Alzheimer, morbo di
Il morbo di Alzheimer (mdA) è una malattia che colpisce il cervello provocando un progressivo declino delle funzioni intellettuali. La diagnosi della malattia si basa, inizialmente, sulla valutazione di sintomi neuropsicologici e comportamentali legati a disturbi della memoria, del linguaggio e della percezione visuo-spaziale. I primissimi sintomi si manifestano di solito a carico di quel tipo di memoria denominata 'breve', per contrapporla all'altro tipo detto 'di lunga durata'. La prima riguarda i ricordi collegati con gli avvenimenti degli ultimi minuti o di poche ore; se questi ricordi rivestono connotati di particolare importanza o interesse, essi vengono fissati tramite meccanismi biochimici distinti da quelli che presiedono alla memoria breve e possono anche permanere per tutta la vita.
Si distinguono per comodità tre fasi nel decorso della malattia. Nel primo stadio il soggetto manifesta i primi sintomi di perdita della memoria breve, con difficoltà a ricordare anche parole di uso quotidiano e addirittura il significato dei numeri; egli presenta minore attenzione per il lavoro o gli hobby che un tempo lo interessavano fortemente. In un secondo stadio il paziente incomincia a dimostrare difficoltà nel riconoscere i parenti e gli amici, si aggira senza scopi in casa o nei suoi dintorni e spesso deve essere riaccompagnato alla propria abitazione, tanto che i parenti sono costretti a lasciargli in tasca le indicazioni relative al suo indirizzo. Si manifestano i primi cambiamenti comportamentali accompagnati da ansietà, insonnia e mutamenti di personalità. Nell'ultimo stadio il paziente non riconosce più nessuno, non comprende le parole e ha difficoltà a vestirsi, a mangiare e deglutire nonché a controllare la minzione e la defecazione. La morte sopraggiunge per l'ulteriore aggravarsi di questi sintomi.
Le alterazioni anatomopatologiche che caratterizzano questa malattia furono per la prima volta descritte dal neuropatologo Alois Alzheimer, che nel 1906 analizzò il cervello di una paziente di 55 anni deceduta dopo diversi anni in seguito a sintomi di carattere progressivo contraddistinti da perdita della memoria, crisi sporadiche di paranoia e deficit cognitivi di varia natura. Il neuropatologo, osservando dopo la morte sezioni del cervello della paziente, notò la presenza diffusa di due tipi di alterazioni che oggi vengono denominate, rispettivamente, 'placche senili' e neurofibrillary tangles. La comunità scientifica non pose molta attenzione alle osservazioni comunicate da Alzheimer per la relativa rarità di questa affezione. La vita media era notevolmente più breve rispetto a quella attuale e i sintomi della malattia venivano classificati e confusi con la vasta categoria di quelli che caratterizzano l'invecchiamento cerebrale. Ma con l'aumento del numero degli individui anziani dovuto alle terapie più moderne (vaccinazioni di massa, impiego degli antibiotici, profilassi dietetiche, ecc.) si osservò che il numero di pazienti deceduti con i sintomi e i corrispettivi danni cerebrali descritti da Alzheimer era in continuo aumento.
Le cause di questa affezione non sono ancora note e si ritiene che nella maggior parte dei casi essa sia dovuta a una variegata serie di interazioni di fattori ambientali e componenti genetiche. Appare accertato che queste ultime sono responsabili uniche del 10% circa di ogni morbo di Alzheimer (mdA) e di circa il 100% di mdA che insorgono prima dei 40-50 anni. Nel caso delle forme su base genetica vi sono tre geni che sono causalmente coinvolti. Mutazioni del gene che codifica per la proteina denominata APP (β-Amyloid precursor protein), situato sul cromosoma 21, provocano l'1% dei casi di mdA e si manifestano intorno ai 45-55 anni. Mutazioni del gene che codifica per la proteina denominata 'presenilina-1', situato sul cromosoma 14, causano la malattia nel 4% dei casi ed essa si manifesta tra i 30 e i 50 anni. Infine, nell'1% dei casi la malattia è dovuta a mutazioni del gene che codifica per la presenilina-2, situato sul cromosoma 1, e i primi sintomi si manifestano fra i 40 e i 50 anni. Vi sono poi geni che, in forma mutata, rappresentano causa di maggiore suscettibilità per l'insorgenza della forma tardiva della malattia. Fra questi ricordiamo il gene APOE4, che costituisce una variante del gene APOE che svolge un'importante funzione nel metabolismo del colesterolo. È interessante notare che la presenza di APOE4 costituisce anche un fattore di rischio per malattie che colpiscono il cuore. Al contrario dell'APP e delle preseniline, tuttavia, questo gene costituisce soltanto un fattore di rischio per l'insorgenza del 60% delle forme tardive della malattia. In altre parole, la sua presenza non rappresenta di per sé causa di malattia.
