MONFERRATO (A. T., 24-25-26)
Regione storica del Piemonte, quasi interamente compresa nella provincia di Alessandria, i cui limiti geografici possono essere indicati a sud dalla depressione discontinua segnata dal corso del Tanaro (fra Cherasco e Alba), dal Belbo (fra Canelli e Nizza Monferrato) e dalla Bormida (da Bobbio ad Acqui) e a nord dal corso del Po. Un corridoio mediano, dato dalla depressione sinclinale rappresentata dall'insenatura di Villafranca d'Asti, dal basso corso del Borbore e quindi dal Tanaro, solco seguito dalle comunicazioni stradali e ferroviarie tra Alessandria e Torino, divide la regione in due zone (Alto Monferrato a sud; Basso Monferrato a nord). Tutto il Monferrato è in generale un paese collinare che si differenzia dalle regioni che lo circondano per origine, costituzione geologica e morfologia e che possiede una spiccata individualità geografica. Il Basso Monferrato si affianca verso nord-ovest alle cosiddette Colline di Torino: tutto il sistema collinoso Moncalieri-Valenza, degradante da ovest verso est, è una piccola catena a pieghe, che possiamo schematicamente definire una piega a vòlta di strati corrugati, col fianco occidentale che cade bruscamente verso il Po, mentre quello a est scende dolcemente alla conca astigiana, composta di sedimenti marini di età terziaria. Nella maggior parte la fascia collinosa del Basso Monferrato è costituita da terreni calcarei non molto compatti, talvolta teneri, raramente puri, come eccezionalmente avviene nelle numerose cave del Casalese. Più spesso il calcare è commisto a sabbia o ad argilla. Dal prevalere dell'una o dell'altra dipende appunto la differenza fra le terre leggiere e le terre forti, diversamente adatte alle colture. Le altezze decrescono da occidente verso oriente. Nelle Colline di Torino, fino alla rotabile Chivasso-Asti, si hanno le cime più elevate (Bric della Maddalena 716 m., Colle di Superga 670 m.): le Colline Casalesi hanno invece un'altezza inferiore ai 500 m. e verso la loro estremità orientale (Crinale di S. Salvatore 205 m., Bric del Pero m. 277) sono persino più basse o di poco più elevate della pianura torinese (Torino m. 239). L'architettura a pieghe porta alla genesi di valli longitudinali, di cui la più importante è quella della Stura, con la testata fra Tonengo e Moransengo e lo sbocco a una dozzina di km. a monte di Casale. A sud vi sono altri solchi strutturali di analoga origine, ma meno evidenti, perché più brevi o perché spezzati da tagli trasversali (alte valli della Versa, della Grana, ecc.). Queste colline raramente costituiscono alture con creste sottili o vette appuntite come per eccezione si osserva in Val Cerrina (Val Stura), attorno a Villadeati, Cardona (ottime cave di breccia calcarea), Alfiano, Crea, ecc.
Di massima invece, sotto l'azione delle acque e per l'opera secolare dell'uomo, queste formazioni calcaree si sono foggiate a colline con larghe e tondeggianti dorsali e fianchi uniformi che si raccordano dolcemente col fondo delle interposte valli, piatte, poco inclinate.
Origine diversa hanno le colline del bacino astigiano. A sud-ovest della fascia collinare sopracitata, press'a poco nell'interno dell'arco Chieri-Castelnuovo d'Asti-Serravalle d'Asti-Castiglione più a lungo rimase un tranquillo specchio d'acqua, estremo seno del mare Adriatico, nel quale si specchiavano le Colline di Torino, allora isola. In quelle acque andarono depositandosi potenti sedimentazioni di argille azzurre e di sabbie gialle, ricchissime di fossili marini, talvolta includenti grosse lenti di gesso (numerose cave nel comune di Castelnuovo d'Asti e in quelli vicini). Questi strati argillosi e sabbiosi non subirono deformazioni o reale corrugamento come quelli delle Colline di Torino ed emersero per uniforme sollevamento del fondo marino, dando origine a un altipiano a conca. Per lo stabilirsi e il successivo sviluppo della rete idrografica (bacino del Tanaro), il pianalto venne smembrato in tanti frammenti che si modellarono in rilievi collinosi, che furono dal Gastaldi chiamati negativi, appunto per segnalare la loro derivazione da prevalente azione di cause esterne. In generale, sono le sabbie gialle che formano il rilievo, e per la facilità con la quale le acque di scorrimento superficiale le intaccano, esse sono sede di estese escavazioni (calanchi).
