MONODIA
. Composto con le parole greche μόνος "solo" e ᾠδή "canto", questo termine, già corrispondente in proprio ai monologhi frequenti nel teatro classico, oggi designa, presso i musicologi, il canto a una voce reale (eseguito sia da una, sia da più persone) con o senza accompagnamento.
La monodia compare in ogni tempo e in ogni civiltà, sì che poco opportuno diventa il riserbarne il nome - come sogliono alcuni lessicografi - a una sola delle tante manifestazioni monodiche datesi nei secoli, e cioè alla cosiddetta "monodia accompagnata" accolta nella musica dotta dagli umanisti fiorentini e romani dell'ultimo Cinquecento.
Considerata fenomenicamente, la monodia appare come la manifestazione più semplice del fatto musicale, e naturalisticamente ne appare anche la primigenia. A posizioni parimenti naturalistiche conduce anche il concetto wagneriano dell'arte nata da una originaria espressione sintesi di gesto-parola-suono.
In queste concezioni si neglige il carattere di totale sintesi lirica, comune a tutte le espressioni artistiche, per il quale complessità è nella monodia quanto nella polifonia e per il quale monodia (cioè canto) altro è che flessione fonica del parlare comune, e parimenti altra ne è la posizione storica.
E infatti, se è vero che informazioni e documenti inducono a ritenere monodica la musica delle civiltà antiche e delle medioevali fino agli ultimi secoli del primo millennio cristiano, è però anche autentica la plurivocalità del canto di alcune genti rimaste fuori - come per es. i pastori sardi - del movimento musicale aulico; mentre spesso la monodia rappresenta una sensibilità musicale di suprema finezza e nobiltà, come si nota nelle poche musiche che ci sono pervenute dall'antica Grecia, o nella fioritura del canto liturgico cristiano, o nell'arte di un Monteverdi e di un Bellini: musiche certamente "semplici" nella loro figura esteriore, ma nel valore espressivo del loro melos, del loro giuoco sintattico, ricche e profonde.
Cosicché, liberato il concetto di monodia dall'improprio attributo di elementarità (cioè di maggiore semplicità e di storica primogenitura), ne ritroviamo i limiti in quelli d'un'espressione musicale interamente concretata nella sola linea (naturalmente mossa del ritmo), cioè negli stessi della "melodia".
Di un'egemonia, non che esclusività, monodica presso gli antichi popoli d'Oriente, non si parla per documenti diretti (irreperibili per l'assenza o per lo smarrimento, attraverso i tempi, di notazioni o per la genericità delle testimonianze) quanto per via di congetture. Lo stesso passo biblico (II Cronache, V, 12-13) preso a documento di stile monodico: "... suonavano le trombe e cantavano, producendo un unico suono (o voce)..." potrebbe infatti alludere, nella genericità della terminologia biblica, soltanto a isocronia (la cosiddetta "omofonia corale" dell'impropria terminologia scolastica).
Di quella pratica orientale di canto (esclusivamente monodica o no) a noi oggi interamente sconosciuta nelle sue proprietà intrinseche, possiamo in ogni modo stabilire il frequente uso d'un accompagnamento strumentale, come risulta da documenti egizî, sumeri, assirobabilonesi ed ebraici, che ci offrono ora figure di cantori vicino a figure di strumentisti, ora narrazioni a tal proposito abbastanza precise. Notevole tra i documenti egizî la figurazione del tempio di Luxor (XVIII dinastia), rappresentante un corteo con coristi cui s'accompagnano suonatori di tamburi, crotali e arpe. Tale costume si documenta, come in quelle civiltà egizie e asiatiche, anche nella cretese-micenea (v.), di esse per gran tempo coeva e con esse in più elementi collegata, e nella greca cui da quella si giunge (data anche la presenza nel periodo miceneo di genti eoliche e ioniche) senza soluzione di continuità.
Meno certa è la funzione di questo coefficiente strumentale riguardo alla monodia vocale: funzioni di sostegno tonale (talvolta ad arpeggi) o esplicitamente melodico (raddoppio all'unisono o all'8ª, con o senza fioriture), continuo o meno, o di semplice contributo proprio: preludî, interludî, postludî, o anche soltanto - come per le percussioni presso gli Orientali - di scansione ritmica: tutte queste possibilità si rinvengono nell'"accompagnamento" dell'antica monodia, attraverso popoli e tempi.