Sebbene non si conosca ancora il meccanismo intimo tramite il quale queste mutazioni provocano le alterazioni anatomopatologiche riscontrate da Alois Alzheimer, la natura molecolare di tali alterazioni è ormai nota nei dettagli. Le sono costituite principalmente da depositi di un peptide denominato 'β-amiloide'. Questo peptide origina dall'APP, che è situata nella membrana citoplasmatica delle cellule nervose e la cui funzione è sconosciuta, ma si pensa collegata con il loro differenziamento e in particolare con la crescita delle fibre nervose. Nelle cellule di norma l'APP, una volta sintetizzata, si inserisce nella membrana neuronale e viene demolita, quando non funziona più in modo appropriato, lungo le vie di degradazione che subiscono tutte le proteine cellulari. Ma se per cause sconosciute l'APP viene degradata in modo anomalo o eccessivo, il peptide β-amiloide che ne deriva viene secreto e tende ad aggregarsi in fibrille che si accumulano tra una cellula e l'altra dove esercitano un'azione tossica sulle cellule sane circostanti.
Più o meno nello stesso tempo in cui si inizia la demolizione anomala della proteina APP, all'interno degli stessi neuroni un'altra proteina denominata 'tau' subisce una serie di modificazioni post-traslazionali e di attacchi proteolitici che terminano con la sua parziale demolizione e costituzione di spirali proteiche facilmente identificabili al microscopio elettronico. La funzione di tau nell'ambito del sistema nervoso, al contrario di APP, è ben conosciuta e consiste essenzialmente nel permettere l'assemblaggio e l'organizzazione sopramolecolare di strutture cilindriche dette 'microtubuli'. I microtubuli svolgono un ruolo essenziale nell'architettura della cellula nervosa (essi sono paragonabili alle impalcature create con i tubi Innocenti), nella crescita delle fibre nervose e nel trasporto all'interno di esse di materiale nutritizio e di altra natura dalle sinapsi al corpo del neurone e viceversa. La degradazione di tau, pertanto, porta a un collasso dei microtubuli che, a sua volta, si materializza nel collasso dell'intero neurone. Tra le macerie cellulari che restano vi sono i tangles costituiti dai residui di tau e di altre proteine nel frattempo associate a queste strutture.
Mentre tutti i neurologi concordano nell'identificare nei tangles e nelle placche senili i due reperti caratteristici del mdA, nell'ultimo decennio sono nate due vere e proprie scuole di pensiero per quanto riguarda la priorità di insorgenza di queste due formazioni. Sono i depositi di β-amiloide che formano le placche senili a iniziare una serie di eventi biochimici (produzione di radicali liberi, aumento nell'entrata di ioni calcio, ecc.) che portano all'attacco proteolitico di tau con successivo collasso dei microtubuli e morte della cellula? O, al contrario, i primi eventi sono a carico di tau e il suo alterato funzionamento provoca un alterato metabolismo di APP, con conseguente produzione di β-amiloide e danno tossico alle cellule circostanti in un meccanismo a cascata che si estende a macchia d'olio? I sostenitori della prima ipotesi si definiscono scherzosamente 'baptisti', prendendo spunto dalla denominazione β-amyloid precursor protein. I secondi, per converso, poiché identificano il primum movens dell'evento patogenetico nella si definiscono 'tauisti'.