Anche l'Alto Monferrato è una regione di colline: il terreno presenta una pendenza generale verso Alessandria, ove convergono tutti i fiumi, compreso il Tanaro; continuano i caratteri di facile erodibilità per cui i fiumi si sono scavati larghi solchi, percorsi da rotabili e da ferrovie.
Uno dei problemi fondamentali del Monferrato è quello dell'acqua: non mancano le piccole fonti a pié dei colli e fra esse notevole posto occupano, anche dal punto di vista industriale, quelle solforose e magnesifere (Villadeati, Murisengo, Serralunga, S. Salvatore, ecc.).
L'avvicendarsi di strati variamente permeabili favorisce l'acqua perenne in quasi tutti i pozzi, assai profondi sulle dorsali, dove, attorno a torri e castelli, sorgono quasi sempre i maggiori centri abitati, che non preferirono i fondi vallivi. Ma nel complesso tutta la regione Monferrina è scarsa di acqua. Per opera del governo fascista, è stato inaugurato un grandioso acquedotto per i bisogni di parte dei comuni.
Il Monferrato è una regione d'intenso popolamento. Le cinque zone agrarie (Alto e Medio Astigiano; Alto, Medio, Basso Monferrato) con una superficie di circa 1800 kmq. avrebbero una popolazione di 283.000 abitanti (cens. 1931). Numerosi i comuni con più di 200 ab. per kmq. (Cisterna d'Asti, Portacomaro, Scurzolengo, Moncalvo, S. Giorgio, ecc.), omettendo naturalmente i comuni nei quali sorgono i grandi centri, quali Asti, Valenza, Casale (vedi alle rispettive voci), le cui alte densità sono influenzate quasi interamente dal nucleo urbano. L'agricoltura è intensa: campi e prati naturali coprono in prevalenza solo il fondo delle valli e le pendici più basse e più dolci; rari i prati irrigui, che si distendono unicamente nelle brevi pianure (tra Casale e Giarole, tra il piede collinare e il Po). In luogo degli antichi boschi (querce, olmi, castagni) regna ora sovrano nelle zone di pendice e sulle sommità il vigneto, la coltura specializzata per cui va meritamente famoso il Monferrato. La vite è diversamente tenuta: su grossi pali inchiodati e incrociati, come nella zona di Chieri; su pali o pilastrini di granito o di cemento armato e fili di ferro, come nel Casalese; su canne riunite a fascio a mo' di palo nella stessa plaga e più a oriente sino al Valenzano.
Fiorentissima è perciò l'industria vinicola: accanto a questa è da ricordare quella della calce e dei cementi, le cui materie prime abbondantemente si ricavano da alcuni nuclei collineschi attorno a Casale, tutti forati da gallerie e da pozzi di estrazione. Attualmente non meno di trenta fabbriche con 4000 operai attendono a questa industria.
Buone le vie di comunicazione: circoscrivono parzialmente la regione le ferrovie Torino-Chivasso-Trino-Casale a nord e l'Alba-Nizza Monferrato-Acqui a sud: l'attraversa nel senso meridiano la grande arteria elettrica a doppio binario Alessandria-Asti-Torino. Asti è il centro ferroviario principale.
Il marchesato e il ducato di Monferrato.
Il marchesato di Monferrato si costituì alla fine del sec. X, o al principio dell'XI, in seguito allo smembramento della marca di Aleramo; ma soltanto a cominciare dalla metà del sec. XII esso appare bene individuato e la sua storia è largamente documentata.
Disteso sul terreno collinoso chiuso tra il Po, a nord e a ovest, il territorio dei comuni di Asti e di Chieri, a sud, nonché lo stesso Po, il Tanaro e la Bormida, a est e a sud-est, il marchesato spingeva lunghe propaggini oltre la Bormida fino alla Scrivia e alle pendici settentrionali dell'Appennino ligure, e oltre il Po nel Canavese e nel Vercellese. In gran parte le terre che lo formavano erano feudi imperiali, in assai minor misura feudi dei vescovi di Asti, Torino, Ivrea, Vercelli; quelli e questi concessi agli Aleramici in tempi diversi. Estranee al marchesato propriamente detto erano le terre della valle della Stura di Demonte, venute in possesso dei signori di Monferrato alla fine del sec. XII e date in feudo ai marchesi di Saluzzo.