Della musicalità ellenica ci giungono notizie teoriche e storiografiche ben più ricche di quelle pervenuteci delle altre del mondo antico, così da indurre, nello studio della monodia, a pur caute interpretazioni dei pochissimi documenti diretti.
Il mnto greco sembra avere antecedenti prossimi nell'innodia eolica (micenea) di natura sacrale, cui potremmo attribuire, data l'indole di quella stirpe e la probabile musicalità (e musicabilità) della loro espressione formale, un melos vero e proprio.
L'egemonia dell'ἔπος ionico (tempi immediatamente preomerici e omericoesiodei, fino al tardo sec. VIII) sembra ridurre il canto da melico a recitativo (cfr. per es. lo Pseudo-Platone: Ione), più o meno intonato agli esponenti d'una formuletta fondamentale (di verso in verso ripresa) e al suono - continuo o no - della citara (ϕόρμιγξ): involuzione cui il melos sembra soggiacere anche negli ἔπη dell'altra scuola ionica: dei giambo-elegiaci dal sec. VII in poi.
Riassunta dignità nell'ascesa eolio-dorica (sec. VII-V) la lirica si riorganizza in unitario complesso di diverse funzioni struttive, cioè in forme musicali e musicabili ben più della continua narrazione epica degli Ioni, e s'esprime infatti in nuovo melos, del cui potente lirismo ci informano gli storiografi e spesso gli stessi autori o altri poeti. Questo melos, il cui proprio disegno (o contorno) non possiamo che immaginare - nell'assenza di documenti diretti - dalle melodie di tempi relativamente recenti o di altra destinazione (il frammento euripideo che più oltre si illustra e gl'inni delfici del II sec. a. C.), si svolge in usi stilistici: forme, tonalità, generi armonistici, ritmi e metri, concorsi strumentali, dei quali abbiamo notizia.
L'orientamento comune appare diretto alla varietà dell'espressione. All'autoritario sacrale nomos citarodico (a solo) di Terpandro, monometrico, schema prima ternario, poi settemplice, il quale del resto fonda un duraturo genere (nomico) di composizione tematica, si aggiunge il libero melos delle strofe corali, sempre più poliritmiche da Alcmane a Pindaro e ai tragedi. Nel quale processo si dispiega il differenziamento del costituente armonistico, che alla linearità del diatonismo severo aggiunge (già con Terpandro?) la pratica della modulazione - prima nella monodia solistica poi nella corale - e dipoi l'intensità sensualistica del cromatismo (trionfante nel sec. V con Frinide) e dell'enarmonia (Timoteo, allievo di Frinide), innervando di fremiti o agogismi la linea (ormai ampliata anch'essa dal remoto ambito di 4ª al classico di 8ª) del puro melos. Parimenti si variava il timbro dalla severa esiguità numerica e dall'intrinseca semplicità degli strumenti di Terpandro e di Alcmane fino alla complessità (pur sempre relativa) dell'orchestra neoditirambica e teatrale.
Della finezza suprema e del fervore - pur severamente contenuto - della monodia ellenica dei tempi classici ci perviene il seguente documento euripideo, nel quale si noterà, tecnicamente, il nucleo (cromatico come lo volle F.-A. Gevaert, o enarmonico, come sulle tracce di Th. Reinach lo ritiene Carlo del Grande) della frase generatrice e le entrate strumentali disciplinate da speciali segni (qui trascritti in apposito rigo):
All'intima organicità di questo mondo classico non sembrano giungere le musiche degli ellenisti né quelle degli ellenizzanti dei primissimi secoli dell'era volgare, variamente distinte da intenti più o meno arcaizzanti, proprî d'una tradizione ancora autoritaria nell'ordine teoretico, e da sensi sempre meno rispondenti allo spirito che di essa tradizione aveva recato i motivi.
Già nell'arcaismo degl'inni delfici (sec. II a. C.) si notano ambiguità: interferenze di stilemi proprî del tempo maturo (frequente modulazione, ampliamento dell'ambito melodico dall'8ª euripidea all'11ª del 2° delfico) possono revocare in un certo dubbio l'intima ragione delle stilistiche date per arcaizzanti: rinunzia all'enarmonia, prevalenza del diatonismo sul cromatismo e così via; stilistiche delle quali non è prudente negligere le ulteriori vicende che le condurranno non già a rapida consunzione ma a vastissimo e duraturo rigoglio.
