Montes Pietatis
Quando a Perugia nel 1462 fu fondato il primo Monte di Pietà, l’idea era probabilmente in circolazione da un po’ di tempo. Ad accomunare le differenti iniziative e sperimentazioni era l’idea di raccogliere risorse cittadine (facendone un cumulo, ossia un monte) per rispondere alle necessità creditizie, di piccolo se non piccolissimo credito, di uomini e donne della città e del contado. È noto infatti che nei centri urbani dell’ultimo Medioevo, soprattutto in quelli minori, era difficile trovare denaro liquido, e che comunque gli interessi richiesti erano elevati. Sta di fatto che per chi necessitava di piccole somme allo scopo di affrontare spese urgenti il costo del denaro era proibitivo.
Dal pieno Trecento si era sperimentata la raccolta, tramite prestiti forzosi, di capitali cittadini per creare un Monte comune, vale a dire un cumulo di risorse da utilizzare per affrontare spese straordinarie o comunque ingenti che richiedevano il concorso dei più abbienti, a fronte della corresponsione di un interesse su quanto prestato. Subito dopo la metà del Quattrocento, nel 1458, fu invece proposta ad Ascoli Piceno, contestualmente alla soppressione dei banchi ebraici, un’istituzione che aveva il nome di Monte di Pietà ma caratteristiche un po’ diverse dai veri e propri Monti, in quanto si occupava di raccogliere elemosine da distribuire fra i poveri della città. Prima ancora, nel 1428, si era denominata Monte di Pietà un’istituzione benefica in favore dei poveri di Arcevia, presso Ancona.
A prestare il poco denaro che circolava erano i cambiatori, che notoriamente non si limitavano a operazioni di cambio ma anticipavano anche somme di diversa entità. Prestavano anche i mercanti-banchieri, ma si trattava perlopiù di somme ingenti per prestiti di impresa. Per le necessità più minute esistevano diversi generi di prestiti, informali e non, che andavano da quello di vicinato a quello all’interno delle corporazioni. Ciò costituiva una realtà di difficile definizione e controllo, che comportava condizioni raramente favorevoli al cliente e comunque scarsamente negoziabili da parte di quest’ultimo.
I tassi richiesti andavano dal 30% in su e, a fronte di una diffusa necessità di credito e di una risposta non di rado tortuosa e comunque esosa, si poneva la riprovazione ecclesiastica generalizzata di qualsiasi restituzione maggiorata di quanto ottenuto in prestito. Questo in coerenza con il dettato evangelico che imponeva di prestare senza aspettarsi nulla in cambio («mutuum date nihil inde sperantes», Luca 6, 35). Ciò ovviamente non scoraggiò l’effettiva richiesta di interesse da parte di chi compiva anticipazioni, e anzi finì con il rendere più costoso il denaro, stante le complesse strade imboccate per celare sotto altre spoglie il semplice contratto di prestito a interesse. La posizione di condanna dell’usura da parte della Chiesa non rimase identica nei secoli, né questa fu insensibile alle effettive esigenze delle persone o cieca di fronte a una realtà divergente rispetto alla teoria, tanto che vennero elaborati titoli per una legittima restituzione maggiorata. Restava la vischiosità della materia e l’alto costo del denaro.
Fu in questo scenario che nel secondo Duecento le autorità cittadine inventarono il prestito convenzionato con gli ebrei. In tutte o quasi le città grandi e piccole dell’Italia, soprattutto centro-settentrionale, singoli ebrei o gruppi di ebrei vennero chiamati per svolgere attività creditizia a condizioni pattuite. Le regole venivano fissate in ‘condotte’ che normavano il funzionamento dei banchi ma anche le condizioni della convivenza cristiano-ebraica nel rispetto degli usi alimentari e liturgici degli ebrei. Per questi ultimi non valevano le restrizioni evangeliche, mentre su di loro gravavano severi limiti alla partecipazione alla vita economica e di relazione, tanto che il settore creditizio divenne uno dei pochi nei quali essi poterono impegnarsi, e lo fecero in maniera sistematica ed efficace, risolvendo in molti centri urbani il problema del piccolo credito. Si trattò di una coraggiosa e utile innovazione, che andava incontro alle necessità di credito ma non a quelle dei meno poveri fra i poveri, di coloro cioè che disponevano di qualche bene da consegnare in pegno al banchiere ma trovavano eccessivo l’interesse, peraltro pattuito con le autorità e fissato nelle ‘condotte’, che si aggirava intorno al 40-50%. Per molti l’accesso al banco ebraico segnava la perdita del pegno e lo sprofondamento in uno stato di bisogno ancora più cocente.
L’idea di assumere il banco ebraico come modello di operatività, ma di interpretare in maniera solidaristica e non speculativa il compito di anticipare denaro, venne ai minori osservanti, ramo rigorista del francescanesimo. Fu così che intorno alla metà del Quattrocento i predicatori dell’osservanza cominciarono a proporre nelle piazze la creazione di un Monte di Pietà allo scopo di fornire piccolo credito a condizioni più favorevoli ai clienti rispetto a quelle di mercato. Si trattava di un’idea innovativa ma non priva di antecedenti interpretati in maniera diversa: non elemosina ma credito in termini solidaristici.
