Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di
Filosofo francese, nato a La Brède, presso Bordeaux, nel 1689 e morto a Parigi nel 1755. Appartenente alla nobiltà di toga, fu dapprima magistrato (consigliere e poi, per eredità, presidente del Parlamento di Bordeaux); in seguito, dopo aver venduto la carica secondo le regole della venalità proprie all’ancien régime, si dedicò alla riflessione sulla politica. Fu tra i maggiori interpreti della cultura filosofica e civile del 18° sec.; la sua opera principale, De l’esprit des lois (1748), gli valse un’immediata celebrità europea. Fra gli altri suoi scritti sono da ricordare le Lettres persanes (1721), romanzo epistolare, modello di critica e di satira sociale, e, di particolare rilievo ai fini di un confronto a distanza con le opere e il pensiero di M., le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734).
Il problema del rapporto tra Montesquieu e M. può essere così articolato: che conoscenza avesse Montesquieu dell’opera di M. e quale influenza abbia questa esercitato sulla sua riflessione; la percezione di assonanze e tematiche di derivazione machiavelliana, così come rilevate nell’ambito della cultura europea tra i secc. 18° e 19°; il giudizio di Montesquieu su M.; il nesso tra M. e Montesquieu nel contesto del dibattito contemporaneo sul tema del repubblicanesimo, sotto un profilo prevalente di teoria politica e, in particolare, all’interno dell’area culturale anglosassone.
Montesquieu ebbe con l’opera di M. una frequentazione assidua che il numero complessivamente scarso, ma quasi sempre significativo, delle citazioni dirette rivela solo parzialmente (Levi-Malvano 1912, studio ancora oggi da considerarsi come «fondamentale e tuttora insuperato»: D. Felice, in Montesquieu, Dissertazione sulla politica dei romani nella religione, 2010, nota 6). Il catalogo della biblioteca privata di La Brède, redatto sotto il controllo personale di Montesquieu alla data del 1731, e dunque in epoca antecedente la composizione delle opere politiche maggiori, attesta la presenza di edizioni latine (Disputationum de re publica quas discursus nuncupavit, libri tres, 1589, in 8°; Princeps, 1600, in 12°); francesi (Le Prince, 1684, in 12° e, ricompresi in un unico volume, i Discours de l’état de paix et de guerre seguiti da Le Prince e da L’Art de la guerre, pubblicati a Parigi tra il 1613 e il 1614, in 8°; Discours politiques sur les Décades de Tite-Live, 1692, in 12°); infine l’edizione italiana delle Opere del 1726 (4 voll., in 12°). Da più indizi risulta anche una conoscenza delle Istorie fiorentine. Montesquieu ebbe nei confronti della lingua italiana un interesse vivo e costante: «Ciò che vi è di abbastanza singolare» – annotava a proposito della lingua italiana nei suoi appunti di viaggio – «è che non esiste alcun libro che possa proporsi a modello: ognuno scrive a suo modo». Anche se, osservava, vi è chi propone «le Boccace; d’autres, Guichardin» (OEuvres complètes, présentation et notes de D. Oster, 1964, p. 232). Il nome di M. compare in un elenco, anch’esso corrispondente agli anni di viaggio (1728-31) sotto il titolo «Livres originaux que j’ai à lire»: trattandosi di autori tutti non francesi risulta evidente l’intenzione di una lettura nel testo originale di opere da lui ritenute di particolare importanza. Nelle di poco successive Considérations, l’eco di M., relativamente ai temi di storia romana repubblicana, appare costante (anzi proprio l’assenza del nome di M. dalle pagine dell’opera, così come dalla precedente e giovanile Dissertation sur la politique des Romains dans la religion, letta all’Accademia di Bordeaux nel 1716, sembra attestare l’ispirazione di fondo); l’eco tuttavia, come precisi raffronti testuali evidenziano, appare ancora mediata principalmente dalle traduzioni francesi. E del resto neppure il confronto con la versione latina sarebbe in seguito scomparso, se ancora in De l’esprit des lois le parole di Discorsi I vii 15 «pochi sempre fanno a modo de’ pochi» sono rese nella citazione di Montesquieu «peu sont corrompus par peu» (Esprit des lois VI 5), senza dunque conformarsi alla traduzione francese di François Testard del 1743 («le petit nombre agit toujours comme font les petites compagnies»), ma con visibile riflesso della non letterale versione latina «ubi pauci judices sunt, facile a paucis corrumpi queant» (cfr. Shackleton 1964, p. 13), che, si può notare, esplicita il riferimento alla ‘corruzione’: tema senz’altro eminentemente machiavelliano e, come si vedrà, posto al centro delle più recenti interpretazioni ‘repubblicane’ dei due pensatori.