Se i caratteri melici dell'ispirazione non ci consentono ancora una chiara visione della posizione storica dei delfici, sintomi più evidenti e significativi possiamo trovare nello scolio di Tralles (epitafio di Sicilo, sec. I [o II?] d. C.) il cui movimento melico singolarmente fresco e vivido (nonostante il richiamarsi dell'ispirazione poetica agli antichi modelli lesbici) tanto da riprodursi in un'antifona cristiana distante di secoli, assume un vigore ritmico suo proprio - comprovato da una propria semiografia di valori soprascritta alle note - che tra l'altro libera il disegno dalla tradizionale servitù agli accenti tonici della parola, cui non sempre qui corrisponde l'altezza della nota:
Analoghi sintomi appaiono poi anche più espliciti in documenti tuttavia ellenizzanti che succedono allo scolio di Tralles: negl'inni che vanno sotto il nome di Mesomede (circa la metà del sec. II) alla cui analisi ritmica il criterio quantitativo non sempre fornisce soluzioni abbastanza semplici per essere categoriche, e soprattutto negl'inni cristiani di recente trovati in Egitto (a Ossirinco e altrove; sec. III-IV), nei quali si ripetono, a più larga conferma, i caratteri - già annunziati dall'epitafio di Sicilo - di autonomia ritmico-melica, comprovata, come si vede nel papiro da Ossirinco, e dalla presenza d'una semiografia di valori (dove la quantità sillabica non sempre trova conferma) e dallo svincolo dell'altezza della nota dalle antiche esigenze dell'accento tonico.
Così, anche in queste vestigia di un'arte pur meno indirettamente collegata con la scuola classica vediamo affiorare non tanto nuove gemmazioni di legittime discendenze auliche quanto stilemi - perfettamente analoghi ai coevi nelle altre scuole determinati da altre correnti e tradizioni - i cui precedenti greco-romani possono meglio discernersi, se mai, in tendenze e in usi o di popolo o di generi non esplicitamente estetici. Il valore storico dei quali stilemi, sì necessarî ormai da violare perfino tra gli ellenizzanti i principî dell'arte ellenica, come anche la subordinazione dei coefficienti greco-romani dianzi rammentati, si dimostrano nella coerente ascesa cui nei secoli III e IV vediamo i loro analoghi avviare il canto a nuova unità estetica che presto giungerà ad egemonia.
Nel corso di questi secoli le tarde propaggini del canto propriamente ellenizzante si rinvengono infatti attraverso il sempre più fitto intrico di ben più rigogliose efflorescenze, di succo in gran parte orientale (specialmente semita, come è anche indicato dalla provenienza biblica di pressoché tutti i testi liturgici cristiani), nelle quali gli elementi - sinora soltanto in parte intravveduti - di accentuazione per intensità, di musicabilità della prosa, di virtuale libertà del ritmo melico dalle quantità sillabiche (e quindi dai metri in esse determinati) ora s'impongono crudamente, ora si transvalutano in una con gli stilemi classici o popolareschi tra i quali interferiscono, in un complesso movimento dialettico.
Indice primo di questo movimento s'era dato, già nei primi secoli dell'era nuova, nella rapida diffusione del canto su testi in prosa (uso semita, mai classico) che quasi tutti i suesposti elementi comportava. Nei primi documenti diretti che ci siano giunti, il movimento sembra già organizzato in sufficiente unità di stile. E anche il non biblico Credo, già nella melodia più antica, mostra un canto su testo prosastico, nel quale il movimento non è più determinato di sillaba in sillaba dalle quantità (il valore della nota non cambia che ingrandendosi sulle finali di ogni distinctio, dove spesso favorisce il fiorire di melismi d'interpunzione), ma piuttosto s'avvia liberamente da questo a quell'accento (non più melodico ma dinamico) da potenziarsi nel corso del periodo:
Così, anche in simili canti pur meno direttamente sostanziati, quanto al rito e al testo letterario, dalle sorgenti bibliche, si conferma l'azione svolta dagli elementi già orientali - nel seno delle vicende estetico-linguistiche, del resto convergenti, della fioritura cristiana - nell'affermazione del nuovo stile melico. Ché anzi nel passo ora illustrato compare perfino tra i concetti melici, oltre che tra i verbali, il tipico stilema ebraico (già più proprio della poesia) del parallelismo.
