Montagna
Il tetto del mondo
In vetta
per la scienza
di Francesco Cardarelli
26 luglio
Cinque alpinisti italiani conquistano il K2, a coronamento delle spedizioni organizzate nell'ambito del progetto K2 2004 - 50 anni dopo per celebrare l'impresa del 1954 di Lino Lacedelli e Achille Compagnoni. Nei mesi precedenti era stato scalato l'Everest, la cui cima è stata raggiunta il 24 e il 25 maggio. Le spedizioni, oltre alla valenza sportiva, hanno avuto importanti finalità scientifiche, con ricerche di fisiologia e medicina, glaciologia, scienze ambientali, geodesia, ecocompatibilità.
Tra alpinismo e scienza
"Molte persone, fra quelle che in Italia e all'estero si sono interessate alle vicende della nostra spedizione, sono rimaste sorprese del mio indugiare fra i ghiacciai del Karakorum quando il grosso della spedizione aveva già da tempo fatto ritorno in patria. A tale proposito occorre ricordare che il piano […] prevedeva che la nostra spedizione svolgesse due compiti e cioè uno scientifico e uno alpinistico. La maggioranza del pubblico ha seguito le peripezie del nucleo alpinistico impegnato nella conquista di un'ardua montagna, qual è il K2, e io stesso, per motivi diversi, ho dedicato i miei scritti soprattutto alle vicende dell'ascensione. È così che pochi forse si sono accorti che durante la scalata del K2 operavano nell'ombra gli uomini di scienza, che anch'essi stavano combattendo la loro battaglia contro gli elementi scatenati per cogliere non una meta clamorosa, ma un frutto saporito del loro lavoro, anche se meno facilmente apprezzabile dal grande pubblico". Così scriveva Ardito Desio (2004, p. 237) al suo ritorno dalla celebre spedizione del 1954, culminata il 31 luglio con la conquista 'italiana' da parte di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli della vetta del K2, la seconda cima del mondo e quella ritenuta più difficile, dopo il fallimento di diversi tentativi di varie nazioni.
Solo chi non ha conosciuto Desio può trovare sorprendente che, mentre gli alpinisti tornavano in Italia accolti come autentici eroi, il capo di quell'impresa storica continuasse per due mesi le sue ricerche geologiche tra i ghiacci del Baltoro, del Biafo e dell'Hispar, per giungere nel nostro paese solo l'8 ottobre, dopo continue sollecitazioni a rientrare per le cerimonie in onore della spedizione vittoriosa. Questa straordinaria figura di scienziato, alpinista ed esploratore aveva messo a punto un modello di spedizione alpinistico-scientifica che ha fatto e fa ancora scuola. Per il grande studioso friulano le finalità sportive e quelle della ricerca non erano da considerarsi antitetiche e potevano essere unite efficacemente in un'unica spedizione, con una consistente riduzione delle spese. Negli anni Ottanta, nel pieno esplodere di un alpinismo tutto volto a stabilire record sempre nuovi sui vari 'ottomila', quindi poco incline a condividere imprese extraeuropee con scienziati e ricercatori, Desio tornò a raccomandare l'importanza di non limitare alla sola parte sportiva una grande spedizione alpinistica, ma di riservare una parte alla scienza: "poiché, tutto sommato, ne guadagna il buon nome della spedizione che acquista anche maggiori meriti, e poi anche perché, nel caso che vengano a mancare successi alpinistici, rimangono pur sempre a compensarli i risultati delle ricerche scientifiche" (Baltistan, "L'Universo", 67, 5, settembre-ottobre 1987, p. 489).
Tutti conoscono, almeno a grandi linee, i contorni della conquista del K2 (Chogori, cioè "Grande Montagna" in lingua baltì), se non altro per le rievocazioni proposte da giornali, riviste, libri e televisioni in questo 2004, nel cinquantenario della spedizione, con annesse polemiche sui resoconti ufficiali, sulle circostanze e sullo svolgimento reale della salita alla cima; pochi forse, a esclusione degli addetti ai lavori, sono a conoscenza delle ricerche scientifiche svolte durante quella spedizione e le altre guidate da Desio nel Karakorum e nell'Hindu Kush. Già nel 1953 aveva diretto un'esplorazione scientifica nel Kashmir pakistano, nella regione di Stak e lungo la via del ghiacciaio Baltoro, continuando le ricognizioni e gli studi condotti nel corso delle quattro spedizioni italiane che tra il 1909 e il 1930 si erano arrischiate nella catena del Karakorum. Dopo quelle del 1953 e del 1954, Desio diresse altre sei spedizioni in quelle stesse regioni montuose dell'Asia centrale: nel 1955, nel 1961, nel 1962, nel 1971, nel 1973 e nel 1975. I risultati scientifici di quelle esplorazioni sono contenuti in nove volumi in lingua inglese editi tra il 1964 e il 1991, e in un centinaio di pubblicazioni e di opere minori.
Il progetto K2 2004-50 anni dopo
Per ricordare e celebrare la storica impresa italiana del 1954, sono state promosse varie iniziative, ma fra tutte le più importante è stata sicuramente K2 2004 - 50 anni dopo, un progetto alpinistico e scientifico che ha voluto riproporre in chiave attuale i valori e le sfide di quella grande avventura, associando gli obiettivi sportivi a un complesso programma di ricerche scientifiche, coordinate e finanziate dall'IMONT (Istituto nazionale della montagna, nuova denominazione assunta nel corso del 2004 dall'INRM, Istituto nazionale per la ricerca scientifica e tecnologica sulla montagna).
L'IMONT, presieduto all'epoca di K2 2004 - 50 anni dopo da Giancarlo Morandi e diretto da Antonio Ciaschi, è un ente pubblico istituito nel 1997 ma effettivamente operante dal 2000. In base alle sue finalità è deputato a promuovere, svolgere e coordinare l'attività di studio e di ricerca nel settore montano, ponendosi obiettivi di eccellenza e di rilevanza strategica, in collaborazione con Regioni, enti locali, istituti e centri nazionali e internazionali, sulla base degli indirizzi della Presidenza del consiglio dei ministri e del Ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca (MIUR).
La realizzazione del progetto K2 2004 - 50 anni dopo è stata affidata a tre spedizioni, due sul K2 e una sull'Everest, che hanno visto all'opera la più grande squadra di alpinisti e di ricercatori della storia, impegnata per quattro mesi, tra aprile e agosto, sulle due montagne più alte della Terra, distanti tra loro circa 1300 km. La parte sportiva è stata affidata ad alpinisti di nota professionalità, provenienti da varie regioni delle Alpi e degli Appennini, in rappresentanza di tutta la montagna italiana. Complessivamente, 33 alpinisti, di cui due donne, sotto la guida di Agostino Da Polenza, alla sua quarta avventura sul K2 come alpinista e capospedizione. Al loro fianco, 49 ricercatori, appartenenti a 19 tra dipartimenti universitari e istituti di ricerca, hanno operato su nove progetti afferenti a cinque diverse discipline, sotto la responsabilità scientifica di Paolo Cerretelli (Dipartimento di Scienze e tecnologie biomediche, Università degli studi di Milano) e con il coordinamento, per conto dell'IMONT, di Enrico Bernieri (Laboratori nazionali di Frascati, INFN-Istituto nazionale di fisica nucleare). Sull'Everest sono stati impegnati 36 scienziati, di cui 34 sul versante nord e due su quello sud; sul K2 20 scienziati, di cui 17 sul versante sud e tre su quello nord.