I clienti ai quali s’intendeva recare giovamento con questo nuovo servizio creditizio sui generis dovevano essere abitanti della città e poveri ma non poverissimi, e comunque in condizione di presentare al Monte un pegno che valesse almeno un terzo in più rispetto a quanto sarebbe stato loro concesso in prestito. Il periodo accordato per la restituzione era di oltre un anno, passato il quale se la somma non veniva restituita il pegno sarebbe stato venduto all’asta. L’interesse richiesto, quando richiesto, era pari circa al 5% e serviva a coprire le spese di gestione.
Per passare dall’ideazione alla realizzazione concreta occorreva in primo luogo presentare alla cittadinanza l’idea del Monte mettendo in luce e anzi esasperando i limiti del prestito ebraico e motivando a collaborare alla creazione di un Monte. Vi furono predicatori come Bernardino da Feltre (1439-1494) che si specializzarono nella proposta e fondazione di Monti, non lesinando attacchi agli ebrei, che in alcuni casi subirono aggressioni fisiche ed espulsioni. La piazza andava convinta dell’opportunità ma anche della convenienza della creazione di un Monte utilizzando ogni possibile argomento. Si trattava di una novità, che si contrapponeva al consolidato modo di affrontare i problemi creditizi rivolgendosi agli ebrei, e come ogni novità incontrò resistenze e suscitò dubbi.
Il Monte venne concepito a favore dei poveri meno poveri per ottenere credito, e non elemosina, a basso tasso di interesse (come voleva, per es., Bernardino da Feltre) quando non addirittura senza interesse, una posizione, quest’ultima, che ben presto indebolì gli istituti che la praticavano e che era destinata a essere superata. L’idea venne dunque presentata nelle piazze insistendo sulle molteplici forme di utilità del Monte: non solo per i clienti, che avrebbero trovato prestiti a condizioni decisamente convenienti, ma anche per quanti avessero destinato un po’ delle loro risorse al Monte donando o anche solo depositando denaro, in tal modo rendendolo disponibile per l’istituto. I sostenitori avrebbero ricavato dal concreto aiuto al Monte un vantaggio spirituale (ogni cliente dell’istituto avrebbe testimoniato la generosità dei benefattori facilitandone l’accesso al regno dei cieli) ma anche materiale, in quanto sarebbero stati giustificatamente esentati dal sostegno al singolo richiedente un prestito o un più generico aiuto. A ciò si aggiunga che quanti accettavano di depositare denaro al Monte avrebbero goduto del servizio della custodia dei loro denari nonché della remunerazione del capitale depositato, come accadde a partire dalla seconda decade del Cinquecento. Oltre ai clienti e ai sostenitori anche l’intera comunità cittadina avrebbe potuto ricavare vantaggio dalla nuova istituzione: godendo di maggiore pace e ordine in città e risparmiando sull’assistenza ai più miserabili, che spesso diventavano tali proprio in conseguenza di usure rovinose. L’argomento dell’utilità multipla del Monte doveva servire ad attrarre attenzione e capitali da parte sia delle autorità cittadine sia dei singoli detentori di qualche risorsa, ma anche degli stessi potenziali clienti, chiamati a contribuire anche in minima parte alla costituzione del capitale del Monte, dei cui servizi avrebbero poi potuto valersi. Sciorinate sulle piazze tutte queste ragioni, i predicatori promuovevano iniziative di raccolta di fondi, sollecitando le autorità cittadine a collaborare. Alla fine di processioni accuratamente organizzate, erano gli stessi predicatori a provvedere alla colletta, incoraggiando anche gare di generosità. I fondi così raccolti andavano a costituire il capitale iniziale.
Si trattava poi di individuare la sede più idonea, centrale ma con ingresso un po’ nascosto per proteggere la privacy dei clienti, in grado di accogliere e custodire i pegni difendendoli dagli attacchi dei male intenzionati. Infine andavano scritte le regole di funzionamento, stilando cioè quegli statuti che segnano la data di nascita ufficiale di ogni singolo Monte.
Il primo Monte fu fondato a Perugia nel 1462; seguirono quelli di Foligno, Gubbio, Orvieto, L’Aquila, Città di Castello, Terni, Ascoli Piceno: oltre una ventina solo negli anni Sessanta del Quattrocento, con fondazioni concentrate prevalentemente in Umbria e Marche. Se nel 1515 si contavano 135 Monti, nel 1562 erano già più di duecento, per lo più dislocati nell’Italia centro-settentrionale.
La modalità operativa non era molto dissimile da quella in atto nei banchi privati, ma segnavano la differenza alcuni elementi: in primo luogo l’interesse, che o non era richiesto o era molto basso, e in secondo luogo il fatto che l’istituto predeterminava la tipologia dei clienti legittimi. Diversamente dai banchieri privati, che non indagavano la condizione sociale e l’origine del cliente e meno che mai si occupavano della destinazione del denaro concesso, i Monti esigevano dal cliente il giuramento di essere un povero della città e di usare il denaro per buona e giusta causa e non, per es., per giocare.