Con eguale evidenza l'azione orientale mostra tali risultati nella corrente centrale della liturgia.
I caratteri interiori della nuova monodia, ora veduti nei canti di nascita cristiana, si trovano infatti nella sostanza di pressoché tutti i canti del tempo, dal genere recitativo (Lectiones, Epistole, Vangeli, Praefatio) al melodico (oltre al Credo, l'orazione domenicale, il Te Deum, i varî tipi di salmodia: sillabico, fiorito, ecc.) e - quelli d'ordine esclusivamente melico - al melismatico (Alleluia, Tractus, ecc.). Tra i quali generi si passa non già da uno stile melico all'altro, ma da una a un'altra esplicazione di comuni sensi: intesi ora ad austera, quasi analitica riflessione (nei varî accentus), ora rapiti in mistica estasi (nei concentus della salmodia fiorita e negli alleluiatici).
E infatti tali varietà d'atteggiamenti si dànno spesso nel seno della stessa composizione - quando si tratti di composizioni complesse - dall'una all'altra parte struttiva, come si nota nei canti a schema mesodico tra antifona (o tra alleluia) e versetto; mentre altre volte il variare delle solennità nell'anno liturgico viene a variare la stessa frase melodica attraverso minori o maggiori espansioni melismatiche.
La probabilità d'un coefficiente impulso di ragione liturgica non solo in siffatte variazioni del materiale melodico ma anche nella determinazione delle forme componistiche: tono di lezione, salmodia responsoriale e antifonica, ecc., nei loro schemi monostrofici (a svolgimento continuo), binarî o ternarî o altro - probabilità avvalorata anche dalla provenienza biblica di quasi tutto il fondo letterario dell'ufficio (606 dei 631 testi) -, induce a considerare con cautela, se non a limitare in termini sicuri, l'azione propulsiva delle correnti gnostiche e in genere ellenizzanti nel rinnovamento melico concretantesi nelle forme suesposte. Le quali correnti possono, certo, aver contribuito - alcune più in Oriente, altre più nel mondo già classico - all'assimilazione, e quindi all'evoluzione, di elementi pur già vigorosi e fecondi: varietà, p. es., di vocalizzi (a nota ribattuta, a Bisanzio teretisma, nella latinità strophicus, o vox tremula; o melismatici come il προκείμενον bizantino e il psalmellus dei latini), quali si notano in frammenti d'origine gnostica di epoca per noi già non più remota (papiri di Berlino, secoli V-VII); varietà tra ritmi e ritmi nella stessa composizione, quasi in libertà prosastica, come già la classicità aveva dato; tendenze melodiche concretatesi già in canti ellenistici (scolio di Tralles), delle quali alcuni canti cristiani sembrano amare il ricordo (Hosanna antifonico dell'Ufficio delle Palme). Ma queste e altre possibili azioni, così eterogenee e sconnesse tra l'una e l'altra, non assumono efficienza se non in virtù di un impulso unitario e unificatore, quale è stato prima illustrato. Esse non forniscono dunque concretezza alle varie analogie intercedenti tra forme elleniche (nomiche o tristrofiche, ecc.) e forme cristiane (monostrofiche o mesodiche); le quali analogie, piuttosto estrinseche, si ripetono nel costante avviarsi della costruzione musicale - in tutti i tempi e dovunque - verso le due finali preferenze del disegno continuo e del tripartito.
Dubbio più delicato concerne l'azione ellenizzante - nella salmodia restringibile specialmente fra i termini teoretici - presso gl'innografi orientali o d'orientale derivazione. Ma l'ambiguità stilistica già incontrata, tra i primi, nel documento da Ossirinco, sembra mutarsi anch'essa, nell'innodia che nel maturo sec. IV passa con Ilario di Poitiers e con S. Ambrogio dalla Siria in Occidente, in ambiguità tra stile (risolvente correnti semitiche, ellenistiche, gnostiche e soprattutto popolaresche) e teoria (che quello stile interpreta in senso classico).
La stessa purezza poetico-musicale, cui - circa un secolo dopo l'ambiguo inno da Ossirinco e in crescente rigoglio del predominante melos salmodico - si ritorna nel dimetro giambico ambrosiano, ci appare dovuta probabilmente a un'intenzionale esplicazione metrica, in termini classici, suggerita da un ritmo omotonico (frequente nell'innodia non solo latina ma anche bizantina), proprio d'una preesistente melodia.