Gli Aleramici (v.) stettero a capo del marchesato fino al 1305, anno in cui, morto senza discendenza diretta il marchese Giovanni, il Monferrato, ch'era feudo femminile, passò, contro le pretese degli Aleramici di Saluzzo, a una sorella del defunto, Iolanda, andata sposa all'imperatore Andronico Paleologo, e, per lei, al suo secondogenito Teodoro. Con Teodoro s'inizia la dinastia Paleologo, che conta i seguenti marchesi: Teodoro I (1305-1338), Giovanni II (1338-1372), Secondotto (1372-1378), Giovanni III (1378-1381), Teodoro II (1381-1418), Giangiacomo (1418-1445) Giovanni IV (1445-1464), Guglielmo VIII (1464-1483), Bonifazio III (1483-1494), Guglielmo IX (1494-1518), Bonifazio IV (1518-1530), Giangiorgio (1530-1533).
L'unità del marchesato fu salvata in ogni tempo dal principio dell'indivisibilità e della primogenitura. Governo e amministrazione non erano diversi da quelli di tutti i grandi feudi. Il potere deliberativo veniva esercitato dal marchese, con l'assistenza di un consiglio personale, composto di congiunti del signore, di vassalli, di ecclesiastici, di uomini di legge. Organi centrali di governo erano la curia, presieduta dal giudice o vicario generale, a cui faceva capo l'amministrazione della giustizia; la camera o fisco, con alla testa il maestro delle entrate, per l'amministrazione finanziaria; e la cancelleria, diretta dal notaio generale e del sacro palazzo. La curia fu poi sostituita nella seconda metà del sec. XV da un senato. Sede del governo fu Chivasso fino al 1435, e dopo d'allora Casale, un comune che s'era dato ai marchesi nel 1278 e nel 1316, ma che restò in loro saldo e stabile possesso soltanto dopo il 1404. Buon numero di terre e di comunità rurali dipendevano direttamente dal marchese, che le governava per mezzo di castellani, o vicarî, o rettori, o podestà; la nomina e i poteri dei quali variavano col variare della natura, della dipendenza delle terre stesse. Altri luoghi, non pochi, erano tenuti in feudo da nobili (conti di S. Giorgio e di S. Martino, marchesi del Carretto, d'Incisa, di Cortemiglia, ecc.) o da consortili di famiglie nobili uscenti da uno stesso ceppo; i quali ultimi si davano un ordinamento simile a quello delle comunità e talvolta escludevano i rustici soggetti da ogni partecipazione al potere, talvolta dovevano concedere loro alcune libertà, che li ponevano in una condizione giuridicamente non troppo inferiore a quella di cui godevano gli abitatori delle comunità dipendenti dai marchesi. Infine altre terre, sparse qua e là nel Monferrato, costituivano i possessi allodiali dei marchesi e venivano date in affitto oppure amministrate per mezzo di gastaldi.
L'ordinamento finanziario, giudiziario e militare del Monferrato non presenta caratteri particolari che lo distinguano da quello proprio di ogni regime feudale. Si può invece rilevare che, tra l'ultimo scorcio del secolo XIII e il principio del XV, le comunità conquistano via via, in misura, in momenti e in circostanze diversi, sempre maggiori libertà e franchige, le quali creano una grande varietà di relazioni fra il marchese e i suoi sudditi, senza tuttavia mai scuotere il saldo dominio del signore né privarlo dei più alti e gelosi attributi del suo potere. In questo periodo, e più esattamente al principio del sec. XIV, appare anche - altro segno delle mutate relazioni tra i marchesi e i sudditi - l'istituto del parlamento, in cui seggono nobili, rappresentanti delle comunità e, molto più tardi, ecclesiastici. L'assemblea fa sentire la sua voce nelle questioni che concernono l'indirizzo politico dello stato, dà o nega l'assenso ai sussidî richiesti dal marchese, fissa i contingenti militari che le comunità e i nobili vassalli devono fornire. Nella seconda metà del sec. XV, conforme alle tendenze assolutistiche del tempo, incomincia la graduale riduzione delle autonomie e l'accentramento dei poteri nelle mani dei marchesi. Perdura immutata la struttura feudale dello stato, persistono talune libertà; ma è visibile l'avviamento verso una maggiore autorità dei marchesi e una maggiore uniformità di ordinamenti: si forma un diritto comune del Monferrato, che emana dal capo dello stato, e il parlamento, al principio del sec. XVI, scompare.