Se i banchi privati prestavano un servizio impiegando il denaro dei banchieri o di quanti avevano deciso di investire in essi in vista di un guadagno che quindi costituiva lo scopo dell’azione, i Monti si prefiggevano una funzione sociale lontana dalla logica del profitto. Per questa ragione non potevano né volevano soddisfare qualsiasi richiesta di anticipo, e operavano utilizzando denaro assegnato, donato o depositato al Monte proprio con l’intesa che tramite esso si prestasse una forma di soccorso. Un’ulteriore differenza consisteva nella bassa entità dei prestiti, concessi sulla base di regole statutarie che fissavano limiti invalicabili. Ciò in quanto s’intendeva recare giovamento al maggior numero di persone possibile. Si poteva fare eccezione solo a vantaggio del Comune, in cambio di una politica favorevole all’istituto. In generale, le città comunali sostennero in maniera più o meno convinta i Monti, che invece incontrarono un più tiepido favore da parte dei signori, stante la solida relazione che legava questi ultimi agli ebrei, considerati una sorta di cassaforte alla quale attingere risorse concesse a condizione di favore in cambio di una buona accoglienza.
A ben vedere, le due istituzioni, quella pubblica rappresentata dal Monte e quella privata costituita dai banchi, potevano coesistere nella complementarietà, ma in diversi casi la predicazione minoritica indusse alla rinuncia della relazione cittadina con gli ebrei. Ciò finì con il produrre svantaggi, in quanto i prestatori privati diversi dagli ebrei, che operavano senza convenzione e che continuarono a prestare, applicavano tassi più elevati rispetto a quelli richiesti dagli ebrei ‘condotti’. Sta di fatto che in più casi Monti e banchi ebraici coesistettero, ma che si registrarono anche aperture di Monti rapidamente seguite da chiusure per la soddisfacente situazione registratasi prima della creazione del Monte. Quest’ultimo comunque non intendeva statutariamente soddisfare tutte le richieste di credito, e quindi era inevitabile che accanto a questi nuovi istituti continuassero a operare strutture private disposte a prestare a quanti erano respinti dal Monte.
Ogni Monte operava sulla base di un proprio statuto, e ogni statuto era un po’ diverso dall’altro anche se nelle linee generali l’operato di questi istituti presentava molte analogie. Alcuni Monti, e in particolare tutti quelli fondati da Bernardino da Feltre, pretesero fin dal primo momento il pagamento a carico del cliente di un interesse che poi altro non era che un parziale rimborso delle spese. Tale richiesta fu contrastata da taluni, in particolare dai domenicani e dagli agostiniani, in quanto giudicata usuraria. La questione suscitò vivaci discussioni e dibattiti pubblici. Si scrissero trattati su questo argomento, che divise i sostenitori del Monte e indebolì gli istituti. La discussione verteva sulla distinzione fra interesse e rimborso delle spese, ma riguardava anche l’attribuzione del costo del servizio (in quali forme e proporzioni) nonché il destino di eventuali plusvalenze. Tutte questioni che si delinearono già con il primo Monte. Le occasioni e le sedi per affrontarle e definirle furono tanto le piazze come le sedi nelle quali si elaborarono singoli statuti, ma furono anche gli studia universitari e i luoghi dei dibattiti dei sapienti sollecitati a elaborare consilia. A Perugia i giuristi dello studium ebbero un ruolo determinante nel rinforzare l’opera dei frati fondatori e difensori dei Monti. In particolare si segnala l’opera del frate-giurista Fortunato Coppoli, il cui Consilium de Monte Pietatis risale al 1469, cioè a pochi anni dopo la fondazione del primo Monte. È invece del 1497 il Defensorium Montis Pietatis contra figmenta omnia aemulae falsitatis di Bernardino de’ Busti (Amadori 2007). Nel trentennio fra le due opere si consumò la parte più consistente di una discussione molto accesa, che dimostra quanto il Monte avesse colpito nel segno con la sua azione solidaristica e insieme economica del tutto innovativa.
Agire in campo creditizio con una prospettiva non genericamente benefica eppure solidaristica costituiva una novità coraggiosa, che espose i sostenitori del Monte ‘a interesse’ a non pochi attacchi. Il Consilium del Coppoli agì da apripista, e altri dopo di lui analizzarono minutamente il funzionamento del Monte, all’interno di una vasta diatriba per certi versi molto astratta ma anche molto ‘moderna’ per il largo uso della stampa e il coinvolgimento di numerosi intellettuali, chiamati a misurarsi con questioni che erano insieme teoriche ma anche di viva attualità. Fra i più noti scritti polemici vi sono il De Monte Impietatis (1496) dell’agostiniano Nicolò Bariani, non contrario al Monte in sé ma alla richiesta ai clienti di un rimborso delle spese, e l’opuscolo intitolato De Monte Pietatis (1498) del cardinale domenicano Tommaso De Vio, che fu l’ultimo scritto importante sull’argomento prima della pronuncia, favorevole alla richiesta di rimborso delle spese, dei padri del V Concilio Lateranense (bolla Inter Multiplices, 4 maggio 1515). Anche un importante maestro in teologia come il De Vio non esitò dunque a misurarsi con la questione dell’interesse, spostando il dibattito sul come e quanto far pagare al singolo cliente senza però caricare solo lui delle spese del Monte. Scontati la necessità di una gestione razionale dell’istituto e il fatto che per pagare i funzionari e le spese non si dovesse intaccare il capitale dell’istituto, il problema per lui stava nell’individuazione di coloro ai quali lecitamente, o meglio iuste, spettava l’onere delle spese in oggetto. Alcune opere, per es. il Consilium di Annio da Viterbo, vennero scritte nel vivo di polemiche suscitate da una precisa fondazione, segnatamente quella del Monte di Genova: per dire come i Monti interessarono, coinvolsero e anche divisero. Certamente lasciarono un segno nella teoria e nella prassi, aprendo la strada a interventi in campo economico eticamente compatibili. Dopo il Monte la polemica contro l’interesse non fu più la stessa, né fu più il medesimo il panorama delle istituzioni creditizie cittadine. Ciò sembra valere sia sul piano metaforico sia sul piano reale, in quanto i Monti entrarono a far parte del novero delle istituzioni pubbliche cittadine che popolavano il centro urbano.