E infatti da tale applicazione di nuovi testi a melodie già note nasce e si sviluppa lo stesso genere innodico - largamente popolaresco e al popolo dedicato - da Efrem di Edessa a S. Gregorio Nazianzeno (e in certo modo ai troparisti bizantini), a Ilario di Poitiers, a S. Ambrogio e via via nei secoli, sempre più chiaramente determinandosi, da S. Ambrogio in poi, in ritmica omotonica.
Come si vede, l'elemento classicista nel rinnovamento melico - sia nelle correnti salmodiche sia nelle varie innodie - costituisce più che altro l'ambiente culturale, solo in sottili tropismi estetico, nel quale agisce, pure evolvendosi, un prepotente impulso orientale e popolaresco. Nell'ascesa del melos a riconosciuta totalità lirica (entelechia del movimento che si viene illustrando) il vigore del popolaresco ritmo innodico (in varie forme) s'infonde, rinnovatore, nella melismatica delle scholae, altrimenti votata, dopo l'organica pienezza dei tempi gregoriani, a senile ipertrofia.
Correnti popolaresche o di locale tradizione vengono infatti, o direttamente, o attraverso la consacrazione dei varî riti latini e orientali, a potenziare il canto religioso, già innodico o con l'inno tendenzialmente convergente, spingendolo sempre più addentro nel canto liturgico ufficiale.
Caratterizzato in Oriente dall'attività dei troparisti bizantini, questo nuovo processo giunge a esplicite manifestazioni latine nella sequenza e nel tropo (dal sec. IX in poi, a Jumièges [?], S. Gallo, S. Marziale, ecc.). Quivi infatti i maturi sensi innodici onde sequenza e tropo traggono possibilità e sostanza penetrano nel seno stesso degli Iubili e dei melismi del Kyrie, dell'Introito, ecc., innervandone le fantasiose volute con il vigore sintattico del ritmo regolare.
Il concentus nel quale, specialmente nel melismatico, la prima fioritura cristiana aveva raggiunto la più alta esplicazione di valori rituali, universali, meglio evocanti la trascendenza, viene ora - attraverso il potenziarsi della semplice e pronta sintassi ritmica popolaresca (variamente orientata nelle diverse emersioni etniche) - a esprimere direttamente stati d'animo più caratterizzati, quasi analizzati nel singolo individuo. Così assistiamo, nei secoli attigui - di là e di qua - all'XI, a una complessa vicenda, ove la melica antifonica (giunta dai lontani secoli IV-VI) e neoresponsoriale (sec. VIII) trova nuove importanti transvalutazioni (e direttamente e attraverso l'evoluzione delle irmologie sequenziali e tropistiche) nel dramma liturgico e nel canto religioso o profano dei varî popoli; mentre i generi stessi del tropo e della sequenza si risolvono alla lor volta nella diffusa, molteplice musicalità del dramma o nel seno stesso dell'innodia dalla quale avevano tratto sostanza e iniziale ragione.
Più semplice, più stretto a omotonia ritmica, come già nelle anteriori vicende dell'inno, il canto sequenziale dei secoli XII e XIII:
mentre ben più libera varietà muove il canto drammatico dall'intenso, quasi analitico recitativo all'espansione, ora fremente di terreni sensi, del già rituale melisma:
Nel quale clima il melos si volge all'esplicazione - entro l'euritmica complessità del suo periodare - dei mille moti individuali, rispondendo compiutamente alle esigenze del dramma e della lirica, comunque esse si presentino: dalla caratterizzazione d'una scena o d'un personaggio (talvolta dichiarata in temi conduttori) alla notazione lirica del più intimo e fuggevole affetto.