Se le imprese sportive delle spedizioni hanno avuto sufficiente eco nei mezzi di comunicazione - più limitata quella dell'ascesa sulla vetta dell'Everest, compiuta lungo la via della cresta nordovest il 24 maggio da quattro alpinisti, di cui tre senza bombole d'ossigeno, e il 25 da due alpinisti con ossigeno; più vasta quella della 'riconquista' del K2 il 26 luglio a opera di cinque scalatori, tutti privi di bombole, saliti lungo lo sperone Abruzzi sul versante pakistano, la stessa via utilizzata nel 1954 -, le ricerche compiute sulle due montagne, che potevano essere seguite giorno per giorno sul sito realizzato dall'IMONT, sono forse state poco condivise dal grande pubblico, ma avranno importanti ricadute in campo scientifico.
Il progetto K2 2004 - 50 anni dopo non è nato in modo estemporaneo, ma si è inserito in un quadro ormai consolidato di ricerche scientifiche innovative e di eccellenza in alta quota: non solo quelle effettuate nel corso delle spedizioni sopra citate nel Karakorum e nell'Hindu Kush, ma soprattutto quelle promosse a partire dal 1987 nell'ambito del progetto Ev-K2-CNR, incentrato sul Laboratorio-osservatorio internazionale Piramide, operante dal 1990. Quest'ultimo è un laboratorio scientifico d'alta quota permanente, situato in territorio nepalese a Lobuche, a 5050 m, nei pressi del campo base dell'Everest, nel Parco nazionale di Sagarmatha (il nome nepalese della montagna più alta del mondo), completamente autosufficiente dal punto di vista energetico e dotato di tutte le attrezzature di ricerca. Da quando nacque per iniziativa di Ardito Desio, il progetto Ev-K2-CNR è cresciuto visibilmente. In questi anni, oltre 220 ricercatori, di 140 diverse istituzioni, suddivisi nelle varie aree tematiche, hanno partecipato alle ricerche promosse nel suo ambito, producendo oltre 600 pubblicazioni scientifiche, di cui il 25% su riviste internazionali. Sulla base di questa esperienza quindicennale, sono stati predisposti i nove programmi di ricerca compresi nell'iniziativa K2 2004 - 50 anni dopo, distribuiti in cinque diverse aree: fisiologia e medicina, glaciologia, scienze ambientali, geodesia, ecocompatibilità.
Fisiologia e medicina
Le principali limitazioni funzionali a cui va incontro l'organismo umano ad alta quota dipendono dall'ipossia, cioè dalla riduzione della pressione parziale dell'ossigeno nell'aria e quindi nel sangue, a causa della diminuzione della pressione atmosferica, che a 5500 m di quota risulta di circa la metà del valore registrato a livello del mare.
Le ricerche condotte nel corso degli ultimi cinquant'anni nell'ambito dell'Istituto di Fisiologia umana dell'Università degli studi di Milano, in collaborazione con il Consiglio nazionale delle ricerche, in particolare quelle sviluppate nell'ultimo decennio nel Laboratorio Piramide, hanno reso possibile raccogliere molteplici dati sulle risposte cardiocircolatoria, ventilatoria e metabolica dell'organismo in corso di acclimatazione all'alta quota e di quelle del nativo himalayano. Alcuni risultati hanno avuto ricadute interessanti per lo studio di patologie anche a livello del mare. Per esempio si sono rilevate analogie tra modificazioni strutturali e metaboliche, peraltro reversibili, nel muscolo di alpinisti europei e alterazioni caratteristiche dell'invecchiamento nella popolazione ordinaria che vive a livello del mare e in pazienti affetti da malattie cardiorespiratorie croniche.
Nell'ambito di K2 2004 - 50 anni dopo, Cerretelli ha coordinato tre nuovi progetti di ricerca in campo medico-biologico. Il primo di questi, La popolazione tibetana: un modello ideale per lo studio degli adattamenti fisiologici all'ipossia cronica (responsabile Claudio Marconi, IBFM-Istituto di Bioimmagini e fisiologia molecolare del CNR di Milano-Segrate), ha avuto origine da precedenti osservazioni effettuate dalla scuola milanese. Le popolazioni himalayane, contrariamente a quelle andine e ai soggetti nativi del piano ancorché acclimatati, vivono e lavorano in alta quota senza subire alcuna patologia legata al mal di montagna, con prestazioni fisiche molto elevate, simili a quelle di cui sono capaci soggetti caucasici (indoeuropei) a livello del mare. Queste caratteristiche sembrano essere sostenute da modificazioni genetiche, in quanto possedute in parte anche da giovani tibetani nati a bassa quota (seconda generazione), figli di rifugiati che, trasferiti a 5000 m per la prima volta nella vita, hanno mostrato di adattarsi all'altitudine meglio e più rapidamente degli europei. La disponibilità nell'IBFM di un laboratorio d'avanguardia di Scienze della separazione, diretto da Cecilia Gelfi, ha consentito di realizzare la prima mappa di riferimento delle principali proteine presenti nel muscolo umano (proteoma muscolare) in campo internazionale. Successivamente è stato possibile applicare la stessa tecnica allo studio del muscolo dei tibetani nativi dell'alta quota, confermando l'esistenza di caratteristiche trasmissibili geneticamente: per esempio, la maggior presenza di proteine antiossidanti nei muscoli dei tibetani rispetto ai nativi del piano. Queste proteine potrebbero svolgere un ruolo importante nel proteggere le cellule dai danni provocati dai radicali liberi, riscontrati negli alpinisti europei, ma non nei tibetani e negli sherpa, e normalmente ritenuti responsabili anche dell'invecchiamento cellulare.
Nel laboratorio allestito a Shegar, un villaggio tibetano a 4300 m di altezza, sono stati effettuati rilievi su un gruppo di giovani nativi del luogo e, per confronto, su alcuni volontari italiani. In particolare sono state studiate le risposte metaboliche, ventilatorie e cardiocircolatorie durante marcia e corsa di intensità crescente. È stato inoltre valutato, mediante spettroscopia nel vicino infrarosso, lo stato di ossigenazione della corteccia cerebrale e dei muscoli della coscia, sia a riposo sia durante esercizio. Su tutti i soggetti e su un ampio numero di abitanti del villaggio è stato effettuato uno studio ecocardiografico delle caratteristiche del cuore e della circolazione polmonare. I dati preliminari confermano le aspettative: contrariamente ai caucasici, i soggetti tibetani hanno fornito una massima prestazione cardiaca e picchi di potenza aerobica molto elevati, simili ai valori normalmente riscontrati a livello del mare in giovani che presentavano analoghe caratteristiche di allenamento.
Altri risultati originali, e in parte sorprendenti, sono quelli riguardanti il cosiddetto 'paradosso del lattato', cioè la riduzione della massima concentrazione di acido lattico nel sangue sotto sforzo esauriente, che si riscontra in soggetti acclimatati all'alta quota, particolarmente nei soggetti caucasici, ma anche in numerosi soggetti di etnia andina e himalayana. Il fenomeno è considerato paradossale, in quanto ad alta quota - dove si riduce la massima disponibilità di energia ossidativa, a causa della diminuzione della pressione dell'ossigeno nell'aria - alla compromissione del metabolismo aerobico pare accompagnarsi anche una limitazione del metabolismo anaerobico, e quindi la possibilità di far ricorso a fonti energetiche alternative alle sorgenti ossidative. Secondo alcuni studiosi, il paradosso del lattato, transitorio per chi è nativo a livello del mare, sarebbe per i tibetani una caratteristica acquisita geneticamente, indicativa di un miglior funzionamento della macchina ossidativa, che persisterebbe anche a bassa quota. Esperienze precedenti effettuate a Katmandu dal gruppo milanese avevano già portato a ritenere che il fenomeno fosse transitorio anche per i tibetani. Oggi, sulla base degli ultimi dati raccolti, si deve ritenere che tale fenomeno nei nativi di alta quota è del tutto inesistente. Infatti, durante esercizi strenui, i tibetani accumulano nel sangue elevate concentrazioni di acido lattico, analogamente a quanto avviene nei caucasici a livello del mare. L'insieme di questi dati conferma che la macchina metabolica aerobica e anaerobica dei tibetani non è compromessa dall'elevata altitudine: indirettamente si sostiene ulteriormente l'ipotesi dell'esistenza di meccanismi adattativi che proteggono i tibetani dai danni provocati dall'ipossia.