Dal secondo decennio del Cinquecento tutti i Monti richiesero un piccolo interesse. Questo non bastò in molti casi a rendere forti e autosufficienti i Monti, che talvolta chiusero i battenti per poi riaprire a lustri o decenni di distanza. Comportamenti imprudenti o veri e propri intacchi li indebolirono, ma in qualche caso portarono alla chiusura i limiti insiti nell’operatività del Monte, in bilico fra credito e beneficenza. Ma questa era anche la novità e la forza del nuovo istituto.
Nel corso del tempo gli statuti originari subirono modificazioni, perché il Monte, in armonia con la società circostante, cambiò un po’ il suo modo di operare. Del resto una regola presente in quasi tutti gli statuti prevedeva la modificabilità sulla base delle esigenze di volta in volta emergenti. La ‘riformabilità’ prevista portò, per es., a far precisare nel 1471 a Perugia che era lecito usare il denaro del Monte per fare «alcuna merchantia», cosa non specificata negli statuti del 1462, che prevedevano l’uso del denaro del Monte «per cosa licita et per bisognio necessario et non per cosa non licita et superflua». La riforma del 1491 degli statuti di Spoleto, la cui prima redazione era del 1469, comportò l’affiancamento al Monte che anticipava denaro di un Monte che prestava frumento. In altri casi la riformulazione degli statuti riguardò l’aumento delle somme concedibili o il ritocco dell’interesse richiesto. Nel corso dei secoli gli statuti di ogni Monte furono generalmente rivisti più e più volte.
Per circa un secolo si continuò a fondare Monti. Questi ultimi, in linea di massima, sorsero prima nei piccoli centri, dov’era più difficile trovare persone disposte a prestare, e più tardi nelle grandi città, specie dell’Italia meridionale. A Napoli il primo Monte fu fondato nel 1539 e, nello stesso anno, iniziò le sue operazioni il Sacro Monte di Roma. Il Monte dell’Aquila prese avvio nel 1466, seguirono quelli di Sulmona, Pescocostanzo e Lecce, rispettivamente nel 1471, 1517 e 1520. Nel Mezzogiorno il maggior numero di fondazioni a opera di privati o di confraternite ebbe luogo nel trentennio 1591-1620.
Nacquero Monti anche fuori d’Italia, nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania, ma tutti piuttosto tardivamente: per es., ad Avignone nel 1610, a Bruxelles nel 1618, ad Anversa nel 1620, a Marsiglia nel 1696, a Parigi nel 1777.
In più di un caso a fondazioni seguirono chiusure e rifondazioni. Difficoltà e resistenze richiesero più interventi da parte dei fondatori e sostenitori dei Monti. A Bologna, per es., al primo Monte aperto nel 1473 e chiuso poco più di un anno dopo seguì la rifondazione nel 1504. Da allora il Monte moltiplicò le sue postazioni in città, con sedi dislocate in diverse zone, per servire meglio la propria clientela. La politica di diffusione dei banchi di Pietà in città portò all’apertura, dopo i Monti di San Petronio e di San Pietro, di quelli di San Bartolomeo, di San Gregorio e, alla fine del Seicento, dei Monti della Canapa e della Seta. Questi ultimi due servivano a sostenere specifici settori dell’economia cittadina: uno scopo un po’ diverso da quello del progetto originario (Delbianco 1999).
Molta strada si era fatta nel corso di un secolo, lungo il quale si era imposta l’idea del credito come servizio razionale ed efficiente ma anche dotato, se compiuto a certe condizioni, di valenza etica, e aveva avuto inoltre luogo un’induzione al risparmio e all’investimento di esso in una forma di attività creditizia solidaristica. Si verificò anche un forte sforzo comunicativo a sostegno della nuova istituzione, con ampio ricorso alle immagini. Il Monte nacque con una sorta di ‘logo’ (uno o più Monti sormontati da una croce) e con una stretta ed efficace associazione all’imago pietatis, alla rappresentazione cioè di Cristo che emerge dal sepolcro, sofferente e sostenuto da angeli o dalla Vergine e da santi. Più di un fondatore e sostenitore di Monti, ma soprattutto Bernardino da Feltre, è stato rappresentato con il Monte in mano e un cartiglio con la scritta Habe illius curam (Luca 10, 35) che sollecitava a prendersi cura di chi versa in stato di difficoltà. Lo scopo delle rappresentazioni era quello di spingere ad aver cura del Monte come ne avevano avuto i fondatori, e di ricordare la funzione benefica da esso svolta.
Per occuparsi del diffuso bisogno creditizio cittadino sorsero dunque i Monti, che quasi ovunque ben presto diventarono una delle istituzioni rilevanti nel panorama urbano, occupando zone centrali e piazze di prestigio con sedi che, se in un primo tempo erano edifici adattati, in seguito vennero costruite appositamente, e che erano tanto più grandi quanto più in città era necessario il servizio del Monte.