L’atteggiamento di Montesquieu riguardo a M. nel quadro della cultura francese del 18° sec. deve ritenersi atipico. Rifletteva maggiormente lo spirito dell’epoca Voltaire, quando, proprio nel Commentaire sur quelques principales maximes de l’Esprit des lois – in relazione al cap. ii del libro X (De la guerre) ove era sostenuto il diritto per le società minacciate alla «naturale difesa» dell’attacco preventivo –, polemicamente chiosava:
se fosse Machiavelli a rivolgere queste parole al bastardo abominevole dell’abominevole papa Alessandro VI non ne sarei stupito [...] Ma che tale massima sia di un uomo come Montesquieu è cosa tale da non credere ai propri occhi (OEuvres complètes de Voltaire. Politique et législation, t. 1, 1821, p. 333).
Un’associazione viceversa in chiave positiva appartiene, nel secolo successivo, al contesto italiano e in particolare a esponenti di rilievo della generazione risorgimentale: Pasquale Stanislao Mancini giungeva in modo reciso ad affermare che «senza Machiavelli il pubblicista francese non sarebbe stato possibile» (Machiavelli e la sua dottrina politica, 1852, § 11); e il piemontese Federico Sclopis dava alle stampe un articolo titolato Montesquieu et Machiavel (1856), poi rifuso nelle Recherches historiques et critiques sur l’Esprit des lois de Montesquieu (1857). L’idea di uno stretto rapporto tra l’opera di M. e quella di Montesquieu nella seconda metà del 19° sec. veniva recepita anche all’interno della culturafrancese: Édouard de Laboulaye, figura eminente del liberalismo nei primi anni della Terza Repubblica e curatore di una nuova edizione delle opere di Montesquieu, ravvisava in M. «un modello» in particolare in relazione ai Discorsi «letti e riletti». Si esprimeva in senso contrario Émile Durkheim nella tesi complementare di dottorato, in latino, discussa in Sorbona nel 1892 sul contributo alla «scienza politica» da parte di Montesquieu: Nihil igitur iniquius sit quam si Secundatum [Montesquieu] cum Machiavelo compares («Nulla dunque può essere più ingiusto di paragonare [Montesquieu] a Machavelli»). In realtà, ben visibile è l’influenza esercitata da M. su alcuni temi centrali della riflessione di Montesquieu: dal costante riferimento al tema della ‘virtù civile’, al di fuori dei canoni normativi e morali propri alla tradizione umanistica (Platania 2007, p. 161), all’assunzione quali modelli storici di riflessione politica di Roma e, anche attraverso la mediazione repubblicana di James Harrington, di Venezia (Matteucci 1970), fino al riconoscimento del valore funzionale dei conflitti sociali (tema di riflessione cruciale che, tramite Montesquieu, arriverà al liberalismo ottocentesco europeo). L’eco di M. è indubitabile quando Montesquieu afferma: «Era del tutto necessario che vi fossero delle divisioni a Roma [...] Domandare, in uno stato libero, gente ardita in guerra e timida nella pace è volere una cosa impossibile»; e ancora: «Ciò che si chiama unione in un corpo politico è una cosa assai equivoca» (Considérations, cap. ix).
Quando Montesquieu osserva nell’Esprit des lois che «si è cominciato a guarire del machiavellismo e si continuerà a guarirne tutti i giorni» sembra pensare, più che all’immoralismo, dai contemporanei imputato di norma a M., a un certo radicalismo in politica, ai grands coups d’autorité del potere che rafforza sé stesso. «Occorre più moderazione nei consigli» è difatti il seguito del passo: «Quelli che in altri tempi si definivano colpi di stato non sarebbero oggi, indipendentemente dall’orrore, che imprudenze» (Esprit des lois XXI xx). Il giudizio sull’uomo M., fondato anche sulla più che probabile conoscenza in manoscritto dell’Apologie pour Machiavelle, redatta da Louis Machon (→) su invito di Richelieu (Bertière 1956), è invece articolato. Per quanto non privo di difetti («Machiavel était plein de son idole, le duc de Valentinois»), come del resto tutti i grandi legislatori (in questa prospettiva in un brevissimo capitolo, Des législateurs, XXX xix, ne cita cinque: Platone, Aristotele, Thomas More, Harrington e, appunto, M.), egli viene ripetutamente definito «grande». Sia nell’opera a stampa («Adotterei senz’altro la massima di questo grand’uomo» – scrive nel citato passaggio da Esprit des lois VI 5, ove la riserva attiene all’eccessivo rigore consentito alla legge penale e all’insufficiente attenzione alla «sicurezza degli individui privati»), sia in testi inediti: in una lettera a Madame du Deffand, per elogiare un di lei illustre amico, il presidente Hénault, lo paragona a M. (Shackleton 1964, p. 11) e, in un passo destinato alla chiusa del cap. 9 del libro III e in seguito omesso, Montesquieu definisce «il delirio di Machiavelli» l’aver suggerito ai principi massime più adatte a un regime dispotico che monarchico (distinzione essenziale in Montesquieu), «il che non era degno», aggiungeva, «della sua grande mente» (de son grand esprit: Fragments de l’Esprit des lois non publiés, in OEuvres complètes, cit., p. 795). E in un appunto riferibile al soggiorno in Inghilterra, ove aveva incontrato un’attitudine più benevola nei confronti di M. rispetto al contesto francese, trascrive un passo in cui M., comparato a Samuele che ai principi parlava senza approvarli, veniva definito «un grand républicain» (Spicilège, in OEuvres complètes, cit., p. 409).