Vi sono argomenti a favore dell'una e dell'altra ipotesi, ma l'interrogativo cruciale che si pone a monte di esse è capire per quale motivo, e tramite quali meccanismi molecolari iniziali, una di queste due proteine, che svolge un ruolo essenziale nell'economia dei neuroni, va incontro a quei cambiamenti che si materializzano nella formazione di placche e tangles. Per quanto riguarda il mdA a base genetica, la risposta definitiva giungerà indubbiamente quando si saranno definite le funzioni delle tre proteine codificate dai tre geni le cui mutazioni scatenano le affezioni precoci. Per quanto riguarda le altre forme, che costituiscono il 90% di mdA, si sono invocate le cause più disparate. Un'ipotesi unificante identifica in processi di apoptosi a carico di vaste popolazioni neuronali l'evento scatenante.
L'attenzione dei neurobiologi e dei neuropatologi che analizzano a vari livelli le cause del mdA si è recentemente indirizzata verso l'apoptosi per due motivi strettamente collegati: la progressiva, incipiente, diffusa e talvolta precoce morte dei neuroni che si osserva nel mdA potrebbe essere, infatti, provocata dall'impropria attivazione del programma di apoptosi in determinate popolazioni neuronali; come conseguenza di questo fenomeno si verificherebbe un'alterata degradazione di APP e di tau, con conseguente formazione dei due reperti molecolari per la prima volta descritti da Alzheimer e con successivo innesco a cascata di morte per apoptosi nelle cellule vicine, ancora sane e che non sarebbero altrimenti morte.
Che cosa potrebbe provocare un'attivazione anomala del programma di autoeliminazione per apoptosi di interi distretti neuronali? Una delle cause riguarderebbe le neurotrofine. Questa famiglia di molecole, che ha come capostipite il Nerve growth factor (NGF), tra le numerose funzioni che svolge ha primariamente quella di mantenere bloccato il programma di apoptosi neuronale: se alla popolazione neuronale che costituisce il suo 'target' fisiologico viene a mancare un normale rifornimento di una certa neurotrofina (attualmente se ne conoscono cinque ad azione su differenti popolazioni nervose), si attiva immediatamente un programma di apoptosi. Ciò si verifica non soltanto in colture di cellule ma anche in animali da laboratorio privati artificialmente di NGF. In questi animali si sviluppa una sindrome anatomopatologica e comportamentale in tutto simile al mdA.
Una seconda causa che può attivare un programma di apoptosi in colture di cellule o in animali da laboratorio è la deprivazione di stimoli elettrici. Se le afferenze che normalmente giungono, per esempio, ai neuroni cerebellari denominati 'granuli' si interrompono a causa di una rottura trumatica delle fibre afferenti, in essi si attiva un massiccio programma di apoptosi. Se, in vitro, si riducono le concentrazioni di potassio che normalmente sono impiegate per mantenere in vita le stesse cellule nervose − poiché la presenza di questo catione simula una condizione di stimolazione elettrica − si attiva un eguale processo apoptotico; tale evento, inoltre, è accompagnato da aumentata produzione e liberazione di β-amiloide e formazione extracellulare di fibrille. Questi dati ottenuti in colture in vitro o in animali da laboratorio inequivocabilmente confermano che potrebbe esistere una relazione causale fra eventi che attivano l'apoptosi e il mdA. Le sequenza potrebbe essere così riassunta: mancanza di neurotrofine; deprivazione elettrica; altre cause (per es., microtraumi); attivazione di eventi apoptotici; alterata degradazione di tau e APP; depositi di β-amiloide e formazione di tangles; diffusione del processo apoptotico a cellule vicine; eventi a cascata.
La malattia fa parte della più vasta categoria delle demenze senili che colpiscono il 5,3% degli uomini e il 7,2% delle donne dopo i 65 anni di età. Il mdA costituisce il 50÷80% di tutte le demenze senili, mentre un altro 11÷24% dei casi è di origine vascolare. In Italia il numero di pazienti affetti da mdA ammonta a 500.000 ed è destinato ad aumentare per l'incremento progressivo dell'età della popolazione e poiché l'Italia è fra le nazioni al mondo con il più alto numero di anziani. È stato calcolato che negli Stati Uniti il costo annuo per singolo paziente, comprese le spese mediche e i costi indiretti come la perdita di reddito, è pari a 150.000 dollari. Nel nostro Paese la famiglia svolge ancora un ruolo cardine nell'assistenza al malato di mdA e tuttavia i costi arrivano a superare i 45.000 euro per anno per i pazienti più gravi, con una spesa totale di 15 milioni di euro annui.