Tanto vigorosa è ormai la virtù di questo cantare, che senza pena rivaluta immediatamente ogni stilema e ogni norma tecnica in lirica forza espressiva, come si nota - oltre che nel dramma liturgico e nei varî generi religiosi - nell'arte profana delle correnti trovadoriche (troubadours, trouvères, Minnesänger) ove fluiscono insieme vene già alleluiatiche, innodiche, sequenziali e vene popolaresche dei varî "volgari". Il modo ritmico, p. es., che nella composizione sillabica è fortemente ostentato in espressioni d'indole - appunto - prevalentemente ritmica, spesso prossima alla danza strumentale:
nella composizione fiorita, specialmente se in Adagio, poco sembra fare più che trarre dagli elementi "lunghi" della misura più o meno ampie e sinuose corone melismatiche (non escluse del resto, come già si vede, dagli altri elementi, e frequenti alla finale del verso):
contribuendo però ovunque al consolidamento d'un comune senso di simmetria, ove presto si precisano nuovi e più semplici agogismi tonali. Del quale ultimo sviluppo si notano segni già nei trovatori, in varî passi di drammi liturgici, e specialmente presso i Minnesänger, a tanto predisposti dall'etnico lor senso tonale germanico:
Di qui l'ulteriore vicenda della monodia centro-occidentale, la quale - mentre la bizantina già si disfa nel generale disfacimento di quell'arte aulica - dal sec. XIV al XVI riesce a sopravvivere all'egemonia per tanti secoli tenuta, sia continuando per alcun tempo le stilistiche sue proprie (che un ultimo slancio avevano ricevuto proprio dall'evoluzione suesposta, all'inizio del 1300) attraverso la tarda innodia sequenziale e le forme sceniche del dramma liturgico, dal "mistero" alla lauda e alla sacra rappresentazione - sia rivalutando in proprie virtù alcune forze che l'evoluzione del ritmo verso la futura proporzionalità prima e meglio illustra nella polifonia.
Così nel movimento monodico di questi secoli, dagli scarsi documenti diretti e dagl'indiretti, vediamo l'euritmia del melos rivivere pur attraverso la pratica riduzione della sintassi contrappuntistica a sintassi armonistica.
Il che si manifesta, secondo le più legittime induzioni, negli usi dell'Ars nova franco-fiorentina (la cui scrittura a parti pone in rilievo una voce - quasi sempre la soprana - sulle altre che, vocali o strumentalizzate, seguono come in ombra quella prima), della seconda scuola dei Minnesänger (in questo vicina agli Ars-novisti, dai quali ricevono l'esempio d'un G. de Machault), dei cantori al liuto, dei Meistersänger dal 1300 al 1500. Nel fenomeno tipicamente popolaresco della riduzione di concerto polivocale o bivocale, come, p. es., delle pur semplici scritture di G. de Machault, a partitura vocale-strumentale, la libera voce del solo impone il suo canto a quello dello strumento, suggendone non tanto i valori propriamente melici - già in esso medesimo determinati - quanto quelli che già possiamo dire armonistici, e - in ulteriore esplicazione - i timbrici, a proprio sostegno e lume.
Nel quale procedimento la scrittura delle parti sommesse si avvia a pratiche omofoniche (nota contro nota) che nel liuto (e affini) spezzano la linea in frammenti spesso accordici, densi di agogismo armonistico.
Così, attraverso simili vicende in cui agiscono l'un nell'altro movimenti di derivazione dotta e di popolaresca, per varie vie e correnti (tra l'altro per la fusione stilistica possibile nella pratica dei musici, cantori al liuto nel tempo stesso che di cappella) il canto monodico viene determinando nella sua pratica elementi - come appunto il senso della sintassi armonistica - che ne potranno spiegare il ritorno, alla fine del sec. XVI alla dignità di stile aulico.
Già gli organisti italiani del secondo Cinquecento usano in pratica "accompagnare" un canto, vocale o strumentale (all'organo stesso o in altro strumento) fondandosi su un basso d'armonia (v. basso continuo) che indica la successione degli accordi cardinali del pezzo. Tale uso, che comprova il vigore del movimento musicale verso la moderna monodia accompagnata, si estende rapidamente oltre la cerchia degli organisti, giovando finalmente, tra il 1580 e il 1600, alla realizzazione pratica dei tentativi monodici degli umanisti fiorentini e romani: V. Galilei, E. del Cavaliere, G. Caccini, I. Peri.
I quali, quasi tutti buoni cantori al liuto (ed eredi quindi della lunga tradizione suesposta), nella loro ricerca di uno stile monodico e "rappresentativo" analogo a quello che attribuivano ai classici greci, purificarono in nuova severità di linee quel canto che le loro scuole avevano portato a sfoggio di virtuosismi poco atti a concreta espressione lirica.