Il secondo programma di ricerche (responsabile Annalisa Cogo, Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale, Università degli studi di Ferrara) è stato dedicato al Monitoraggio continuo (24 ore) diurno e notturno di parametri cardiorespiratori e dell'ossigenazione in alpinisti a quote superiori a 5000 m, per studiare le risposte di adattamento ventilatorio dell'organismo umano all'ipossia e l'effetto procurato da quest'ultima sul polmone. L'esposizione all'ipossia induce modificazioni dell'equilibrio idrico dell'organismo e della permeabilità degli endoteli, che possono dare origine alle forme più gravi del mal di montagna (edema polmonare e cerebrale), ma che sono presenti anche nella forma lieve di AMS (Acute mountain sickness). Recentemente è stato evidenziato che l'imbibizione dell'interstizio polmonare colpirebbe in modo asintomatico il 70% dei soggetti saliti rapidamente a 4500 m. Restano però aperti alcuni quesiti: tale imbibizione caratterizza anche gli alpinisti d'élite? Come cambia nel corso del processo di acclimatazione? Uno degli obiettivi principali è stato quindi lo studio della presenza di imbibizione dell'interstizio polmonare, eseguito attraverso particolari misure spirometriche, a quote superiori ai 4500 m anche dopo un adeguato periodo di acclimatazione. Lo studio delle modificazioni di alcuni parametri di funzionalità respiratoria nel corso dell'esposizione alla quota, della risposta ventilatoria a diversi stimoli, tra i quali l'ipossia, e della relativa modificazione del pattern respiratorio, condotto con apparecchiature d'avanguardia, potrà essere di grande utilità non solo per gli escursionisti e i partecipanti alle spedizioni in alta quota ma anche per i pazienti con patologie respiratorie. I primi dati analizzati sono molto incoraggianti circa la possibilità di ottenere risultati che rispondano esaurientemente ai quesiti posti. Molto interessanti anche i risultati scaturiti dall'indagine sul dosaggio nelle vie aeree del monossido di carbonio (CO), inquinante presente nel fumo di sigaretta e nei prodotti di combustione, che riduce l'ossigenazione, esponendo a livelli di ipossia più severi rispetto a quelli attesi per una data altitudine. Sulla base di precedenti osservazioni compiute nei villaggi nepalesi privi di traffico e di industrie - che avevano mostrato un livello di CO esageratamente alto nell'apparato respiratorio degli abitanti non fumatori, da attribuire all'esposizione alle braci dei focolari e alla tradizionale mancanza dei camini nelle abitazioni - i livelli di CO riscontrati nel personale di cucina (non fumatore) del campo base all'Everest, continuamente esposto ai prodotti della combustione, sono risultati analoghi ai valori dei forti fumatori.
Ipossia cronica da alta quota e sistema endocrino-metabolico: effetti centrali e periferici in soggetti sani è la denominazione del terzo programma di ricerca di ambito fisiologico e medico (responsabile Ezio Ghigo, Dipartimento di Medicina interna, Università degli studi di Torino). Lo scopo della ricerca è stato quello di valutare le relazioni esistenti, nel corso di un soggiorno prolungato in alta quota, tra le condizioni di ipossia cronica, l'esercizio fisico e il sistema endocrino, studiando le modificazioni rilevabili negli alpinisti nel corso della salita all'Everest. Con i dati scientifici raccolti analizzando le funzioni corticosurrenalica, tiroidea, gonadica, somatotropa, la composizione corporea e il controllo del bilancio energetico si potranno ottimizzare condizioni di sforzo e di fatica estremi attraverso supporti terapeutici adeguati.
Glaciologia
L'obiettivo fondamentale dei progetti di ricerca glaciologica di K2 2004 - 50 anni dopo (responsabile Claudio Smiraglia, Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio, Università degli studi di Milano) è quello di comprendere lo 'stato di salute' dei grandi ghiacciai dell'Asia centrale, ampliando di conseguenza la conoscenza dello stato di salute della Terra, in quanto la criosfera, la porzione del pianeta ricoperta da ghiacci, è un indicatore insostituibile dei cambiamenti climatici in atto e dei loro effetti sull'ambiente. Nei ghiacciai si conservano, come racchiuse in preziosi archivi, informazioni impareggiabili sulle caratteristiche chimiche e fisiche dell'atmosfera e sulla presenza di inquinanti di tipo chimico e radio-chimico di origine antropica, sia a livello locale sia a livello globale.
Da circa un secolo e mezzo i ghiacciai stanno regredendo in tutto il pianeta, con un'accelerazione nell'ultimo ventennio; il fenomeno, che potrebbe portare in meno di mezzo secolo alla loro estinzione sulle Alpi, è correlato con eventi destinati a sconvolgere l'ambiente: incremento dei dissesti idrogeologici, innalzamento del livello medio del mare, riduzione delle risorse idriche, ampliamento della desertificazione, aumento della pericolosità dell'alta montagna. È necessario, quindi, conoscere a fondo le evoluzioni che investono la criosfera, anche per prepararsi alle trasformazioni ambientali che attendono l'umanità e ridurre i rischi correlati: sulle grandi catene montuose dell'Asia centrale è possibile osservare in grande scala e spesso in anticipo i processi e le dinamiche destinati a verificarsi anche sulle catene meno elevate. In particolare, si può assistere alla trasformazione dei ghiacciai 'bianchi' (clean glaciers) in ghiacciai 'neri' (debris covered glaciers), la cui superficie è ricoperta di uno strato di detrito che, nascondendo il ghiaccio sottostante, ne diminuisce anche la fusione. Un altro processo, raro per il momento sulle Alpi ma molto diffuso sul Karakorum e sull'Himalaya, è quello dei cosiddetti ghiacciai 'galoppanti' (surging glaciers), che all'improvviso aumentano la loro velocità e possono compiere anche diversi chilometri in un mese: fu proprio Desio, nel 1953 durante la ricognizione preliminare al K2 (che servì a preparare la grande spedizione alpinistica e scientifica dell'anno successivo), a studiare lo strano e inedito caso di un ghiacciaio 'impazzito', che si era allungato di circa 12 km in tre mesi, alla media di 4,6 m all'ora, invadendo completamente la valle di Kutiah e minacciando i villaggi della valle di Stak.
