Montagna
Si definiscono montagne i rilievi di altezza superiore ai 600-700 m sul livello del mare, distinguendo come bassa, media e alta montagna rispettivamente i rilievi fino a 1000 m, tra 1000 e 2000 m, oltre i 2000 m. Il termine si estende a indicare genericamente i luoghi montani, con riferimento alle caratteristiche climatiche e alle condizioni ambientali che in essi trovano la vita vegetale e animale, nonché l'attività umana. Il clima montano esercita notevoli effetti terapeutici sull'organismo, derivati dalla purezza dell'aria e dall'intensità delle radiazioni solari. Tali benefici tuttavia non sono scevri da rischi, specie per quanto riguarda i soggetti non in perfette condizioni di salute, anziani e bambini. Inoltre la permanenza a quote molto elevate sul livello del mare, a causa della diminuzione della pressione esterna, provoca la condizione definita in medicina ipossia, ovvero l'insufficiente disponibilità di ossigeno da parte di tessuti o di organi. Se nelle popolazioni montane si riscontra un adattamento permanente all'altitudine, che si configura con valori mediamente più alti di emoglobina nel sangue, più ampio sviluppo del torace e maggiore capacità polmonare, l'adattamento occasionale richiede una fase di acclimatazione.
La montagna, con il suo clima, i suoi paesaggi, le sue possibilità turistiche e di svago è stata pienamente valorizzata soltanto in tempi relativamente recenti. Attualmente è universalmente riconosciuto che il clima montano, soprattutto al di sopra degli 800-1000 m, esercita notevoli effetti terapeutici sull'organismo, non solo perché idoneo al recupero delle energie perdute, ma anche perché particolarmente adatto a potenziare le difese immunitarie, minacciate dall'inquinamento fisico, chimico, acustico, nonché dallo stress psicologico degli ambienti urbani. Ancora fino agli anni Settanta del 20° secolo, pneumologi e cardiologi prescrivevano, a chi avesse età superiore ai 60 anni, di non oltrepassare il limite dei 600-700 m, onde evitare il pericolo di disturbi cardiovascolari, come infarti, ictus, embolie ed emorragie. Da allora questo limite è stato progressivamente innalzato e attualmente, a meno che non esistano malattie invalidanti, come gravi accessi asmatici oppure crisi ipertensive, con pressione massima sopra i 200 mmHg e minima sopra i 110 mmHg, il soggiorno a un'altitudine superiore ai 1000 m è consigliato a tutti e, con le dovute cautele, anche a soggetti di più di 70 anni che presentino i normali disturbi respiratori o cardiocircolatori legati all'età.
In montagna particolare importanza assumono gli effetti della radiazione solare. È noto infatti che questa in ambiente montano è molto più ricca della componente ultravioletta rispetto alle zone di pianura, sia per la limpidezza e la luminosità del cielo, sia per il fatto che l'altezza dello strato di inversione dello smog si situa di norma sui 300 m durante la stagione invernale e tra i 600 e gli 800 m nelle altre stagioni. L'intensa radiazione solare di cui si gode in montagna, se ben dosata, ha effetti benefici su tutto l'organismo, in quanto giova in modo particolare a quelle forme patologiche che necessitano di equilibrio delle difese immunitarie. Qualsiasi tipo di luce, infatti, sia essa naturale o artificiale, influenza i livelli ormonali, la temperatura corporea, l'attività del cervello e l'umore dell'individuo. Ciò sembra dipendere dal fatto che la retina, stimolata dall'intensità della luce, invia segnali di tipo elettrico al centro ipotalamico, localizzato a livello dei nuclei soprachiasmatici, che li trasmettono ad altri centri ipotalamici, all'ipofisi e all'epifisi. Quest'ultima, detta anche ghiandola pineale, produce l'ormone melatonina in relazione all'intensità più o meno elevata della luce, con valori massimi nel plasma durante la notte, e lo libera in modo ritmico, inviando così informazioni sull'ambiente esterno ai nuclei soprachiasmatici. In questo modo si produce una sincronizzazione tra le variazioni dell'ambiente esterno e quelle dell'ambiente interno dell'organismo, sempre attraverso l'ipotalamo, l'ipofisi e l'epifisi che regolano poi cuore, fegato, reni, intestino e ghiandole surrenali, elaborando una notevole quantità di messaggi ormonali. Dall'esposizione alla luce sono influenzati la temperatura, il sonno, i livelli sierici di serotonina, che si presentano più bassi d'inverno e più alti a partire dalla primavera. La lunghezza del periodo di luce è dunque un fattore molto importante e rende conto della variabilità stagionale di alcuni stati patologici, come il SAD (Seasonal affective disorder), disturbo nervoso che si presenta come alterazione patologica e duratura del tono dell'umore, con fasi alterne di depressione, in autunno-inverno, e di eccitazione, in primavera-estate. Il SAD, come è logico, aumenta con la latitudine, nel senso che quanto più questa è alta, tanto minori sono le ore di luce durante i mesi che vanno da ottobre a marzo. La permanenza in montagna, specie nei mesi di febbraio e marzo, è quindi molto indicata in questo tipo di disturbo.
