini, Monete e storia, 2001).
Dopo le riforme del 1231, ci furono nuove emissioni di denari nel 1236 e nel 1238, quest'ultima di grande importanza per vari aspetti. Il 19 luglio 1238 Federico II, all'assedio di Brescia, trovandosi in grande bisogno di denaro, ordinò la coniazione di nuovi denari molto sviliti; nello stesso momento ordinò di rimuovere dall'incarico della zecca i magistri e tutti gli ufficiali colpevoli di aver divulgato ai mercanti il vero valore dei denari. Federico ordinò di sostituirli con uomini fedeli e dediti solo al bene dello stato, e che non avessero legami con i mercanti (Acta Imperii inedita, I, p. 637). Dunque, nel luglio 1238, in un momento politico molto delicato, Federico II impose nuove misure di controllo sulla zecca, procedendo con un'emissione molto svilita; più che mai aveva bisogno che la zecca fosse in mani fedeli. Per legare a sé il personale, ottenerne il segreto professionale e la dedizione assoluta, Federico II concesse speciali privilegi ed esenzioni.
Un dato rilevante per valutare l'efficacia del controllo imperiale sul Regno riguarda la distribuzione dei ritrovamenti monetali; i denari del periodo 1197-1225 si ritrovano principalmente in Sicilia, mentre quelli successivi sono stati ritrovati in uguale misura nelle due parti amministrative oppure principalmente in Italia meridionale: perché? Sembra verosimile giustificare il fenomeno non soltanto con una diversa quantità di circolazione monetale, ma in primo grado con il controllo più forte dell'amministrazione fiscale nelle terre dove il sovrano o la Curia risiedevano: qui infatti poteva essere distribuita più efficacemente la moneta 'fiscale'. Esempio cruciale in tal senso viene proprio dalle emissioni di denari decise da Federico nel 1238 mentre si trovava all'assedio di Brescia; Riccardo di San Germano ci informa che i nuovi denari furono emessi a Brindisi nel gennaio 1239, con una forte riduzione di fino, e gli esemplari di questa emissione ‒ riconosciuti proprio per il contenuto argenteo ‒ sono diffusissimi nei ritrovamenti. Non così quelli di Messina: nessun denaro è stato finora attribuito come corrispondente a quello di Brindisi per il 1239 benché la coniazione avesse avuto luogo; sappiamo che Federico II era contrariato perché le autorità messinesi ritardavano a cambiare i nuovi denari (Il registro della cancelleria, 2002, pp. 293-294), e sappiamo che nel maggio 1240 gli zecchieri di Messina ricevettero l'ordine di inviare il denaro ottenuto dalla nuova emissione (Travaini, 1993, p. 107). Ci furono dunque problemi a Messina, e ancora una volta i risultati delle ricerche numismatiche coincidono con quanto sappiamo dalle fonti scritte.
Federico II fu maestro nell'uso delle immagini, incluse quelle monetali (per la sua immagine sull'augustale v. Augustale).
Dopo la vittoria di Cortenuova, a nord di Cremona, il 27 novembre 1237, iniziò per Federico un periodo di difficoltà che culminò con la scomunica da parte di Gregorio IX il 20 marzo 1239. L'immagine doveva essere comunque curata, anche su monete di bassa lega e di uso quotidiano: per i denari ordinati nel 1238 dall'assedio di Brescia, Federico scrisse ai suoi vicari nel Regno allegando anche il modello con le immagini delle nuove monete, che mostravano la testa coronata dell'imperatore, posta sui bracci di una croce. L'emissione del 1242 mantenne lo stesso contenuto argenteo, mentre nel 1243 si operò una nuova svalutazione, portando il contenuto metallico al 6,5% di argento in lega; nel 1249 il contenuto fu ancora ridotto (cf. tabella). Della maggior parte dei denari si conoscono anche mezzi denari, e in qualche caso anche frazioni di un quarto di denaro.
Il deprezzamento della moneta più usuale nel Regno portava sicure difficoltà nella definizione dei prezzi, che dovevano essere adeguati a monete sempre più svilite. Per tale motivo la documentazione mostra che a partire dagli anni Trenta del Duecento i pagamenti sono definiti in grani di conto, pari alla ventesima parte del tarì teorico: in tal modo si aveva una definizione fissa sulla quale di volta in volta si sarebbero stabilite le equivalenze con i denari in uso (Martin, 1999, p. 172).
Si viene ora a trattare la politica monetaria dei successori di Federico II. Nonostante Federico avesse raccomandato, nel suo testamento, di non continuare la politica delle imposizioni forzose di denari nel Regno, i suoi successori si trovarono in condizioni tali da non poterne fare a meno: Corrado (1250-1254), Corradino (1254-1258, morto nel 1268) e Manfredi (1258-1266) continuarono a produrre denari (nel formulario di Marsiglia si specificano le emissioni degli alii domini dopo Federico allo standard di 2,08% di argento in lega, e inoltre una riduzione del peso, da 0,885 g a 0,76 g). Furono battuti nelle zecche di Brindisi e Messina con lo stesso sistema di distribuzioni, ma intorno al 1256 la zecca di Brindisi restò probabilmente inattiva e Manfredi trasferì l'attività nella nuova zecca di Manfredonia.