Collegandosi a ricerche già svolte sul Karakorum e sull'Himalaya, sono stati realizzati due diversi programmi sperimentali. Il primo, Caratteristiche e variazioni di un debris covered glacier (ghiacciaio del Baltoro, Karakorum-Pakistan) come indicatore delle tendenze climatiche globali, aveva la finalità di studiare il bilancio energetico e di massa e le variazioni recenti di uno dei maggiori ghiacciai della Terra, lungo 57 km ed esteso per un'area di circa 800 km2 (il maggiore ghiacciaio delle Alpi, l'Aletsch, in Svizzera, è lungo circa 20 km e la sua superficie misura 86 km2). Sono state applicate alcune metodologie innovative raramente utilizzate ad alta quota, come il laser scanning (per ottenere rapidamente la ricostruzione tridimensionale della superficie glaciale), le prospezioni geofisiche georadar (per ottenere lo spessore della massa glaciale) e i rilievi GPS (Global positioning system) di alta precisione (per determinare la velocità del ghiaccio e le variazioni morfologiche). I dati, confrontati con quelli raccolti 50 anni fa sullo stesso Baltoro e con quelli rilevati sui ghiacciai delle Alpi, consentiranno di formulare un primo bilancio delle variazioni intervenute e di valutare l'evoluzione del glacialismo alle alte e medie latitudini nonché il tipo di risposta ai cambiamenti climatici globali.
Il secondo programma, Ricerche chimico-climatiche e misure di radioattività di interesse glaciologico e ambientale, si è svolto sul versante settentrionale dell'Everest e prevedeva l'acquisizione di dati di natura geomorfologica, climatica, chimica, radiochimica, ambientale, per contribuire alla comprensione del quadro climatico e delle trasformazioni climatico-ambientali dell'area himalayana, tematiche alle quali la comunità scientifica italiana sta fornendo apporti fondamentali. La ricerca prevedeva campionamenti di neve, da analizzare sia in loco sia in laboratori italiani, per determinare i principali parametri fisici e i contenuti chimici inorganici e organici. Utilizzando tecnologie della fisica nucleare, appositamente sviluppate, sono state effettuate misure sistematiche di radioattività per determinare le concentrazioni di isotopi radioattivi di origine naturale e artificiale.
Scienze ambientali
La ricerca ambientale è oggi impegnata in modo particolare ad acquisire gli elementi necessari alla comprensione dei meccanismi e dei processi che investono il cambiamento globale (global change). Le aree remote glacializzate costituiscono uno dei principali indicatori in questa direzione. Agendo come condensatori freddi, congelano e immagazzinano numerose sostanze chimiche, di origine sia naturale sia antropica, permettendo di risalire alle concentrazioni in atmosfera di queste sostanze e ai fenomeni associati di diffusione e trasporto. Studi e osservazioni hanno anche dimostrato che le regioni di montagna d'alta quota sono particolarmente sensibili alle variazioni recenti del clima.
Il complesso Himalaya-Karakorum, che racchiude la più alta concentrazione di ghiacciai al di fuori delle due calotte polari e che contiene i due altipiani più alti al mondo, il Tibet e il Pamir, è il più giovane e attivo fenomeno orogenico della Terra (si innalza di circa 1 cm all'anno) e divide con la sua altissima barriera il bacino dell'Oceano Indiano dalla Cina, due delle aree più popolate del pianeta. L'impetuosa crescita economica e demografica che caratterizza il continente asiatico ha determinato una serie di risvolti negativi: l'aumento dell'urbanizzazione, della deforestazione, dell'inquinamento, locale e a larga scala, dell'immissione in atmosfera di aerosol e gas serra, dello smog fotochimico. In proposito, è ormai ben noto il fenomeno dell'atmospheric brown cloud, presente sull'Asia meridionale e orientale: una nube di aerosol formata di particelle carboniose, solfati e altre sostanze, in grado di modificare la trasparenza dell'atmosfera, riducendo la quantità e la composizione spettrale della luce, e che raggiunge le concentrazioni massime tra 3500 e 4000 m di quota. È fondamentale, quindi, disporre di punti di monitoraggio meteo-climatico e della composizione dell'atmosfera, che permettano di analizzare le interazioni alla base dei meccanismi di trasporto di sostanze inquinanti anche in aree remote.
Le regioni montuose dell'Himalaya-Karakorum hanno, infine, un ruolo molto importante nel regolare il clima asiatico: in questo contesto, tra i principali temi di ricerca attivi nell'area vi è lo studio dei cicli dell'energia e dell'acqua e della loro variabilità in termini spazio-temporali.
Nell'ambito di K2 2004 - 50 anni dopo sono stati realizzati due programmi di ricerca in Scienze ambientali (responsabile Gianni Tartari, Istituto di ricerca sulle acque del CNR di Brugherio, Milano). Il primo, Distribuzione altitudinale di sostanze inquinanti nelle deposizioni nevose nel versante settentrionale del Monte Everest e del K2, aveva l'obiettivo di raccogliere campioni di neve a quote diverse, possibilmente fino alla cima delle due montagne, partendo dai rispettivi campi base. Sono stati studiati i macrocostituenti, le specie acidificanti, i metalli e alcuni microinquinanti organici presenti nello stato nevoso sub-superficiale. L'effettuazione di prelievi a quote diverse ha consentito di studiare il frazionamento delle specie chimiche con l'altitudine, in relazione agli strati di rimescolamento atmosferico. La raccolta di campioni sui due versanti del K2 ha consentito per la prima volta di confrontare sinotticamente il contenuto di specie chimiche e verificare le differenze dovute alla diversa esposizione e al trasporto degli inquinanti. Lo studio aveva anche l'obiettivo di contribuire a verificare quale sia il ruolo effettivo della grande catena montuosa nel fare da barriera alla diffusione settentrionale degli inquinanti prodotti nel subcontinente indiano.
Il secondo programma, Studi climatici nell'area del K2, aveva l'obiettivo di installare una stazione meteorologica permanente nell'area della seconda cima della Terra e precisamente lungo il ghiacciaio del Baltoro, consentendo l'avvio di registrazioni di dati climatici ad alta quota. L'installazione (realizzata nella località di Urdukas, a circa 4000 m) costituisce il primo tassello di una più ampia rete di misura (SHARE Asia, Stations at high altitude for research on the environment in Asia), di cui è prevista l'installazione lungo l'intero complesso Himalaya-Karakorum-Hindu Kush. L'obiettivo a lungo termine è quello di monitorare i cambiamenti del clima in modo regolare, analogamente a quanto viene svolto da oltre un decennio nella valle del Khumbu, presso il Laboratorio Piramide.
Geodesia
La misura precisa è alla base della conoscenza scientifica e tecnologica. Conoscere con precisione l'altezza delle montagne, sapere se e quanto varia nel tempo, misurare lo spostamento di una parte della superficie terrestre rispetto a un'altra sono informazioni che consentono di conoscere meglio il pianeta su cui viviamo e le sue dinamiche, anche le più nascoste.
Le quote altimetriche ufficiali dell'Everest (8848 m) e del K2 (8611 m) sono ancora quelle ottenute alla metà dell'Ottocento dal britannico Great trigonometrical survey of India: l'Everest fu misurato per la prima volta negli anni 1849-50 da 11 stazioni situate a distanze comprese tra 94 e 191 km; il K2 fu 'scoperto' e misurato dall'ufficiale inglese Thomas George Montgomerie nel 1856 da una distanza di 212 km; dal momento che si trattava della seconda cima nella sequenza delle misure delle montagne del Karakorum da lui effettuate le assegnò il numero 2 preceduto dall'iniziale K.
Nel corso del Novecento si è proceduto più volte alla rimisurazione delle due montagne più elevate della Terra, senza mai giungere però a risultati ritenuti conclusivi e incontestabili. Nel determinare l'altezza delle montagne entrano in gioco tre variabili principali: la conoscenza del livello del mare sulla verticale della vetta, che dipende dallo scarto tra ellissoide (la superficie corrispondente alla forma teorica della Terra) e geoide (la superficie di livello perpendicolare in ogni punto alla direzione della gravità); la precisione delle quote dei punti in valle dai quali vengono effettuate le misure e il mareografo preso come riferimento (le misure italiane e quelle svizzere delle Alpi differiscono di circa 20 cm, perché le prime si riferiscono al mareografo di Genova mentre le seconde a una media tra il mareografo di Genova e quello di Bordeaux); la presenza di neve sulla vetta, che varia di stagione in stagione e di anno in anno.