Non vi sono, attualmente, cure specifiche così efficaci da poter arrestare la progressione della malattia né, tantomeno, farla regredire. Sostanzialmente vi sono due approcci che, in attesa di una terapia risolutiva, permettono al paziente di condurre una vita dignitosa fino alle fasi quasi terminali dell'affezione.
Gli inibitori dell'enzima rappresentano attualmente i farmaci di scelta per il mdA. Tali farmaci agiscono inibendo la demolizione da parte di questo enzima del neurotrasmettitore acetilcolina, impiegato dai neuroni colinergici che costituiscono il bersaglio più colpito nelle fasi precoci e successive della malattia. Si tratta di una strategia tesa a limitare il danno e ad attenuare i sintomi più che a migliorare il quadro clinico e anatomopatologico vero e proprio. Tale strategia, tuttavia, è suscettibile di miglioramento anche su quest'ultimo versante, poiché gli studi più recenti indicano che un procedimento per rallentare la morte delle popolazioni nervose coinvolte, e sperabilmente bloccarla, consiste nel mantenere in una costante attività tali popolazioni. Come si è accennato nel considerare le cause prime del mdA, un'ipotesi accreditata sostiene che essa è causata dall'impropria attivazione di eventi apoptotici che vengono scatenati dalla mancanza di neurotrofine o di stimolazioni nervose. La somministrazione di neurotrofine (fra queste il NGF appare, da studi in fase ancora sperimentale, la neurotrofina di elezione), ovvero di agonisti (cioè attivatori) dei recettori dell'acetilcolina, potrebbe mantenere una stimolazione più costante e in tal modo inibire lo scatenamento del processo apoptotico. Inoltre, tale ipotesi costituirebbe una conferma indiretta delle analisi statistiche che attribuiscono l'incidenza del mdA in misura molto maggiore nella popolazione contadina e illetterata che, per la propria condizione culturale e di lavoro, è meno soggetta, rispetto a quella dedita al lavoro intellettuale, all'esercizio continuo delle attività cognitive che coinvolgono il sistema colinergico.
Un tipo di farmaci impiegati durante tutti gli anni Novanta del XX sec. è, come si è accennato, quello basato sull'uso di agonisti dei recettori muscarinici e nicotinici. È interessante notare, a questo proposito, che studi epidemiologici avrebbero dimostrato un ritardo della frequenza di mdA nei fumatori, nei quali l'inalazione di nicotina eserciterebbe un'azione comparabile a quella ottenuta in corso di trattamento terapeutico a base di agonisti degli stessi recettori colinergici di tipo nicotinico (ricordiamo che il recettore nicotinico è stato così denominato per la sua specifica azione su questo tipo di recettori dell'acetilcolina). Come terza generazione di farmaci anti-mdA si va impiegando il trattamento congiunto di terapie colinergiche e terapie basate su estrogeni, antinfiammatori o antiossidanti.
La quantità di β-amiloide nel tessuto può essere ridotta stimolandone lo smaltimento. Lo scopo è stato raggiunto usando questo peptide per vaccinare topi transgenici in grado di produrre grandi quantità di anticorpi anti-β-amiloide. Rispetto ai controlli, gli animali vaccinati erano capaci di eseguire esercizi più difficili, facendo ipotizzare che, avendo meno amiloide nel cervello, anche la degenerazione neuronale fosse minore. Questo risultato ha indotto a tentare una analoga sperimentazione sull'uomo. Sono stati selezionati e vaccinati con β-amiloide 375 pazienti con demenza di media gravità. Tuttavia la prova ha dovuto essere interrotta prima di poterne giudicare l'efficacia per la comparsa di reazioni avverse nel 5% dei casi. Un'encefalite autoimmune è stata documentata in alcuni pazienti morti per cause indipendenti dal vaccino. Oltre agli anticorpi specifici, anche alcune tetracicline che attraversano la barriera ematoencefalica si sono dimostrate capaci di disaggregare l'amiloide. In una sperimentazione condotta in una vasta popolazione di malati, la rifampicina e la doxiciclina sarebbero state in grado di rallentare l'avanzamento del declino cognitivo per tutta la durata della cura.