Povera la vita economica di quel vasto territorio. Lo sviluppo dell'agricoltura, la principale attività dei Monferrini, era ostacolato dall'imperante particolarismo e protezionismo, che isolava economicamente le une dalle altre le terre del marchesato. Non trascurabili, nonostante i molti impedimenti, erano gli scambî commerciali, che avvenivano attraverso il Monferrato tra i comuni subalpini e tra la costa ligure e l'interno. Le strade del marchesato erano ben conosciute dai mercanti genovesi, astigiani, alessandrini, vercellesi: particolarmente la strada lombarda, che congiungeva Milano e Vercelli con Torino passando per Chivasso; quella del Grande e Piccolo San Bernardo, che univa Genova con Ivrea attraverso il Monferrato; e l'altra che collegava Asti e Alessandria lungo il Tanaro. Infine si può fare ricordo di una modesta industria tessile (anch'essa soggetta a restrizioni), i cui prodotti venivano assorbiti dal consumo locale.
Le vicende esterne di questo staterello agricolo-feudale si riassumono in gran parte nelle lotte continue impegnate per difendersi dagli appetiti dei vicini. Incapace di rinnovarsi e di espandersi, esso resiste tuttavia tenacemente a violenze e a insidie. Durante i secoli XII e XIII minacciano l'integrità del territorio monferrino i più forti comuni subalpini, centri attivi di vita economica: Asti, che, chiusa intormo dalle terre del marchesato, cerca d'impadronirsi della zona sulla destra del Tanaro per farsi largo verso il mare; Alessandria, che aspira a congiungersi con Asti lungo il Tanaro, mettendo in serio pericolo l'unità del marchesato; Vercelli, che mira a escludere i marchesi dalla sinistra del Po e della Dora Baltea, e ad aprire una strada al suo commercio verso Alessandria e il mare. Da quelle lotte il marchesato uscì senza perdite sostanziali, seppure con dolorose mutilazioni. Altri e maggiori pericoli esso corse nei secoli XIV e XV, quando Savoia e Visconti affermavano la loro egemonia in Piemonte e in Lombardia, e si contendevano il dominio del territorio marchionale, che sarebbe servito ai signori di Milano per integrare i loro possessi piemontesi e puntare efficacemente alla conquista di Genova, e ai Sabaudi per arginare l'espansione viscontea e allargarsi verso la Lombardia e il mare. Il marchesato si salvò grazie alla politica di equilibrio degli stati italiani, e soprattutto grazie alla rivalità sabaudo-viscontea, che esso seppe spesso volgere a suo profitto. Ci fu peraltro un momento in cui il marchesato parve soccombere nella difficile lotta; e fu tra il 1431 e il 1435 allorché Amedeo VIII di Savoia, giocati diplomaticamente Filippo Maria Visconti e il marchese Giangiacomo, occupò gran parte dello stato e riuscì a farsi cedere alcune terre sulla sinistra del Po, fra le quali la capitale stessa, Chivasso, e a farsi riconoscere signore feudale per le altre. I successori di Giangiacomo tentarono, con scarso frutto, di ricuperare il perduto e di sottrarsi agli obblighi contratti da lui, ora appoggiandosi ai Visconti e, poi, agli Sforza, ora cercando protezione e assistenza presso la Francia e l'impero. Particolarmente benevolo fu sempre l'atteggiamento degl'imperatori asburgici, i quali riconobbero e riconfermarono i diritti dei marchesi in una serie di diplomi.