Per arrivare a misurazioni confrontabili e definitive, per iniziativa del Comitato Ev-K2-CNR, nel 1999 è nato il TOWER (Top of the world elevations remeasurement). Giorgio Poretti, che ha misurato con strumentazione GPS l'Everest (1992), il K2 (ma non con GPS in cima), il Cervino (1999), il Monte Rosa (2000) e l'Aconcagua (2001), propone di convenire che la quota delle montagne sia riferita alla superficie rocciosa, effettuando una misura incontestabile della profondità del manto nevoso, finora misurata in modo approssimativo mediante sonde graduate.
Con il programma Realizzazione di un georadar portatile per la determinazione della profondità di uno stato nevoso, in collaborazione tra il Dipartimento di Matematica e informatica dell'Università degli studi di Trieste e la IDS (Ingegneria dei sistemi) di Pisa, è stato progettato e realizzato uno strumento innovativo che consiste nell'accoppiamento di un georadar GPR (Ground penetrating radar) e un sistema di posizionamento satellitare GPS (Leica MX401L); il peso totale è stato contenuto in 4 kg, compresi telecomando e batteria. Con lo strumento, portato sulla cima dell'Everest il 24 maggio, è stata realizzata una serie di profili in prossimità e in coincidenza della sommità, in modo da ricostruire l'andamento della roccia sottostante la copertura nevosa. I dati raccolti, elaborati e confrontati con le elaborazioni altimetriche, ottiche e GPS, rilevate nelle diverse stazioni di misura presenti nella zona circostante, compresa la stazione GPS permanente del Laboratorio Piramide, permetteranno di quotare e collocare ogni singolo profilo eseguito con il georadar portatile, individuando così il punto di massima elevazione della superficie rocciosa dell'Everest.
Il prototipo rappresenta anche un'importante innovazione tecnologica nel campo della sicurezza in montagna, perché potrà essere utilizzato, per esempio dal Soccorso alpino, per trovare oggetti o corpi sepolti dalla neve in qualunque luogo.
Ecocompatibilità
Oggi i problemi dell'impatto ambientale, specie in relazione a ecosistemi sensibili come quelli dell'alta montagna, sono oggetto di un'attenzione crescente: non solo per ragioni etiche, ma anche per le esigenze dello sviluppo sostenibile.
Il programma Sistema di gestione ambientale (SGA) della spedizione K2 2004 - 50 anni dopo (responsabile Riccardo Beltramo, Dipartimento di Scienze merceologiche, Università degli studi di Torino) si è posto l'obiettivo di sviluppare un SGA coerente con lo standard ISO14001, prendendo in considerazione l'intero ciclo di vita della spedizione (progettazione, allestimento, svolgimento e conclusione). È la prima volta che una spedizione alpinistico-scientifica è stata strutturata in tutte le sue fasi facendo riferimento a un preciso Sistema di gestione ambientale, in base a una norma internazionalmente riconosciuta. Lo scopo ultimo è stato quello di ottenere un modello di spedizione ecocompatibile applicabile in futuro ad altre spedizioni alpinistiche.
Nelle fasi di progettazione e allestimento della spedizione si è lavorato nell'ottica della prevenzione dell'inquinamento, qualificando i fornitori delle materie prime (attrezzature alpinistiche e scientifiche) e i prodotti secondo alcuni requisiti ambientali richiamati nelle procedure operative del sistema. Nella scelta dell'equipaggiamento e dei materiali, accanto ai criteri imprescindibili legati all'idoneità d'uso, è stato aggiunto quello dell'ecocompatibilità nelle varie fasi del ciclo di vita dei prodotti, in particolare quelle dell'uso e dello smaltimento. Sempre durante la fase di progettazione si sono poste le basi per il lavoro in loco, predisponendo a priori la disposizione del campo base, e valutando le soluzioni gestionali praticabili.
Durante la fase di svolgimento della spedizione, i ricercatori sono stati impegnati sul campo, per verificare la corretta applicazione di quanto individuato in fase progettuale. Particolare attenzione è stata prestata alla gestione dei rifiuti, per i quali si sono adottate soluzioni differenziate, in base alle tipologie prodotte: carta e cartone sono stati bruciati all'interno di un microinceneritore, alluminio, vetro e organico sono stati destinati allo smaltimento finale nel paese ospitante, mentre le plastiche e i rifiuti pericolosi sono stati trasportati in Italia per un loro riciclo (plastica) o smaltimento (rifiuti pericolosi).
Per la produzione di energia elettrica si è optato, al posto del tradizionale gruppo elettrogeno, per un impianto fotovoltaico, minimizzando così le emissioni in atmosfera. La spedizione è stata anche l'occasione per una serie di sperimentazioni su attrezzature e materiali ecocompatibili: dalla parabolica solare per la produzione di acqua calda e la cottura dei cibi, allo scopo di diminuire l'utilizzo del combustibile, alle stoviglie e ai sacchetti in materiale fotobiodegradabile. In ultimo, nella fase della conclusione della spedizione, si è lavorato allo smantellamento del campo base e dei campi alti, in modo da lasciare meno tracce possibili.
L'Himalaya
Il nome del sistema montuoso più elevato della Terra deriva dal sanscrito hima alaya "dimora delle nevi". L'Himalaya cinge gli altipiani dell'Asia centrale a sud e limita la pianura indostanica a nord, mentre le valli trasversali dei fiumi Indo e Brahmaputra ne segnano i limiti a ovest e a est, rappresentando tuttavia confini convenzionali del sistema che prosegue verso oriente fino in Birmania e si inoltra a occidente fino alla regione del Pamir. L'enorme fascio di catene compreso tra le due valli dell'Indo e del Brahmaputra descrive nel complesso un arco lungo circa 2400 km; tra queste depressioni longitudinali e la pianura indiana la catena è larga in media 200-250 km. Entro questo spazio l'arco himalayano è formato da alcune pareti montuose, qualche volta convergenti ma di norma parallele, le quali delimitano altipiani (Deosei e Rupshu) e bacini.
Le cime più alte situate nella catena assiale sono, da ovest a est, Nanga Parbat (8126 m) presso il fiume Indo, Leo Pargial (6791 m), Nanda Devi (7816 m), Dhaulagiri (8222 m), Annapurna (8078 m), Gauri Sankar (7145 m), Everest (8848 m), Lhotse (8501 m), Kanchenjunga (8585 m), Namcha Barwa (7856 m) a pochi chilometri dal Brahmaputra. Una seconda catena più bassa segue quella assiale a sud, sviluppandosi specialmente nel Kashmir, dove prende il nome Pir Panjal e registra l'altitudine massima di 4743 m e, in misura minore, nel Nepal, con cime tra 3000 e 5000 m. Il passaggio tra queste creste montuose e la pianura è reso meno brusco da una fascia di colline e da una catena di montagne più basse (10-50 km di larghezza), che formano il cosiddetto sistema di Siwalik, con altitudine media pari a 2000-3000 m. A nord della catena assiale l'orografia è più confusa. Nella zona occidentale la catena dei Monti Ladakh, prolungamento del Karakorum, corre presso l'Indo, delimitando con la catena principale la regione montagnosa dello Zanskar, del Rupshu e dello Spiti.