I successori di Federico II continuarono a far emettere tarì siciliani, di peso assai variabile, con legende indicanti il loro nome in latino (R. CONRADVS per Corrado; CONR. SECVNDVS per Corradino; MAYNFRIDVS R per Manfredi). Si conosce un tarì del tipo della classe C di Federico II, ma con legenda C.IMPERATOR, che potrebbe essere considerato come il prodotto di un'emissione celebrativa per Corrado, prima dell'inizio della sua monetazione ufficiale. Questi tarì in genere presentano al centro del dritto un'aquila, con diverse varianti; un tipo di Manfredi si distingue in modo speciale, presentando la testa del sovrano appoggiata sul petto dell'aquila, quale visiva rappresentazione del filius aquilae. Non è possibile dire se alcune emissioni postume di augustali federiciani siano continuate dopo il 1250.
Interessante è anche la questione delle monete emanate dai ribelli, in almeno due occasioni. Uno stato musulmano ribelle all'interno del Regno ebbe vita in Sicilia nella Valle del Belice, con sede principale a Entella, già al tempo di Tancredi: intorno al 1220 il capo Muḥammad Ibn ῾Abbād osò persino battere monete proprie, sullo stesso standard dei denari, ma con legende in arabo su entrambi i lati; Federico riuscì a catturarlo, ma la resistenza fu guidata dalla figlia fino al 1223. In questa zona si segnalano anche i ritrovamenti di alcuni denari federiciani sfregiati: un segno degli aspetti anche rituali che videro spesso protagoniste le monete (D'Angelo, 1975 e 1995; Grierson-Travaini, 1998, pp. 183-184). Secondo alcuni studiosi alla morte di Federico II alcune città si ribellarono emettendo anche monete autonome (ca. 1251-1253); le monete in questione tuttavia sono probabilmente da considerare falsi moderni (si tratta di denari di Amalfi, di Bari, di Napoli: v. Grierson-Travaini, 1998, pp. 184-186).
Problema ugualmente spinoso è proprio quello dei falsi. La loro diffusione in età sveva è infatti documentata da un gran numero di falsi tarì siciliani e di augustali presenti in diverse collezioni, realizzati con un tondello di rame che veniva dorato in superficie: negli esemplari giunti fino a noi la doratura è quasi completamente scomparsa mostrando solo il rame. La produzione di false monete d'oro presupponeva una notevole abilità tecnica, per la preparazione dei conii e del tondello di rame, per la doratura, solitamente applicata col metodo dell'amalgama di mercurio, e infine per la coniazione. Tutto ciò necessitava anche di ingenti mezzi, dato il costo dei materiali e degli strumenti: per tale motivo i falsari di monete d'oro, ma non soltanto di queste, o per lo meno i loro committenti, appartenevano a un livello sociale piuttosto elevato, per il quale era anche più facile spacciare le false monete tra quelle buone; officine di falsari risultano documentate, o sono state ritrovate, nell'ambito di castelli feudali, residenze signorili e perfino chiese (Travaini, 1986). Per i falsari era prevista la pena di morte, ma le leggi e la repressione non bastavano a eliminare il problema.
I privilegi concessi da Federico II ai monetieri del Regno erano simili a quelli dei monetieri del Sacro Romano Impero (v. Ead., 1994). Il tema ha attirato scarso interesse, eppure essi rappresentano quasi un unicum nello stato federiciano, che non lasciava molto spazio alle associazioni professionali. Tali privilegi sono esplicitamente attribuiti a Federico II da documenti posteriori, nei quali la concessione da parte dell'imperatore costituiva il precedente per reclamare dal re la conferma delle immunità ed esenzioni già concesse; nel 1346 la regina Giovanna di Napoli confermò ai monetieri della zecca di Napoli le immunità e i privilegi sulla base di quelli già concessi dall'imperatore prima della sua scomunica (1239), confermando che i privilegi furono concessi da Federico proprio in occasione dell'emissione di denari ordinata nel luglio 1238. I privilegi concessi erano quelli comuni alle associazioni di tal genere: il personale della zecca era immune ed esente da tutti i dazi, collette e servizi, e godeva di foro speciale ed esenzione dai tribunali ordinari. I privilegi erano validi sia che il personale lavorasse effettivamente, sia che fosse momentaneamente inattivo; c'era inoltre il privilegio di ereditarietà che consentiva l'ammissione alla zecca dei figli legittimi.
Un'ultima questione concerne le monete di cuoio che, secondo i cronisti fiorentini Malispini e Villani, nel 1241, durante l'assedio di Faenza, Federico II, rimasto privo di moneta, avrebbe distribuito ai suoi soldati: si trattava di monete di cuoio del valore di 1 augustale, da riconvertire in seguito in moneta sonante. Monete di cuoio sono state attribuite a numerosi sovrani fin dall'antichità e molti autori hanno trattato il tema, alcuni respingendone l'autenticità. La situazione circoscritta dell'episodio federiciano rende plausibile il racconto dei cronisti, ma invece di moneta sarebbe meglio parlare di "gettoni di cuoio" (Courtenay, 1972; Grierson-Travaini, 1998, p. 162).
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