Gli statuti primigeni dei singoli istituti indicavano l’opportunità di una sede idonea e sicura, e raccomandavano ai funzionari di abitare in essa, tenendo un comportamento adeguato, compatibile cioè con il peculiare carattere dell’istituto. Soprattutto nelle prime fasi, i Monti risultano ospitati ora in uno o più locali della sede del Comune, il che rivela il carattere pubblico dell’istituto, ora nei pressi del carcere cittadino, per condividere con esso il servizio di controllo, che era molto utile visto che il Monte custodiva beni anche di valore. Non mancarono casi di sistemazioni di fortuna in locali messi a disposizione da qualche benefattore, ma quanto più il Monte serviva alla città e quanti più clienti accoglieva, tanto più tese appunto a guadagnare una posizione centrale e ad avere una sede propria. Paradossalmente, il Monte cresceva quanto più calavano le risorse dei cittadini, che sempre più numerosi erano costretti a fare ricorso ai suoi servizi. Nel corso del Cinquecento e anche successivamente vennero edificate apposite sedi centrali, ma con ingresso su una via secondaria per rispettare la privacy di clienti che non sempre gradivano rendere noto il loro stato di necessità. Il Monte modificò dunque il panorama urbano, divenendo ben presto un punto di riferimento topografico, come si ricava sia da indicazioni documentarie che alludono, per localizzare un posto, alla vicinanza del Monte («prope Montem Pietatis»), sia dal fatto che vennero intitolati via del Monte o piazza del Monte la strada o lo slargo che portavano all’istituto o che erano a esso antistanti. Ancora oggi molte città grandi e piccole d’Italia conservano vie e piazze ‘del Monte’: così a Bologna come a Roma o a Palermo.
Luoghi adattati e soprattutto sedi appositamente costruite rendevano riconoscibile il Monte a un primo sguardo tramite affreschi o sculture sul tema della Pietà, che ‘segnavano’ il territorio urbano e cercavano di ricordare ai cittadini il dovere di sostenere quanti necessitavano di credito, ma anche la possibilità di accedere a esso per uscire dallo stato di bisogno.
A rigore di statuti, i Monti prestavano ai bisognosi, ma lo stato di bisogno è un concetto fluido, non definibile una volta per tutte. Vi erano statuti nei quali era precisato che si doveva trattare di bisogno lecito e necessario, e comunque di necessità di piccolo calibro, stante la limitatezza delle somme concesse. Gli elenchi dei pegni consegnati e l’indicazione della somma prestata aiutano a immaginare il profilo dei clienti quando mancano dati diretti. Sappiamo che fin dai primi tempi molti piccoli artigiani si rivolsero al Monte per ottenere credito. Sta di fatto che gradualmente questi istituti mutarono le loro finalità e le loro funzioni, passando dai piccoli prestiti al consumo ai prestiti produttivi. In questo modo offrirono un autentico sostegno alle economie urbane, come dimostrano gli studi sugli andamenti dei prestiti e sulle somme monetarie prestate complessivamente nel corso del Cinquecento. L’analisi, per es., della progressione nel tempo delle operazioni effettuate nel Monte di Bologna mostra intorno alla metà del Cinquecento un raddoppio nel corso di un decennio. Nel giro di un anno, tra il 1556 e il 1557, i quattro Monti cittadini arrivarono a svolgere quasi 70.000 operazioni, in una città nella quale abitavano in quel periodo poco più di 50.000 persone (Fornasari 1993, p. 241).
Anche in ragione del carattere peculiare del credito erogato dai Monti, non poche donne fecero ricorso a esso, come attestano le registrazioni di pegni consegnati in diversi istituti. In molti casi non esitarono a portare le loro cose ai Monti, ma anche quando non vi accedettero direttamente, il legame fra le donne e il Monte è rappresentato indirettamente dagli innumerevoli capi di abbigliamento o piccoli gioielli femminili presentati come pegno, sia nei primi anni di vita dell’istituto sia in epoche più vicine alla nostra. Vi è poi un’altra forma di protagonismo femminile legata al Monte, rappresentata dalle montiste, vale a dire intermediarie, la cui attività è abbastanza documentata sul finire dell’Ottocento. Si trattava di donne che impegnavano oggetti al Monte per conto d’altri. Queste mediatrici a pagamento traevano vantaggio da un doppio ordine di motivi: dalla vergogna che taluni provavano a rivolgersi direttamente al Monte, ma anche dalla difficoltà incontrata a recarsi al Monte da parte di quanti non abitavano nelle vicinanze dell’istituto e non potevano perdere molto tempo per raggiungerne la sede, aperta solo per poche ore e non tutti i giorni, e per stare ore in fila. È fra il Settecento e l’Ottocento che dapprima si delinea e poi si specializza la figura femminile della raccoglitrice e presentatrice di pegni, definita a Bologna montista, a Genova mediatrice e a Milano imprestiera. Si trattava di donne che evidentemente godevano della piena fiducia dei cittadini, disposte ad anticipare ai clienti il denaro di cui avevano bisogno, a fronte della consegna di un pegno che poi avrebbero portato al Monte. Conoscevano quindi il valore delle cose, e in molti casi erano anche pronte a fare prestiti personalmente (Antonello 1997, pp. 121-27).