Formazione geologica
Formatosi in seguito allo scontro tra la zolla indiana e quella euroasiatica, circa 55 milioni di anni fa, il sistema dell'Himalaya costituisce un esempio di 'catena collisionale' (con uno spessore crostale di circa 70 km) e si inquadra nel contesto della teoria della tettonica a zolle. Intorno a 100 milioni di anni fa l'India, precedentemente unita al supercontinente Gondwana, si staccò dalla originaria massa continentale e iniziò una migrazione di circa 5000 km verso nord che, nel Terziario, ne causò appunto la collisione con l'Asia. Questo moto di deriva portò da un lato alla nascita dell'Oceano Indiano e dall'altro alla chiusura della Tetide, un oceano molto esteso che separava l'India dal continente asiatico. La chiusura della Tetide avvenne attraverso un processo di subduzione (una sorta di scivolamento) del fondo di questo oceano al di sotto del margine attivo asiatico. Ciò determinò la formazione di un arco vulcanico (arco transhimalayano), i cui resti sono ancora evidenti.
Gli indizi della scomparsa dell'oceano tetideo sono rappresentati all'interno della catena da una zona di sutura (sutura dell'Indo), larga circa 10 km, che corre parallelamente a essa e separa due margini di zolle differenti: a nord quello attivo del continente asiatico e a sud quello passivo del continente indiano. Questa zona permette inoltre di differenziare i diversi tipi di terreni geologici che caratterizzano la catena himalayana. A nord della zona di sutura è presente la catena transhimalayana, a sud si rinviene invece la quasi totalità della catena himalayana, rappresentata da una serie di falde di ricoprimento, convergenti verso sud, costituita da rocce che si formarono sul margine passivo della zolla indiana. Si distinguono così la Tethys Himalaya, rappresentata da rocce sedimentarie molto antiche; l'Alto Himalaya, il cuore della catena, composto da rocce molto deformate e metamorfosate; il Basso Himalaya, anche questo rappresentato da rocce sedimentarie antiche, e infine il Sub-Himalaya, che consiste in una serie di colline di depositi fluviali, deformate in tempi recenti. A sud di queste colline il passaggio allo scudo indiano avviene attraverso un'area che costituisce un bacino di avanpaese, colmato dai sedimenti fluviali dell'Indo e del Gange, che provengono dall'erosione della catena himalayana. Più nello specifico, la zona tibetana, a nord, è formata da rocce marine fossilifere in una serie continua che va dal Paleozoico antico (545 milioni di anni fa) fino all'Eocene (il primo dei quattro periodi dell'era cenozoica, o Terziario, compresa fra 54 e 37 milioni di anni fa, durante la quale ebbe luogo il grande ciclo orogenetico himalayano). La zona centrale (himalayana), comprendente, oltre alla catena assiale, anche una parte delle catene minori del versante sud, è composta da rocce cristalline e metamorfiche e da depositi sedimentari antichi non fossiliferi. La zona esterna o subhimalayana corrisponde al sistema di Siwalik, formato da depositi continentali del Terziario medio e superiore. Le rocce cristalline, gneissiche, ovverosia di composizione chimica analoga a quella dei graniti, che costituiscono l'asse del grande arco montuoso, attribuite all'era archeozoica, o Arcaico (3500 milioni di anni fa), sono in parte più recenti (anche mesozoiche, comprese dunque tra 225 e 65 milioni di anni fa, e terziarie) e rappresentano il risultato di un forte metamorfismo di graniti e altre rocce intrusive. I terreni sedimentari più antichi, precedenti al Cambrico (il più antico periodo dell'era paleozoica), formano i sistemi di Dharwar e di Vindhya e affiorano tra la catena assiale e quelle esterne, il secondo rivelando tracce glaciali.
La regione dello Spiti presenta la serie completa dei terreni che si sono venuti a formare nel corso dei periodi che costituiscono l'era paleozoica fino ad arrivare all'inizio del Terziario. Il Cambrico è rappresentato da quarziti e scisti di grande potenza, con fossili simili a quelli europei; il Silurico da rocce molto varie (conglomerati, calcari, dolomie ecc.); il Devonico soprattutto da quarziti, calcari e arenarie rosse; il Carbonico inferiore e medio da calcari e quarziti ricchi di fossili, da scisti argillosi e tracce di piante. Durante il Paleozoico l'Himalaya rimase in gran parte coperto da un mare non molto profondo, che è poi sceso di livello nel Mesozoico per scoprire sedimenti e faune di acque profonde. Tutta la zona settentrionale denuncia queste origini con la presenza predominante di calcari e dolomie e ricche faune di Ammoniti e Brachiopodi. Anche nel Giurassico (secondo periodo del Mesozoico) abbondano i calcari e le dolomie, ma sono molto sviluppati scisti argillosi neri e arenarie marnose, rocce tenere e riccamente fossilifere nelle cui pieghe sono stati identificati lembi appartenenti a periodi più recenti: Cretacico (periodo del Mesozoico successivo al Giurassico) ed Eocene (Terziario).
Nel Cretacico si ritorna a minori profondità marine; il ritiro del mare verso nord è segnato dalle potenti deposizioni di arenarie e scisti argillosi e incomincia per l'Himalaya un periodo continentale, mentre il regime marittimo permane soltanto in alcuni bacini. Nella parte occidentale della catena himalayana si verificano in questo stesso periodo imponenti fenomeni eruttivi.
Il Terziario è rappresentato, a nord della catena montuosa, dalle rocce marine più recenti, costituite da calcari mummulitici, e a sud da rocce di deposito torrentizio o di acque salmastri o lacustri, mentre nella fascia più esterna conglomerati, arenarie e marne formano l'importante serie di Siwalik, i cui strati sono notevolmente piegati e intersecati da faglie a indicare intensi movimenti tettonici piuttosto recenti.
Morfologia, clima e vegetazione
Il sistema dell'Himalaya presenta notevoli peculiarità morfologiche, che si manifestano soprattutto nell'asimmetria delle diverse pareti montuose e quindi anche del sistema, il cui versante meridionale è maggiormente inclinato, mentre quello settentrionale ha pendii più dolci; nella pronunciata lunghezza e a volte anche nell'ampiezza marcata delle valli longitudinali tagliate tra le pareti montuose (in special modo le alte valli dell'Indo e del Brahmaputra); nelle gole grandiose che, particolarmente nel Nepal, intagliano la catena cristallina, corse da fiumi che sfociano nella pianura indiana, i quali però hanno origine a nord della zona assiale; nella intensa erosione dei fiumi con acqua in ogni stagione e piene violente, che scorrono in valli caratterizzate da alternanze frequenti di tratti ripidi e di ampi bacini.
Sono ben riconoscibili le tracce di estese glaciazioni quaternarie, meglio note nella zona nord-occidentale, ma i ghiacciai non sono mai giunti a sboccare nella pianura meridionale, come avvenne nelle Alpi. La forte acclività del versante meridionale impedisce l'espansione di grandi ghiacciai, le fronti più basse dei quali scendono a 2500 m di quota. Tra i ghiacciai più lunghi, che si trovano tutti nelle valli longitudinali, ricordiamo: Zemu (27 km) e Kanchenjunga (22 km) nel Sikkim; Milam (20 km) e Gangotri (26 km) nel Kumaon; Rundum (20 km) e Durung (21 km) nel Kashmir. Numerosi anche, ma di minuscole dimensioni, i laghi di origine glaciale.