Aleramici e Paleologo non si restrinsero sempre alla pura e semplice difesa del loro patrimonio territoriale; ma da Guglielmo VII, a Teodoro I e II, a Giovanni II, a Giangiacomo, cercarono di dare allo stato altro fondamento e carattere con la conquista di grossi centri urbani. Sennonché facevano difetto potenza politica, forza militare, ricchezza, che lo stato non poteva dare; e i soli del resto non disprezzabili acquisti per cui si accrebbe fra il sec. XIV e il XV il marchesato, furono Acqui (1345), Alba (1369) e, come si è detto, Casale, che compensarono le perdite subite in varî tempi per opera dei vicini, ed estesero i confini dello stato verso oriente e verso mezzodì fra il Tanaro e la Bormida.
La vita autonoma del marchesato cessò con l'estinzione della dinastia dei Paleologo. Morto nel 1533 Giangiorgio senza discendenza, il Monferrato fu disputato tra Federico II di Mantova il quale aveva sposato la nipote del defunto, Margherita, appunto con lo scopo di porre la sua candidatura alla successione, e Carlo II, duca di Savoia, la casa del quale poteva vantare molteplici relazioni di parentela con i marchesi, e soprattutto poteva richiamare il contratto nuziale del 1330 fra Iolanda di Monferrato e il conte Aimone di Savoia, in cui era sancita la devoluzione del marchesato ai loro discendenti nel caso che si spegnesse la linea maschile dei Paleologo. La contesa, trattandosi di feudo imperiale, fu decisa dall'imperatore Carlo V, e, per lui, da una commissione apposita, che nel 1536 emise sentenza favorevole a Federico II Gonzaga. Fino al 1559 però il Monferrato, combattendosi tra Spagna e Francia per il predominio in Italia, fu corso e occupato dalle soldatesche dell'una e dell'altra parte; e i Gonzaga ne entrarono in possesso soltanto dopo la pace di Cateau Cambrésis, che confermò l'assegnazione del marchesato ai duchi di Mantova.
Dopo Federico II (1536-1540) si seguirono, a Mantova e nel Monferrato, i duchi Francesco III (1540-1550), Guglielmo (1550-1587), Vincenzo I (1587-1612), Francesco IV (1612), Ferdinando (1613-1626), Vincenzo II (1626-1627). La signoria dei Gonzaga fu ingrata ai Monferrini, che si lamentavano di esserne taglieggiati e oppressi, e fu in modo particolare invisa ai Casalaschi, che perdettero violentemente con essi le loro vecchie libertà municipali (1569). Nella seconda metà del sec. XVI i duchi di Mantova, in specie Vincenzo I, misero letteralmente all'incanto il Monferrato, creando nuovi feudi e offrendoli per denaro, con gli annessi titoli di conti e marchesi, a patrizi mantovani, genovesi, lombardi; di guisa che, al principio del '600, le famiglie vassalle del marchesato erano 265, contro 80, o poco più, dei primi anni del sec. XIII, mentre le terre immediatamente dipendenti dai duchi erano appena 24, e 92 quelle in cui essi esercitavano diritti parziali.
I duchi di Savoia, che non avevano mai smesso il pensiero di ottenere in qualche modo l'agognato paese, si valsero dello stato d'animo ostile dei Monferrini per creare difficoltà al governo dei Gonzaga. I quali sentivano il peso del governo di quelle terre avverse e lontane da Mantova, e cercarono più volte, vanamente, d'indurre gli Spagnoli alla permuta del Monferrato con un territorio contiguo al Mantovano, cioè col Cremonese. Riuscì per contro a Guglielmo Gonzaga di ottenere dall'imperatore Massimiliano II nel 1675, a maggiore lustro del proprio nome, l'erezione del marchesato in ducato.
Degli anni intorno al 1600 sono i primi dati statistici attendibili che possediamo sul Monferrato. In quell'epoca l'estensione del territorio era di moggia 550 mila in cifra tonda (un moggio del Monferrato equivaleva a mq. 3238,6366). Gli abitanti ammontavano a 150 mila circa, e potevano fornire al duca poco meno di 17 mila soldati. Il bilancio del 1600 faceva salire le entrate a oltre 167 mila e le spese a oltre 56 mila scudi d'oro. Secondo un documento ufficiale più tardo, il Monferrato produsse nel 1667 circa 304 mila sacchi di granaglie.