La cura del sole e della luce in montagna si rivela utile anche come coadiuvante nelle anemie ipocromiche e iposideremiche, in alcuni tipi di dermatosi, in modo particolare quelle allergiche da polveri o da inquinamento atmosferico, nelle broncopatie asmatiformi, nelle convalescenze dopo malattie infettive o debilitanti, oppure dopo importanti interventi chirurgici, come terapia stimolante di tutto l'organismo e come rinforzo della psicoterapia. Ne beneficiano anche tutti quei soggetti che presentano diatesi linfatica, specialmente i bambini con adenoidi e tonsille ingrossate. Il sole inoltre esplica sulla cute una buona funzione seboregolatrice, agendo come desquamante e favorendone la purificazione; quindi il sole di montagna, come quello del mare aperto, appare molto utile nella psoriasi e, anche se in misura minore, nella vitiligine e negli eczemi.
L'esposizione ai raggi solari in montagna presenta tuttavia anche dei rischi, proprio a causa dell'intensità della radiazione, in modo particolare quella a più corta lunghezza d'onda sopra i 2000 m, che è superiore a quella in mare aperto. Si avverte meno, perché la temperatura è molto più bassa, ma brucia più velocemente, producendo inoltre un precoce invecchiamento della pelle e, soprattutto al di sopra dei 3000 m, favorendo l'insorgenza di epiteliomi e di melanomi oppure la riattivazione di quelli silenti. La pelle deve quindi essere opportunamente protetta. Al di sopra dei 1500 m, specialmente in presenza di terreno innevato, oltre alla pelle bisogna proteggere anche gli occhi, per evitare cheratiti e congiuntiviti. In caso di esposizioni molto prolungate, è possibile che si verifichino anche danni al cristallino, con formazione di cataratta precoce. Altri rischi connessi all'esposizione al sole sono le fotodermatosi, che tuttavia in montagna sono meno accentuate e meno frequenti di quelle contratte al mare. Per es., le micosi in montagna sono quasi del tutto sconosciute, anche per l'assenza del caldo umido delle zone di pianura o di mare, che favorisce il loro sviluppo. In montagna possono presentarsi anche reazioni cutanee a seguito di assunzione di sostanze fotosensibilizzanti, come alcuni medicamenti (tiazidici, tetracicline, fenotiazine e sulfamidici) o sostanze coloranti utilizzate in alcune creme (violetto di genziana, blu di metilene, rosa bengala ed eosina). La fotosensibilizzazione si presenta come una reazione di tipo allergico-iperergico della pelle, che diventa arrossata, edematosa e con bolle di varia estensione che, di norma, regrediscono lentamente non esponendosi per qualche giorno all'azione diretta dei raggi solari. Oltre alle fotodermatosi, in montagna la pelle può essere colpita da fitodermatosi, condizione patologica determinata dal contatto con alcune sostanze di origine vegetale. Una delle forme di fitodermatosi, denominata anche dermatite pigmentaria da acqua di Colonia, è causata dal bergaptene, sostanza contenuta nell'olio di bergamotto e appartenente al gruppo delle furocumarine, responsabili di dermatiti fotocatalitiche da contatto con svariate piante, abbastanza comuni in collina e in montagna (Angelica archangelica, Ficus, Heracleum, Pastinaca sativa, Ruta graveolens ecc.). Una forma di fitodermatosi, la dermatosi bollosa striata pratense, è favorita dall'umidità e dall'iperemia della cute, e si presenta con un aspetto caratteristico, riproducente sulla cute lo stampo dei vegetali con i quali si è venuti in contatto accidentale. Un accenno particolare riguarda il soggiorno in montagna di soggetti in età evolutiva o in età avanzata, perché l'organismo non ancora ben sviluppato dei bambini oppure quello logorato degli anziani possono presentare reazioni accentuate non soltanto all'azione diretta della radiazione solare, ma anche ad altri fattori meteorologici più intensi in montagna, come vento, nebbia, precipitazioni e umidità relativa.