L'arco montuoso himalayano esplica un'importante funzione climatica, formando una vera barriera per le piogge. Il monsone scarica gran parte della sua umidità sul versante meridionale, che quindi ha piovosità abbondante (1200-1800 mm di media annua nel Kashmir; 1800 mm nel Bhutan). Il versante settentrionale invece ne è povero e l'aria è secca. Questa diversità influenza naturalmente i limiti delle nevi, che risultano più bassi nel versante meridionale (fra 4200 m e 5500 m) e più alti in quello settentrionale (in media 5400-5800 m).
Analogamente, per quanto riguarda la vegetazione, vi è un notevole contrasto tra i due versanti, anche a causa della diversa umidità. Nel versante settentrionale manca su ampie zone la vegetazione arborea, che è presente vigorosa solo nell'alta valle del Brahmaputra, con boschi di rododendri e di cedri, mentre il versante meridionale è caratterizzato da fitti e folti boschi. Qui la foresta tropicale umida predomina fino a 1500-2000 m; più oltre, e fino a 3700 m, si ha una foresta con querce, castagni, noci, aceri, ma sempre densa di magnolie e di epifite poiché l'umidità è ancora notevole. Già in questa zona compaiono abeti, cedri, pini e rododendri i quali salgono fino a 4800 m nella zona orientale più piovosa, ma a 4200 m in quella occidentale meno umida. La vegetazione erbacea, in qualche area, supera i 6000 m (pendici dei monti Everest e Kanchenjunga), ma sul versante tibetano i pascoli sono magri. Le colture si limitano a fasce lungo i fondi delle valli e sono di entità non trascurabile solo nei bacini abbastanza ampi: sul versante sud all'altitudine massima di 3600 m e su quello nord eccezionalmente di 4650 m. Si coltivano specialmente cereali e alberi da frutto (albicocchi) fino a 3400 m. La pratica dell'irrigazione è notevolmente sviluppata.
L'insediamento è relativamente denso sul versante meridionale dell'Himalaya (si trovano sedi permanenti fino a 4500 m), raro su quello nord, dove i pascoli sono meta di pastori nomadi (pecore e yak). Il sistema himalayano costituisce uno snodo fondamentale e un passaggio chiave nelle vie commerciali del Tibet e del Turkestan con l'India.
Il Karakorum
L'etimologia del nome Karakorum va ricondotta alla voce tibetana "pietre nere". Il sistema si svolge fra la catena himalayana a sud e quella del K'unlun occidentale a nord, per 400 km circa. Lo limitano a sud la valle del fiume Indo, a nord gli alti corsi, in buona parte longitudinali, dei fiumi Oprang, Yarkand e Qara Qash, a est l'alta valle del fiume Shayok, a ovest quella del fiume Hunza. A differenza della catena himalayana, il Karakorum costituisce un allineamento, con direzione ovest-nordovest-est-sudest, di cime notevolmente elevate: molte sopra 7000 m, alcune altre sopra 8000 m, lungo lo spartiacque tra i bacini dei fiumi Indo e Tarim a nord. Nella zona centrale, tra i ghiacciai Baltoro e Syachen, si segnalano: il K2 (8611 m), il Broad Peak (8047 m), il Gasherbrum I (8068 m) e il Gasherbrum II (8035 m). A oriente di questo gruppo di cime massime si trovano ancora quote di 7462 m (Teram Kangri); a occidente quote di 7760 m (Kanjut Sar I). Anche a sud molte cime superano i 7000 m (Rakaposhi, 7788 m). L'elevazione complessiva della regione non risulta soltanto dalle grandi altezze delle cime, ma anche dalla notevole altitudine delle valli, molte delle quali si trovano al di sopra di 3000 m, e dei valichi.
Formazione geologica
I monti del Karakorum sono costituiti in prevalenza da rocce granitiche e da gneiss, rivestite da una copertura di rocce sedimentarie (calcari, calcescisti ecc.) a volte metamorfosate, ma ormai ridotte ad affioramenti di limitata estensione, tranne nel versante settentrionale e nella zona più orientale, verso gli altipiani del Tibet. Quarziti e scisti del Paleozoico costituiscono in parte la catena del Ladakh e affiorano nell'alta valle dello Shayok, in fasce dirette da nordovest a sudest. Una zona sedimentaria potente si estende da Shigar ad Askole, proseguendo poi verso nord e nordovest, in mezzo alle rocce cristalline. Tali rocce sedimentarie costituiscono anche alcune cime, pur elevatissime, attorno al Baltoro. Nella zona prossima agli altipiani tibetani, così come rilevato nella regione dello Spiti per l'Himalaya, si ha una serie di terreni più ricca, che va dal Paleozoico al Cretacico, sia pure con una certa discontinuità. Il Permo-carbonico è rappresentato specialmente da scisti nerastri, il Triassico da calcari e calcari dolomitici, il Giurassico anche da calcari marnosi.
Morfologia, clima e vegetazione
La regione è profondamente incisa da valli, i cui fondi stanno 3000 e anche 4000 m sotto le cime. Queste ultime hanno in genere forma piramidale, a causa della natura delle rocce prevalenti e del frequente raddrizzamento dei banchi. Intenso è il disfacimento meteorico delle rocce, specialmente per le frequenti oscillazioni della temperatura attorno allo zero; i fianchi sono quasi sempre molto ripidi e quindi nudi e rocciosi, mentre in altri casi la roccia viene nascosta da un manto detritico. Grandiose sono alcune gole scavate nel granito. La regione è oggi sede di intenso sviluppo glaciale, ma nel Quaternario i ghiacciai furono anche più estesi, tali da riempire, nei momenti di maggiore espansione, tutte le valli per andare a confluire nel grande ghiacciaio della valle dell'Indo. Le valli del Karakorum presentano caratteri che risentono fortemente dell'azione glaciale: sono frequenti valli laterali sospese su quelle principali, e anche rilievi intravallivi. Presso i fondi vallivi si hanno spesso terrazze formate in antichi depositi morenici o alluvionali, o grandi conoidi allo sfocio delle valli minori.
Il clima, data la posizione interna e il riparo creato a sud dalla catena himalayana, è continentale e in genere freddo, per la grande elevazione, caratterizzato da piovosità esigua (di norma meno di 750 mm annui). Molti ed estesi sono i ghiacciai, con lunghe lingue, lievemente inclinate, alimentate da affluenti numerosi (da cui il tipo di ghiacciaio detto himalayano) e circondate da erte pareti quasi prive di neve o di ghiaccio. I più notevoli sono Syachen, Baltoro, Biafo, Hispar, Chogo Lungma, Punma, Rimu. Da essi nascono molti corsi d'acqua (Shayok dal ghiacciaio Rimu, Nubra dal Syachen, Biaho dal Baltoro e dal Biafo, Hispar dal ghiacciaio omonimo) caratterizzati da imponenti piene in estate, dovute alla fusione del ghiaccio.
La regione è straordinariamente povera di vegetazione. Mancano veri boschi. Tra gli alberi, il pino e il cedro salgono oltre i 3000 m, la betulla a 3500, il ginepro a 4000 m. La popolazione naturalmente è molto rada e abita solamente i terrazzi sui fondivalle e le conoidi allo sbocco delle valli laterali, per poter avere acqua per le irrigazioni. La zona è in gran parte agricola e vi si coltivano cereali (in particolar modo orzo) e alberi fruttiferi (predomina l'albicocco che nella valle del fiume Indo sale fino a 3500 m).