I primi documenti della nuova monodia (cioè - nella perdita dei canti galileiani e delle pastorali d'E. del Cavaliere - i madrigali di G. Caccini, Perfidissimo volto, Vedrò 'l mio Sol, Dovrò dunque morire, già eseguiti nel 1592) mostrano nella maturità del loro stile le prove di un tale precedente processo. Nella monodia cacciniana si nota infatti la capacità di risolvere in euritmica sintassi melico-armonistica l'espressione propria d'ogni impulso di affetti, dal più timido e fuggevole al più espansivo, attraverso un eloquio musicale che dall'analitico recitativo (ove il musicista sembra suggere il patetico suono d'ogni parola) si solleva a sintesi melodica nelle ampie volute dell'Arioso.
Stile, dunque, compiutamente rispondente al senso individualistico che indirizzava in quel tempo gli umanisti alla monodia drammatica, ove a persona fisica dovevasi opporre persona fisica, e non cori a cori, come invano vollero un Orazio Vecchi e un Adriano Banchieri.
E presto, infatti, il nuovo stile fu detto rappresentativo, nella rappresentazione drammatica trovando la sua figura, la sua funzione più nuova e tipica. Dal semplice tentativo, non seguito allora, della monodia pura di Alfonso della Viola (nel Sacrificio rappresentato a Ferrara nel 1554) si giunge ora alla coerente stesura monodico-accompagnata d'intere azioni sceniche, in quell'eloquio poetico-musicale che fu detto "recitar cantando". Eloquio che s'è or ora veduto in piena concretezza stilistica nei madrigali del Caccini, tanto nell'analitico recitativo quanto nel sintetico arioso. E nelle musiche composte dal Peri e dal Caccini per l'Euridice, nella Rappresentazione di Anima e di Corpo (1600) di E. del Cavaliere lo stile "rappresentativo" si manifesta più spesso nel recitativo, che meglio ostende i valori verbali cari allo spirito umanistico e meglio sembra rispondere all'esigenza di continuità discorsiva che si giudica necessaria all'esplicazione del corso drammatico. Concezioni, queste, superate già nella produzione monodica di C. Monteverdi, che vediamo nutrire l'espressione delle parole di vigorosa corrente ritmica, da sé esplicante movimenti armonistici e finalmente melodici. Il verso, cioè la "poesia", si dissolve nelle semplici parole, il cui valore emotivo si riprende in un diverso contesto: quello del ritmo musicale, emergente ad estetica supremazia, e cioè ad estetica totalità. Così dall'Orjeo del 1607 all'Incoronazione di Poppea del 1642 lo stile rappresentativo è già attuato nelle forme basilari cui ne' tempi ulteriori fino ai nostri giorni la monodia s'attiene, tendendo ora allo sviluppo del discorso continuo (nelle varie soluzioni del "recitar cantando"), ora a quello del pezzo chiuso (tipo centrale l'Aria che già a mezzo Seicento avvia l'Arioso - pure spesso riemergente nella sua propria figura - a classica finitezza architettonica).
E mentre in breve s'esauriscono i varî tentativi di un ritorno alla ritmica del verso (cfr. p. es. gli Airs mésurés à l'antique, tardo sec. XVI-primo-XVII), attraverso ambedue le correnti: recitativo e aria, si viene confermando la fatale risoluzione del ritmo poetico nel musicale; cioè - dovunque a vero lirismo oggi s'attinga - della poesia nella musica.
Per l'uso monodico nelle varie forme della composizione, specialmente dal 1600 in poi, v. le singole voci: opera; cantata; oratorio; lied; romanza, ecc.
Bibl.: Tra le moltissime pubblicazioni v. specialmente: J. Stainer, The music of the Bible, Londra 1914; A. Cohen, Hébreux, in A. Lavignac, Encycl. de la musique, parte 1ª, Parigi 1914; F.A. Gevaert, Histoire et théorie de la musique de l'antiquité, Gand 1875-81; M. Emmanuel, Grèce, ibid.; C. Del Grande, Espressione musicale dei poeti greci, Napoli 1931; J. Beck, Die Melodien der Troubadours, Strasburgo 1908; id., La musique des troubadours, Parigi 1910; F. Liuzzi, L'espressione musicale nel dramma liturgico, in Studi medievali, II (1929), fasc. 1°; id., Melodie per un mistero italiano del Duecento, in Scenario, Roma 1933; M. Emmanuel, Histoire de la langue musicale, Parigi 1914; Th. Gérold, Monodie et Lied, in A. Lavignac, Encycl. de la musique (parte 2ª).