«Montesquieu ha fatto per la seconda metà del 18° sec. ciò che Machiavelli ha fatto per il suo secolo» ha scritto in modo lapidario Judith Shklar (1990): egli «ha fissato i termini in cui il repubblicanesimo deve essere discusso» (p. 265). Già alcuni anni prima John G.A. Pocock, inaugurando una tradizione interpretativa importante, aveva sottolineato come l’idea di vivere libero e di virtù civile stesse al centro di entrambi gli autori anche se in Montesquieu preciso era il timore «che una repubblica potesse inculcare la sua virtù con mezzi di una durezza ripugnante e inumana» (Pocock 1975, trad. it. 1980, p. 828). La distanza di Montesquieu rispetto a nodi essenziali del pensiero di M. è stata più volte rilevata (Carrese 2006; Sullivan 2006; Rahe 2011; Hendrickson 2013): sul tema della religione, se da entrambi ne è sottolineata la funzione sociale (elogio di Numa), Montesquieu riconosce al cristianesimo il merito di avere reso più miti i costumi e in definitiva favorito l’ethos commerciale delle moderne, antieroiche società; l’elogio della moderazione e del limite, l’idea stessa che il legislatore debba procedere secondo una linea di juste milieu appaiono in visibile contrasto con l’attitudine di fondo di M., costante spregiatore delle «vie del mezzo» in politica.
Bibliografia: Dissertazione sulla politica dei romani nella religione (1716), a cura di D. Felice, «Montesquieu.it», 2010, 2, pp. 79-92; OEuvres complètes, présentation et notes de D. Oster, Paris 1964.
Per gli studi critici si vedano: E. Levi-Malvano, Montesquieu e Machiavelli, Paris 1912; A. Bertière, Montesquieu lecteur de Machiavel, in Actes du Congrès Montesquieu, Bordeaux 23-26 mai 1955, Bordeaux 1956, pp. 141-58; R. Shackleton, Montesquieu and Machiavelli: a reappraisal, «Comparative literature studies», 1964, 1, pp. 1-13, ora in Id. Essays on Montesquieu and on the Enlightenment, Oxford 1988, pp. 117-31; N. Matteucci, Machiavelli, Harrington, Montesquieu e gli ‘ordini’ di Venezia, «Il pensiero politico», 1970, pp. 337-69; J.G.A. Pocock, The Machiavellian moment. Florentine political thought and the Atlantic republican tradition, Princeton (N.J.) 1975 (trad. it. in 2 voll., Bologna 1980); J. Shklar, Montesquieu and the new republicanism, in Machiavelli and republicanism, ed. G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli, Cambridge 1990, pp. 265-79; P. Carrese, The Machiavellian spirit of Montesquieu’s liberal republic, in Machiavelli’s liberal republican legacy, ed. P.A. Rahe, New York 2006, pp. 121-42; V.B. Sullivan, Against the despotism of a republic: Montesquieu’s correction of Machiavelli in the name of the security of the individual, «History of political thought», 2006, 2, pp. 263-89; M. Platania, Montesquieu e la virtù. Rappresentazioni della Francia di ancien régime e dei gover ni repubblicani, Torino 2007; P.A. Rahe, Montesquieu’s anti-Machiavellian Machiavellianism, «History of European ideas», 2011, 37, pp. 128-36; R.R. Hendrickson, Montesquieu’s (anti-)Machiavellianism: ordinary acquisitiveness in The spirit of laws, «The journal of politics», 2013, 2, pp. 385-96.