In pratica fin da subito, ma soprattutto nel Seicento e nel Settecento, il Monte ampliò l’area dei suoi interventi economici e sociali, pur mantenendo, coerentemente con il programma delle origini, lo scopo di sostenere con un credito solidaristico i «pauperes pinguiores» (poveri sì ma non poverissimi, nella definizione del domenicano, contemporaneo alle prime fondazioni, Annio da Viterbo), ridistribuendo risorse cittadine derivanti da lasciti, donazioni ma anche dalla sollecitazione del deposito presso il Monte dei capitali posseduti e dunque dei risparmi. Accanto ai Monti, in molte città presero a operare Monti delle Doti, istituti distinti dai primi, con lo scopo di raccogliere depositi finalizzati alla costituzione di doti. Una funzione del genere poteva essere svolta anche dallo stesso Monte Pio, che assunse un’importanza crescente come luogo di deposito e custodia delle entrate di monasteri, conventi, confraternite ed enti assistenziali. Tutto ciò, pur configurando servizi bancari, contribuiva ad attribuire al Monte un peculiare carattere solidaristico, che giustifica la denominazione di ‘sacro Monte’ in più di un caso attribuita a questi istituti. Del resto dal Concilio di Trento in poi il Monte rientrò nel novero delle istituzioni sottoposte a controllo ecclesiastico tramite le visite pastorali.
In merito all’ampliamento delle funzioni svolte dall’istituto, c’è chi ha parlato di deviazioni e di sconfinamenti, ma più opportunamente si dovrebbe parlare di adattamenti alle situazioni modificate o di attualizzazione dell’azione bancaria sì ma sui generis svolta dall’istituto.
Il tema della natura, se benefica o bancaria, del servizio offerto dal Monte, ha fatto a lungo discutere. La natura era sostanzialmente mista, ma la funzione era di tipo bancario e svolta in maniera razionale. L’istituto offriva un servizio creditizio limitato, almeno nei primi tempi, quanto a somme e a condizioni del prestito, ma si trattava sempre e comunque di prestiti su pegno e non di elemosine o di generiche beneficenze. Il basso costo del denaro era dovuto alle particolari condizioni alle quali si era potuto fare ricorso per disporre di un capitale che non richiedeva remunerazione ma solo attenta conservazione. Ciò non sempre ebbe luogo, e furono frequenti intacchi e ruberie che compromisero l’efficacia del servizio.
Non rientra propriamente fra le cosiddette deviazioni il prestito dei Monti della Seta e della Canapa di Bologna, che rappresentavano un sostegno a ceti produttivi esposti a molti rischi. Diverso il caso di anticipazioni di ingenti somme di denaro da parte del Monte a persone decisamente non povere, che grazie a trattamenti di favore riuscirono a fare accettare come pegno oggetti, e in particolare gioielli, di gran valore. Ciò segna l’allontanamento dagli scopi originari, ed evidenzia la volontà del patriziato cittadino di trarre profitto dall’istituto, dove si cercava di piazzare membri influenti che sostenevano o consentivano usi impropri del denaro del Monte. Ma ciò segna anche una più generale tendenza all’ampliamento della concreta attività dei Monti, sulla scorta delle mutate condizioni ambientali. Non solo commercianti e possidenti ma addirittura principi sono infatti annoverati in alcuni casi fra i clienti dei Monti. Al Monte di Roma, per es., risulta che abbiano fatto ricorso persino dei sovrani, dalla regina Maria Cristina di Svezia alla regina di Polonia, Maria Casimira de la Grange d’Arquien, moglie di Giovanni III Sobieski. Quanto al Monte di Torino, esso sostenne la città con un prestito consistente: 1000 doppie nel 1668, in armonia peraltro con le regole dei Monti del periodo delle origini, che prevedevano un reciproco aiuto fra città e istituto. In generale, in età moderna l’attività dei Monti Pii si ampliò enormemente, per es. a Firenze e a Siena, grazie alla significativa disponibilità di fondi assicurata dalla raccolta dei depositi. Vi erano Monti che, come quelli della Toscana ma anche quello di Napoli, facevano prestiti senza pegno, e che crearono il sistema per far circolare i depositi a essi affidati attraverso titoli negoziabili.
Istituti come il Monte di Milano vennero chiamati a ricoprire dalla prima metà del Seicento funzioni sempre più decisive e istituzionali nel sistema creditizio. Il Monte milanese era unanimemente riconosciuto come istituzione ‘utile al commercio’, oltre che dedita a sollevare le famiglie dall’indigenza: era davvero passato molto tempo da quando gli statuti primigeni vietavano di usare il denaro del Monte «per mercatare»! Nel Settecento, un po’ ovunque i legami fra il Monte e il ceto mercantile erano un dato di fatto attestato.
Già nel Cinquecento erano stati gli stessi pontefici ad autorizzare l’ampliamento delle attività dei Monti, consentendo con Gregorio XIII nel 1584 di versare nelle casse dei Monti i depositi giudiziari. Di fatto in quasi tutte le città i Monti funsero da depositeria e da tesoreria, e istituirono servizi di conto corrente. Estesero inoltre i loro servizi con corrispondenze fra piazze, avviarono depositi fiduciari e, come si è anticipato, accolsero ‘depositi di riposo’, cioè forme di piccolo e medio risparmio. Ciò lascia ben intendere come e perché sono considerati precursori delle Casse di risparmio.