Il modo più ovvio per limitare l'accumulo di β-amiloide nel tessuto è quello di diminuirne la produzione. In teoria questo risultato può essere ottenuto riducendo l'attività delle secretasi β e γ. In pratica, lo sviluppo di sostanze anti-BACE (β-secretasi) è reso problematico dalla possibilità che gli inibitori agiscano contemporaneamente su molti substrati. È il caso di eparansolfato ed eparina, inibitori in vitro di BACE-1, ma usati da tempo come anticoagulanti e perciò poco maneggevoli per una cura di lunga durata. In alternativa si è ipotizzata, e in parte realizzata, una terapia basata sull'impiego di anticorpi diretti contro il β-amiloide.
In condizioni sperimentali, la produzione di β-amilode42 viene limitata anche da alcuni antinfiammatori non steroidei, quali ibuprofene, indometacina e sulindac. Questi farmaci favoriscono la trasformazione di β-amiloide costituito da 42 amminoacidi in un peptide più corto e non neurotossico. Ciò avverrebbe grazie all'azione di queste sostanze sulla γ-secretasi e indipendentemente dal loro effetto antinfiammatorio. L'interesse per queste molecole nacque dall'osservazione che il rischio di demenza sembrava minore in chi ne consumava abitualmente. Tuttavia, l'uso controllato degli antinfiammatori è risultato incapace di contenere il deterioramento cognitivo. Per impedire che β-amiloide sia prodotta in eccesso e si accumuli, è allo studio il modo di aumentare l'attività della neprilisina e degli altri enzimi proteolitici che sono in grado di attaccare e demolire la β-amiloide. La ricerca in questo senso viene condotta non soltanto sul piano dell'attivazione farmacologica, ma anche su quello della terapia genica per aumentare la quantità disponibile degli enzimi.
Un altro settore di ricerca farmacologica è offerto dall'azione di β-amiloide sulle membrane. È verosimile che la β-amiloide, una volta rilasciata nello spazio extracellulare, interagisca con la membrana cellulare e modifichi qualcuna delle sue funzioni. Uno dei recettori compromessi dall'azione del peptide è il recettore NMDA (N-metil-d-aspartato) per il glutammato che modula l'ingresso del calcio nelle cellule. Una sostanza che riesce a ripristinare il funzionamento normale di questo recettore è la memantina. Sotto la protezione della memantina, i neuroni nonostante la presenza di β-amiloide non correrebbero più il rischio di morire intossicati dal calcio. Grazie a queste caratteristiche e alla sua tollerabilità, la memantina si propone come un efficace neuroprotettore delle cellule dotate di recettori NMDA.
La probabilità che β-amiloide interagisca con la membrana cellulare rafforza anche il razionale per l'uso delle statine nella profilassi della malattia, specie negli individui ipercolesterolemici. Le statine diminuiscono la sintesi del colesterolo e sono utilizzate per la cura delle ipercolesterolemie. D'altro canto la produzione di β-amiloide diminuisce quando si riduce la disponibilità di colesterolo. Su questa base, si sostiene che il rischio di ammalare sia maggiore negli individui ipercolesterolemici e diminuisca in quelli curati con le statine.
In condizioni sperimentali che simulano la malattia, anche i mitocondri soffrono per l'eccesso di β-amiloide o di APP. Nelle cellule transfettate e nei topi transgenici che producono più APP, questo resta intrappolato nella membrana dei mitocondri riducendo sia l'attività citocromo-ossidasica che la quantità totale di ATP. β-amiloide, invece, si lega all'alcol-deidrogenasi, modificando il sito di legame del NAD (nicotinamide-adenin dinucleotide). L'azione di β-amiloide e di APP sui mitocondri spiegherebbe la quantità anormale di radicali liberi e lo , la compromissione dell'attività degli enzimi del metabolismo intermedio e la disfunzione mitocondriale osservati sia nella malattia che nelle cellule intossicate con il peptide tossico. Si sa inoltre che lo stress ossidativo favorisce la produzione di β-amiloide stimolando l'attività di BACE. Tutti questi dati costituiscono un elemento a favore dell'uso di antiossidanti per la profilassi e la cura della malattia. Mancano tuttavia prove certe della loro efficacia clinica.