L'alpinismo in Himalaya e Karakorum
I primi viaggiatori e missionari che penetrarono sulle orme dei Polo (Marco, suo padre Niccolò e il fratello di questo Matteo avevano compiuto un viaggio attraverso l'Asia centrale, la Cina e il sudest asiatico tra il 1271 e il 1295) nel continente asiatico, diretti verso i paesi orientali, ebbero solo vaghe notizie delle inaccessibili montagne dell'Himalaya e si limitarono ad aggirare la catena. Solo nei secoli 17° e 18° alcuni di essi cominciarono a percorrere qualche lembo marginale del gruppo; tra questi spicca il nome di padre Ippolito Desideri da Pistoia, che in un lungo viaggio, tra il 1712 e il 1716, si recò dall'India al Tibet.
Ma la vera esplorazione dell'Himalaya e del Karakorum ebbe inizio solo nel 19° secolo, prima a opera di singoli viaggiatori, poi di missioni di rilevamento topografico organizzate dagli inglesi. Tra i viaggiatori dei primi decenni del 19° secolo possono essere ricordati Th. Manning (1811-12), i fratelli Alexander, James Gilbert e Patrick Gerard (1812-23), W. Moorcroft e G. Trebeck (1812-29), J. Baillie Fraser (1814-15), G.Th. Vigne (1835-38), A. Cunningham (1847), R. Strachey (1848); poi, tra il 1854 e il 1858, i fratelli Adolf, Hermann e Robert Schlagintweit. Nella seconda metà del secolo il Servizio trigonometrico e il Servizio geologico dell'India compirono un imponente lavoro, che portò a una conoscenza abbastanza esatta dei lineamenti geografici della regione. Tra i rilevatori più noti per la vastità dell'opera intrapresa devono essere ricordati gli inglesi W.H. Johnson e Henry H. Godwin Austen. Il colonnello T.G. Montgomerie per primo fece la rilevazione della più alta montagna del Karakorum, il K2, mentre il colonnello Godwin Austen, tra l'altro, guidò nel 1861 la prima vera spedizione sul Baltoro ed eseguì la prima carta prospettica di quella regione.
Alla fine del secolo ebbero inizio anche le esplorazioni di carattere alpinistico, volte a raggiungere le molte vette della catena himalayana (spedizione Graham, 1883), e alle quali partecipavano molto spesso anche scienziati. Alpinisti di vari paesi si susseguirono con ritmo sempre più intenso in imprese di grande difficoltà, superando i gravi problemi logistici e politici di penetrazione nella regione. Per quanto riguarda le esplorazioni nel Karakorum, nel 1889 l'inglese F.E. Younghusband attraversò il Passo Mustagh (5800 m) e scese nella Valle Shaksgan. Nel 1882 l'inglese W.M. Conway conquistò la prima vetta di quella regione, il Pioneer Peak (6890 m). Sono da ricordare inoltre la prima spedizione al K2 diretta nel 1902 dall'inglese O. Eckenstein; la conquista del Pinnacle Peak (6932 m) da parte dei coniugi inglesi Fanny e William Workman, che costituì per 28 anni il primato femminile di altitudine; la spedizione italiana diretta nel 1909 da Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, che esplorò tutta la zona del K2 e si rivolse poi al Chogolisa (Bride Peak: 7654 m) giungendo a quota 7498, primato di altitudine dell'epoca. Altre spedizioni italiane nel Karakorum furono quella diretta da Mario Piacenza (1913), che vinse il Kun (7077 m); quella di Filippo De Filippi (1913-14); quella di Aimone di Savoia Aosta (1929); quella di Giotto Dainelli (1930). Nel 1934 la spedizione internazionale diretta dal geologo G.O. Dyrenfurth toccò le prime vette oltre i 7200 m conquistando il Baltoro Kangri (o Golden Throne, Cima Est, 7260 m) e il Sia Kangri (o Queen Mary Peak, 7422 m).
Tra le cime più alte, nel dopoguerra restavano da scalare i cosiddetti 'ottomila', le quattordici montagne dell'Himalaya e del Karakorum che superano gli 8000 m e che negli anni Venti e Trenta avevano respinto ogni assalto (A. Irvine e G. Mallory morirono sull'Everest, nel 1924, oltre gli 8500 m). I problemi logistici di queste salite imponevano una grande organizzazione: dai portatori ai campi alti alle bombole per l'ossigeno. In queste imprese era molto più difficile la prestazione del singolo individuo o della singola cordata: si richiedeva uno sforzo collettivo con attrezzature e materiali sempre migliori, un'acclimatazione più razionale e una logistica più vantaggiosa, che favorisse la salita di portatori e sherpa il più in alto possibile.
Il primo 'ottomila' dell'Himalaya, l'Annapurna, fu conquistato nel 1950 dai francesi G. Rébuffat, E. Frendo, L. Terray e L. Lachenal, guidati da M. Herzog (particolarmente penosa fu la spedizione di ritorno). Dopo l'Annapurna, nel 1953 fu la volta dell'Everest, raggiunto dalla spedizione britannica guidata da Edmund Hillary con lo sherpa Tenzing Norgay, e del Nanga Parbat, scalato dall'austriaco H. Buhl. Nell'ottobre 1954 una spedizione austriaca, sotto la guida di H. Tichy, conquistò il Cho-Oyu e nell'anno successivo il Makalu fu raggiunto dalla spedizione francese diretta da J. Franco. Il Kanchenjunga fu raggiunto nel 1955 dalla spedizione inglese capeggiata da Ch. Evans. Nel 1956 fu la volta del Lhotse, che si innalza a poca distanza dall'Everest, a cedere all'attacco degli alpinisti svizzeri E. Reiss e F. Luchsinger mentre il Manaslu fu conquistato dai giapponesi con a capo Yuko Maki. Notevole importanza ebbe, nel 1960, la spedizione degli alpinisti cinesi che, guidati da Shih Chan-chun, il 25 maggio salirono sulla cima dell'Everest per la via del colle Nord, più volte invano tentata. Nello stesso anno il Dhaulagiri fu conquistato da due studenti, facenti parte di una spedizione svizzera diretta da M. Eiselin. Nel 1964 una spedizione cinese guidata da Xu Jing scalò l'ultimo picco superiore agli 8000 m dell'Himalaya: lo Shisha Pangma, la vetta più facile, ma alla quale la Cina impediva l'avvicinamento, essendo situata in Tibet.
Il primo dei quattro 'ottomila' del Karakorum a essere 'vinto' fu il 31 luglio 1954 il K2, raggiunto dalla spedizione italiana diretta da Ardito Desio. Il 7 luglio 1956 il Gasherbrum II fu conquistato dalla spedizione austriaca diretta da F. Moravec. Ancora una spedizione austriaca di tipo leggero diretta da H. Buhl, già conquistatore del Nanga Parbat, il 9 luglio 1957 salì sul Broad Peak. Il Gasherbrum I (o Hidden Peak) fu conquistato da una spedizione statunitense diretta da P. Shoening il 5 luglio 1958. Un 'quasi ottomila', il Gasherbrum IV, fu raggiunto nell'agosto 1958 da W. Bonatti e C. Mauri con la spedizione italiana diretta da R. Cassin. Frattanto al periodo delle grandi esplorazioni succedeva, come già si era verificato sulle Alpi, l'alpinismo acrobatico, l'ascensione di vette inferiori come quota, ma tecnicamente più ardue. Così, la Torre Mustagh (7273 m), picco del Karakorum, ritenuto inaccessibile, fu vinta quasi contemporaneamente e per due itinerari diversi nel 1956 da una spedizione britannica diretta da J. Hartog e da una francese diretta da G. Magnone.
Nel 1986 l'italiano Reinhold Messner con l'ascesa del Makalu e del Lhotse è stato il primo al mondo ad aver scalato (senza far uso di ossigeno in quota) tutte le 14 vette dell'Himalaya e del Karakorum al di sopra degli 8000 m.
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