Praticamente in tutte le città l’attività del Monte venne soffocata dall’occupazione francese. Coerentemente al regime instaurato in Francia con la legislazione ‘dittatoriale’, i Monti di Pietà italiani furono ritenuti ‘casse pubbliche’, e in quanto tali subirono a titolo di confisca la totale spoliazione dei loro beni e dei pegni depositati (a titolo di preda bellica). I pegni di minor valore, appartenenti verosimilmente ai più bisognosi, non vennero sequestrati, e furono invece restituiti gratuitamente ai proprietari, a detrimento dell’istituto. Sta di fatto che le spoliazioni colpirono severamente i Monti e i loro clienti: i prestiti fatti sui pegni asportati non sarebbero infatti più rientrati nelle casse dell’istituto, e i clienti avrebbero dovuto rinunciare per sempre all’idea di recuperare i loro pegni.
L’importanza che nelle città si riconosceva alla funzione del Monte è comprovata anche da quanto si operò per ripristinarne i servizi dopo le spoliazioni. Così a Ravenna ci si attivò in più direzioni per rimettere in sesto il fondamentale servizio di prestanze di un Monte che con il dominio francese finì vieppiù nelle mani delle oligarchie locali, all’interno di un’alternanza durata secoli di controllo ora religioso e ora civile. Ciò del resto corrispondeva alla natura anfibolica dell’istituto e del relativo servizio di credito. Da sempre, infatti, il Monte svolgeva un preciso ruolo nel mondo economico-creditizio, ma anche un compito sociale di presidio dei meno abbienti. Un doppio ruolo che indica l’originalità dell’ideazione minoritica e il bisogno di coniugare economia ed etica. Il rischio, tanto nella vita pratica dell’istituto come nell’interpretazione di esso, era quello di sovrastimare ora l’uno ora l’altro aspetto. Fu così che la sottolineatura degli aspetti caritativi dell’istituto e la difficoltà dopo le spoliazioni di recuperare la molteplicità di compiti precedentemente assunti, portarono alla loro perdita di autonomia amministrativa, e i Monti finirono raggruppati nelle Congregazioni di carità napoleoniche, istituite nel 1807. Il provvedimento doveva essere temporaneo, e in effetti successivamente i Monti riacquisirono autonomia quasi ovunque, ma la loro azione si ridusse quasi esclusivamente all’esercizio del credito su pegno, ed essi furono considerati erogatori di interventi meramente assistenziali.
Nel primo Ottocento furono le Casse di risparmio, istituti nati per raccogliere il piccolo risparmio e sostenere con prestiti iniziative individuali ma anche azioni benefiche, a svolgere le funzioni di educazione al risparmio, di raccolta di esso e di erogazione di piccolo credito, sulla scia di quanto ideato nel Quattrocento e realizzato dai Monti nel corso dei secoli. A promuovere questo genere di fondazione furono i privati, i Comuni, ma soprattutto i Monti di Pietà. Questi ultimi conobbero come conseguenza una più limitata considerazione del loro ruolo. Dopo l’unificazione vennero assimilati a enti assistenziali, disciplinati dalla legge del 1862 sulle Opere pie, e nuovamente concentrati nelle Congregazioni di carità previste dalla normativa sull’assistenza del nuovo regno. Sul finire dell’Ottocento, grazie alla reazione degli amministratori dei principali Monti, si giunse a un provvedimento che riconosceva la loro duplice natura di istituti di beneficenza e di credito. Tale provvedimento ne rilanciò in parte le attività di raccolta e di prestito.
L’evoluzione della legislazione ha portato le Casse di risparmio a essere equiparate alle altre banche, e ha anche spinto molte Casse a fondersi con la Cassa del capoluogo. La cosiddetta legge Amato-Carli (l. 30 luglio 1990 nr. 218) ha modificato il sistema e obbligato a separare l’azienda bancaria (perché le Casse erano anche vere e proprie banche) dalla Fondazione Cassa di risparmio, che era la sezione dotata di finalità morali e benefiche. Dopo oltre 500 anni dalla nascita dei primi Monti di Pietà, che avevano realizzato l’unione di servizio creditizio e finalità benefica, si è andati alla separazione fra le due finalità, quella creditizia e quella bancaria. Sono così nate le Fondazioni, derivate dalle Casse di risparmio, che sono diventate azioniste-chiave dei gruppi bancari che hanno contribuito a costituire. Le Fondazioni oggi perseguono le finalità di solidarietà sociale che caratterizzarono i primi Monti, e come questi ultimi intendono operare in ambito locale, contribuendo alla salvaguardia e allo sviluppo del patrimonio artistico e culturale, al sostegno della ricerca scientifica e alla crescita delle comunità locali, attraverso la definizione di propri programmi e di progetti di intervento da realizzare direttamente o con la collaborazione di altri soggetti pubblici o privati.
Gli antichi Monti di Pietà hanno continuato a funzionare accanto alle Casse di risparmio, e benché considerati istituti pii hanno fatto anche, o meglio hanno continuato a fare, attività creditizia, e a essere quindi sottoposti alla vigilanza ministeriale.