Le chinasi Cdk5 e Gsk3 (Cyclin-dependent kinase, Glycogen-synthase kinase) controllano la fosforilazione della proteina tau, ma perdono questa capacità sotto l'effetto di β-amiloide. Cdk5 è coinvolta insieme alla tau nella crescita dei neuriti e nella migrazione dei neuroni. L'attività di Cdk5 dipende dalla sua subunità p35. Se questa è troncata (p25), Cdk5 aumenta la fosforilazione della proteina tau e dei neurofilamenti, alterando la funzione del citoscheletro. Nei topi transgenici che esprimono la p25 umana, la tau è iperfosforilata e si accumula nei neuroni causandone la degenerazione. Questa è più grave se i topi esprimono anche tau umana mutata, più vulnerabile alla patologia. Inoltre, la quantità di tau iperfosforilata aumenta quando le cellule transfettate che producono più p25 sono esposte all'azione tossica di β-amiloide. Cdk5 e p25 hanno probabilmente un ruolo importante nella patogenesi della malattia, come è anche suggerito dal fatto di essere contenuti in maggior quantità nel cervello degli ammalati, localizzati soprattutto nei neuroni con la degenerazione neurofibrillare. In base a questi dati, appare logico che p25 sia diventato un bersaglio della ricerca farmacologica, poiché disporre di un farmaco in grado di inibirne l'attività significherebbe proteggere le cellule nervose dalle conseguenze patologiche dell'azione di β-amiloide sulle proteine del citoscheletro.
In condizioni sperimentali, i sali di litio sono in grado di evitare ai neuroni le conseguenze del cattivo funzionamento di Gsk3. Come Cdk5, anche questa chinasi promuove la fosforilazione della proteina tau e, nel cervello degli ammalati, si concentra nelle cellule de-generate. L'attività fosforilasica che Gsk3 esercita nei confronti della proteina tau aumenta sotto l'effettodi β-amiloide42 e di apolipoproteina E (ε4). Ciò fa di questo enzima l'anello che collega i tre elementi più caratteristici della malattia. In questo contesto, i sali di litio hanno una notevole peculiarità, perché non si limitano a inibire l'attività di Gsk3, ma agiscono nello stesso senso anche sulla secretasi, contrastando così la produzione e l'accumulo di β-amiloide. L'interesse dei sali di litio è giustificato dunque dalla loro doppia azione: sulla causa della malattia, riducendo la disponibilità del peptide tossico, e sul meccanismo principale di degenerazione neuronale, bloccando la fosforilazione della proteina tau. Quindi, somministrati alle dosi ormai ben collaudate dall'uso per la cura della depressione bipolare, i sali di litio potrebbero rivelarsi il mezzo più maneggevole e efficace per la profilassi della malattia e per la cura del declino cognitivo di lieve entità. Essi hanno fallito, tuttavia, nella prevenzione del deterioramento cognitivo in un gruppo di pazienti che soffrivano di forme depressive ai quali erano stati a lungo somministrati. Resta da stabilire se il deterioramento di questi ammalati fosse dovuto alla malattia di Alzheimer. Anche il valproato, in uso per la cura dell'epilessia e come stabilizzatore del tono dell'umore nei bipolari, agisce come su Gsk3 i sali di litio.
A seconda dello stadio nel quale si trova l'individuo affetto da mdA, è stato individuato un insieme di precauzioni.
Primo stadio. - Creare nella propria abitazione un'area di orientamento spaziale nella quale vengono tenuti oggetti di uso comune per il paziente, quali chiavi di casa, occhiali, orologio, calendario. Incoraggiare il paziente a mantenersi in contatto con gli amici, ascoltare la musica, effettuare esercizi fisici. Registrare il paziente, se possibile, a un programma di ritrovamento nel caso si perdesse per strada.
Secondo stadio. - Mettere segni sui cassetti e su tutte le strutture della casa più comuni. Accertarsi che le luci delle stanze di casa frequentate dal paziente siano sempre accese. Mettere tappeti nel bagno e in altri luoghi per evitare scivolamenti. Nascondere le chiavi della macchina e installare serrature con chiusura esterna o porre allarmi in caso di apertura dall'interno. Effettuare la pulizia dei denti o altre operazioni di uso comune insieme al malato in modo da poter essere imitati.
Terzo stadio. - Provare a ideare nuovi mezzi di comunicazione con il paziente, per esempio tramite vecchie fotografie o con la musica. Ridurre al minimo test medici che implichino il prelievo di sangue o altri test dolorosi.
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