Le tenaci ambizioni di Savoia sul ducato provocarono due guerre al principio del sec. XVII: la prima alla morte di Francesco IV Gonzaga (1612) che aveva sposato una figliola di Carlo Emanuele I, Margherita di Savoia, e lasciava una sola figlia, Maria; la seconda alla morte di Vincenzo II Gonzaga (1627), del quale non restava alcun erede diretto. Entrambe le guerre, intese a far valere vecchi e nuovi diritti della casa di Savoia sul Monferrato, ebbero esito infelice per Carlo Emanuele I. Tuttavia il trattato di Cherasco, con il quale si chiuse la seconda guerra, fruttò al ducato di Savoia una buona porzione del paese conteso, e cioè Alba e Trino con il loro territorio, nonché altre ottantaquattro piccole terre (v. mantova e monferrato, guerra di successione di). I Gonzaga Nevers, successi al ramo diretto dei Gonzaga, e cioè Carlo I (1631-1637), Carlo II (1637-1665) e Ferdinando Carlo (1665-1707) governarono pessimamente il residuo territorio monferrino. Ferdinando Carlo, l'ultimo e il peggiore dei duchi di Mantova e Monferrato, vendette nel 1681 a Luigi XIV la cittadella di Casale, poderosa fortezza che dava ai Borboni un solido punto di appoggio nella lotta contro gli Asburgo di Spagna e d'Austria in Italia. Durante la guerra della Lega d'Augusta, Casale venne ritolta alla Francia dalle armi austro-sabaude (1695), e restituita a Ferdinando Carlo, dopo che ne furono demolite le fortificazioni. Qualche anno più tardi, all'inizio della guerra di successione di Spagna, lo stesso Ferdinando Carlo diede in mano ai Francesi il suo stato (1701). Dichiarato reo di fellonia dall'imperatore, suo sovrano feudale, e spogliato degli stati e dei diritti, Mantova ricadde all'impero, e il Monferrato, dopo la vittoria di Torino, fu assegnato finalmente a Vittorio Amedeo II (1708). I trattati di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) confermarono definitivamente l'attribuzione del Monferrato alla casa di Savoia. Da allora la storia dell'antico marchesato si confonde con quella del Piemonte (v.).
Bibl.: V. aleramici. Inoltre: V. De Conti, Notizie storiche della città di Casale e del Monferrato, voll. 10, Casale 1838-41; D. Brader, Bonifaz von Montferrat bis zum Antritt der Kreuzfahrt (1202), in Hist. Studien, fasc. 55, Berlino 1907, cap. i; A. Bozzola, Un capitano di guerra e signore subalpino: Guglielmo VII di Monferrato, estr. dalla Miscell. di st. patria per le ant. provincie e la Lombardia, s. 3ª, XIX (1920), introudizone; id., Appunti sulla vita economica, sulle classi sociali e sull'ordinamento amministrativo del Monferrato nei secoli XIV e XV, estratto dal Boll. storico bibl. subalp., XXV (1923), fascicoli 3-4; id., Parlamento del Monferrato, in Atti d. assemblee costituz. ital., s. 1ª, Bologna 1926; F. Cognasso, La questione del Monferrato prima del lodo di Carlo V, in Ann. dell'Ist. sup. di magistero del Piemonte, III, Torino 1929; P. Marchisio, L'arbitrato di Carlo V nella causa del Monferrato, in Atti d. R. Accad. d. scienze di Torino, XLII (1907), disp. 15; R. Quazza, Emanuele Filiberto di Savoia e Guglielmo Gonzaga (1559-1580), in Atti e mem. d. R. Accad. Virgiliana di Mantova, Mantova 1929; G. Giorcelli, Il bilancio del ducato di Monferrato nel 1600, in Riv. di st., arte, arch. della prov. di Alessandria, II (1893), fasc. 4; id., Le città, le terre e i castelli del Monferrato descritti nel 1604 da Evandro Baronino, ibid., XIII (1904), fascicoli 16-18; G. Fochessati, I Gonzaga di Mantova e l'ultimo duca, Milano 1930; F. Valerani, Secondo cent. dell'annessione del Monferrato ai domini di Casa Savoia, in Riv. di st., arte, arch. d. prov. di Aless., XVII, fasc. 30.