All’inizio del Novecento in molte città, a Bologna ma anche a Roma, a Torino e a Padova, si aprì la Banca del Monte, che rappresentava la realizzazione del programma di Bernardino da Feltre, e cioè prestare a un interesse modesto ma tale da assicurare le risorse per continuare a realizzare finalità etiche.
Nel 1923 i Monti si divisero in due categorie: alla prima appartenevano quelli che esercitavano prevalentemente le funzioni di credito, e alla seconda quelli che esercitavano prevalentemente il servizio di prestito su pegno. Un provvedimento del 1938 ribattezzò i Monti di Pietà con il termine di Monti di Credito su pegno, e provvide a disciplinare l’attività di questa seconda categoria. I Monti furono sottoposti alle norme delle Casse di risparmio, e hanno svolto funzioni di credito (aprendo più sportelli) ma anche continuato l’attività di prestito su pegno. Così, per es., a Bologna, dove tale attività funziona ancora nell’antica sede vicino alla cattedrale, centrale ma con ingresso secondario, secondo la disposizione che era già in uso alla fine del Medioevo, molto più attento di quanto non si ritenga comunemente alle necessità non solo economiche delle persone.
Con o senza interruzioni, i Monti hanno continuato a funzionare, e oggi, tanto a Roma come a Bologna, prestano somme di denaro a fronte della consegna di un pegno da parte di uomini e donne che, varcando la soglia dell’istituto, recano in mano oggetti diversi e ne escono con valute differenti rispetto a quelle in uso fra Medioevo ed età moderna. Molto se non tutto è cambiato intorno all’istituto, e anche all’interno di esso. Appare tuttavia confrontabile se non uguale il senso di imbarazzo ma anche di fiducia con il quale ci si rivolgeva e ci si rivolge al Monte, considerato e rimasto una sorta di purgatorio di oggetti in attesa di nuovo uso (Ferrières 2004, p. 11). Il Monte era e resta un luogo nel quale beni si trasformano in monete, necessità urgenti trovano una risposta, donne e uomini accedono all’istituto con la speranza di recuperare un giorno quanto depositano in pegno. Nella letteratura sono molte le tracce lasciate dai Monti, ieri ma anche oggi (Loewenthal 2010), attraverso racconti o cenni a singole vicende che costituiscono una storia collettiva di cose e soprattutto di persone bisognose e dignitose che entrano ed escono dal Monte.
Attualmente è forte l’attenzione per il microcredito e per la banca etica: si tratta di forme di intervento in campo creditizio anticipate dai Monti di Pietà, la cui lungimirante e lunga storia ha saputo arrivare dal secondo Quattrocento fino a noi. Serva la storia almeno a questo, a riconoscere le continuità nelle differenze e la perennità di bisogni e valori.
G. Garrani, Il carattere bancario e l’evoluzione strutturale dei primigenii Monti di pietà. Riflessi della tecnica bancaria antica su quella moderna, Milano 1957.
V. Meneghin, Bernardino da Feltre e i Monti di pietà, Vicenza 1974.
V. Meneghin, I Monti di pietà in Italia: dal 1462 al 1562, Vicenza 1986.
Monti di pietà e presenza ebraica in Italia (secoli XV-XVIII), a cura di D. Montanari, Roma 1999.
M.G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di pietà, Bologna 2001.
S. Amadori, Nelle bisacce di Bernardino da Feltre. Gli scritti giuridici in difesa dei Monti di pietà, Bologna 2007.
E. Loewenthal, Una giornata al Monte dei pegni, Torino 2010.
Su singoli Monti si possono vedere indicativamente i seguenti studi:
S. Majarelli, U. Nicolini, Il Monte dei Poveri di Perugia. Periodo delle origini (1462-1474), Perugia 1962.
M. Fornasari, Il ‘thesoro’ della città. Il Monte di pietà e l’economia bolognese nei secoli XV e XVI, Bologna 1993.
C.B. Menning, Charity and state in late Renaissance Italy. The Monte di pietà of Florence, Ithaca-London 1993.
P. Antonello, Dalla Pietà al credito. Il Monte di pietà di Bologna fra Otto e Novecento, Bologna 1997.
M. Delbianco, Le sedi storiche del Monte di Pietà di Bologna, Firenze 1999.
M. Ferrières, Le bien des pauvres. La consommation populaire en Avignon, 1600-1800, Champ Vallon 2004.
F. Lazzari, Il Monte di Pietà di Velletri (1470-1940), Velletri 2005.
G. Silvano, A beneficio dei poveri. Il Monte di Pietà di Padova tra pubblico e privato, 1491-1600, Bologna 2005.
Sacri recinti del credito. Sedi e storie dei Monti in Emilia-Romagna, a cura di M. Carboni, M.G. Muzzarelli, V. Zamagni, Venezia 2005.
E. Fraccaroli, Fra pubblico bene e privata utilità. Il Monte di pietà di Milano dagli ordini del 1635 all’età napoleonica, Bologna 2008.
C. Ferlito, Il Monte di pietà di Verona e il contesto economico-sociale della città nel secondo Settecento, Venezia 2009.
Per una bibliografia aggiornata, si veda l’inventario bibliografico Monti di pietà e Monti frumentari del Centro studi sui Monti di Pietà e sul credito solidaristico, nel sito della Fondazione del Monte: www.fondazionedelmonte.it/CENTRO_STUDI_MONTI/Biblioteca/Libri.aspx.