Comunque, per questi due gruppi di età le indicazioni terapeutiche del clima di montagna sono in linea di massima sovrapponibili a quelle per gli adulti, con qualche necessaria puntualizzazione. Nei bambini è importante graduare l'esposizione al sole a seconda dell'età e del tipo di pelle, per evitare fotodermatosi acute che possono comportare febbre molto elevata, nei casi più gravi associata a convulsioni e insufficienza renale. Per gli anziani, invece, è necessario usare precauzioni particolari a seconda del tipo di pelle e del funzionamento più o meno regolare del sistema cardiocircolatorio, degli organi emuntori (fegato e reni), dell'albero respiratorio, del sistema nervoso, nonché degli organi cerebrali. Bisogna infine ricordare che il congelamento, cioè il danno della cute e dei tessuti sottocutanei di una parte del corpo in seguito all'esposizione alle basse temperature, in alta montagna è favorito dai frequenti e spesso improvvisi mutamenti del tempo, che possono comportare sbalzi di temperatura fino a 15-20° e condizioni di umidità ai limiti della saturazione, come in caso di bufere di vento e di neve. Il congelamento interessa più frequentemente mani, piedi, talloni, lobi auricolari, naso, guance e mento, cioè i territori meno irrorati e più esposti dell'organismo. Episodi gravi di congelamento si possono verificare in seguito all'immersione in acque fredde e quando il soggetto colpito, oltre a non essere sufficientemente protetto, è in grave stato di shock. In questi casi, in assenza di soccorsi adeguati, si può arrivare, nel giro di poche ore, alla morte per assideramento. I segni iniziali di congelamento sono spesso lievi, tanto da passare quasi inavvertiti. Si presentano come impaccio ai movimenti, riduzione progressiva della sensibilità, anestesia 'a calzare' per i piedi, oppure 'a guanto' per le mani, analgesia per lo più completa della parte interessata; qualche volta si hanno parestesie, formicolii, dolori 'a pizzicotto'. In un primo momento la cute è pallida, fredda, edematosa. Se non intervengono soccorsi, il processo continua con il congelamento generale di tutto l'organismo, caratterizzato da stato soporoso, temperatura anche elevata, grave compromissione dello stato generale e anossia progressiva dei tessuti.
L'esposizione a una ridotta concentrazione di ossigeno nell'aria inspirata (ipossia), quale si riscontra in quota, provoca di riflesso un aumento della ventilazione polmonare, la quale risulta quindi, a parità di richiesta energetica, maggiore che a livello del mare. Danno inizio all'iperventilazione i recettori stimolati dalla diminuzione della pressione di ossigeno nel sangue arterioso, e, poiché la pressione parziale dell'ossigeno nei polmoni aumenta con l'iperventilazione, quest'ultima consente di riportare a livello adeguato la concentrazione di ossigeno nel sangue. Anche la gittata cardiaca ad alta quota appare maggiore che al livello del mare e anch'essa serve a compensare la ridotta concentrazione di ossigeno nel sangue; infatti, nonostante la gittata sistolica sia ridotta, la frequenza cardiaca è decisamente elevata. In condizioni di ipossia si riscontra inoltre un'elevata concentrazione di acido lattico nel sangue.
L'esposizione 'acuta' a una pressione di ossigeno paragonabile a quella della cima del monte Everest può provocare la perdita di coscienza in pochi secondi; già un'altitudine di 6000 m risulta critica per il normale funzionamento del cervello. Gli alpinisti hanno potuto conquistare l'Everest senza l'ausilio delle bombole di ossigeno solamente grazie alla progressiva acclimatazione ad altitudini sempre più elevate per un periodo di tempo sufficiente. Il corpo umano si può infatti progressivamente adattare a basse pressioni di ossigeno, in modo che sia possibile non solo sopravvivere a quote superiori a 6000 m, ma anche svolgere un lavoro fisico e mentale. Mediante l'acclimatazione, la ventilazione polmonare a riposo e in condizioni di lavoro submassimale aumenta per 7-14 giorni, fino a quando non viene raggiunto un plateau, e così migliora l'assunzione di ossigeno da parte del sangue nei polmoni. Un altro adattamento importante, che comporta aumento del contenuto di ossigeno nel sangue arterioso, è costituito dalla maggiore concentrazione di emoglobina. Questa è dovuta, da una parte, alla riduzione del volume del plasma provocata dall'incremento della produzione di urina, fenomeno tipico dei primi giorni di permanenza ad alte quote, da cui risulta una concentrazione appena più elevata di emoglobina; dall'altra, al rilascio, scatenato dalla riduzione della pressione parziale di ossigeno nel sangue, di un ormone da parte dei reni, che porta al midollo osseo l'informazione di produrre più globuli rossi. L'acclimatazione provoca inoltre un aumento del volume di sangue.
Un effetto negativo sul sistema di trasporto dell'ossigeno consiste nella graduale riduzione della frequenza cardiaca massima a partire da una quota di 4000 m in poi, condizione che provoca anche la riduzione della gittata sistolica. In seguito a una lunga permanenza ad alta quota, tuttavia, il rapporto tra frequenza cardiaca e consumo di ossigeno torna a essere simile a quello che si ha al livello del mare, dove l'estrazione di ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nei muscoli in condizioni di attività massimale è molto efficiente. Dopo la fase di acclimatazione infatti vi è un sensibile miglioramento nell'estrazione di ossigeno. Un soggiorno prolungato ad altitudini elevate provoca a livello dei tessuti una riduzione nella dimensione delle fibre muscolari (durante una spedizione simulata sulla cima dell'Everest venne perso in media il 13% della massa muscolare). Il numero di capillari per unità di superficie però aumenta, migliorando di conseguenza la diffusione dell'ossigeno nei mitocondri delle fibre muscolari.
I meccanismi sottesi agli adattamenti all'alta quota sono molto complessi e ancora non del tutto chiariti. L'attività di ricerca ha tratto notevole impulso da competizioni sportive svoltesi ad alta quota, come i Giochi olimpici del 1968 a Città di Messico (2270 m) o la conquista dell'Everest (8848 m) senza l'ausilio di bombole di ossigeno. Le prestazioni nelle gare di media e lunga distanza ottenute nei Giochi olimpici del 1968 furono notevolmente inferiori ai risultati conseguiti al livello del mare, nonostante gli atleti si fossero precedentemente sottoposti a lunghi periodi di acclimatazione. È interessante notare, inoltre, che nessun primato mondiale è stato battuto dagli atleti dopo che essi erano tornati a gareggiare a basse quote. Evidentemente l'acclimatazione ad altitudini elevate non migliora le prestazioni fisiche ad altitudini più basse.
p.-o. åstrand, k. rodhal, Text of work physiology, New York, McGraw-Hill, 1986.
r. gualtierotti, h.i. kornbluch, c. sirtori, Bioclimatology, biometeorology and aeroionotherapy, Milano, C. Erba Foundation, 1968.
j. lasch et al., Oxidative damage of human skin lipids. Dependence of lipid peroxidation on sterol concentration, "Biochimica et Biophysica Acta", 1997, 1349, 2, pp. 171-81.
c.a. mccarty, h.r. taylor, Protecting eyes from sun damage, "Medical Journal of Australia", 1997, 166, 12, p. 671.
Management of wilderness and environmental emergencies, ed. P. Auerbach, E. Geehr, St. Louis (MO), Mosby, 1989.
s. meguro et al., Stratum corneum lipid abnormalities in UVB-irradiated skin, "Photochemistry and Photobiology", 1999, 69, 3, pp. 317-21.
a. narang, j. travadi, Sunlight exposure in young infants, "Indian Pediatrics", 1997, 34, 7, pp. 663-64.
g. rotondo, Ecobioclimatologia, Roma, Istituto italiano di medicina sociale, 1997
l. skov et al., Contrasting effects of ultraviolet-A and ultraviolet-B exposure on induction of contact sensitivity in human skin, "Clinical and Experimental Immunology", 1997, 173, 3, pp. 585-88.
l. skov et al., Contrasting effects of ultraviolet-A and ultraviolet-B exposure on the induction of tumour necrosis factor-alpha in human skin, "British Journal of Dermatology", 1998, 138, 2, pp. 216-20.
u. solimene, Lezioni di climatologia medica, Milano, Centro ricerche in bioclimatologia medica, 1995.
s.w. tromp, Biometeorology. The impact of the weather and climate on humans and their environment, London, Heyden, 1980.