Parkinson, morbo di
Descritto per la prima volta nel 1817 da J. Parkinson, tale morbo è una patologia degenerativa a eziologia sconosciuta. Il principale reperto anatomopatologico è costituito dalla degenerazione delle cellule dopaminergiche, cioè le cellule che sintetizzano e rilasciano come trasmettitore chimico la dopamina, localizzate nella parte compatta della substantia nigra ("sostanza nera"), con conseguente spopolamento neuronale della stessa.
È ormai generalmente accettato che la maggior parte dei sintomi del morbo di Parkinson è causata dalla mancanza di dopamina nelle aree cerebrali in cui viene inviata normalmente dalle cellule della parte compatta della substantia nigra, e che tali sintomi compaiono quando la perdita neuronale supera il 60-70% degli elementi cellulari dopaminergici. Tuttavia, è anche dimostrato che la patologia che interessa le cellule dopaminergiche della sostanza nera sia di tipo sistemico, cioè diffusa a tutte le stazioni di queste, comprese quelle retiniche e del sistema nervoso vegetativo. Il morbo di Parkinson è una malattia normalmente sporadica, cioè non di tipo familiare, pure se una certa tendenza alla familiarità è comunemente ammessa.
La percentuale di pazienti affetti da tale morbo con un parente colpito dalla stessa malattia oscilla tra il 6% e il 41%, valori da 2 a 10 volte più alti di quelli dei soggetti sani di pari età. Sono inoltre note famiglie nelle quali il morbo di Parkinson viene trasmesso con modalità autosomica dominante con penetranza incompleta, generalmente con tendenza a esordio giovanile. Sono state individuate mutazioni sul cromosoma 4 di un ceppo familiare particolarmente numeroso affetto da Parkinson, senza tuttavia che sia stato possibile risalire dalla mutazione cromosomica al fenotipo responsabile del meccanismo eziopatogenetico della morte cellulare nella sostanza nera. I tassi di prevalenza media di Parkinson, cioè il numero totale di individui affetti dalla malattia in un determinato momento, sono stati stimati in circa 120-180 casi ogni 100.000 individui. La prevalenza varia a seconda della classe di età, con un progressivo aumento dai 40 fino agli 80 anni. Sopra i 65 anni la prevalenza raggiunge i 100 casi per 100.000 individui. I tassi di incidenza, ossia il numero di nuovi casi di malattia diagnosticati in una popolazione, sono invece stimati in circa 20 casi ogni 100.000 individui/anno.
La causa esatta del morbo di Parkinson è sconosciuta, anche se la ricerca continua a formulare ipotesi. Molto probabilmente l'eziologia è multifattoriale: fattori di tipo genetico, come suscettibilità individuali spiccate a tossici esogeni o endogeni, possono causare situazioni endocellulari metaboliche incompatibili con la sopravvivenza della cellula; questi fattori possono riguardare alterazioni sia delle catene mitocondriali, deputate alla fosforilazione ossidativa e quindi alla produzione di energia endocellulare (con conseguente difficile esecuzione dei compiti metabolici che può infine condurre alla morte cellulare), sia dei meccanismi del metabolismo ossidativo della dopamina, con eccesso di produzione di radicali liberi ad azione tossica per la cellula se non adeguatamente tamponati dal glutatione e dalla superossidismutasi. Negli anni Ottanta del 20° secolo la scoperta casuale che l'MPTP (1-methyl-4-phenyl-1, 2, 3, 6-tetrahydropyridine), una sostanza tossica per i sistemi mitocondriali, era capace di determinare nell'uomo una sintomatologia identica a quella del morbo di Parkinson, con un quadro anatomopatologico sovrapponibile, ha rinvigorito l'ipotesi genetico-metabolica che coinvolge i meccanismi mitocondriali.
Il morbo è caratterizzato dalla triade parkinsoniana: tremore a riposo, rigidità, acinesia, a cui si aggiunge l'instabilità posturale nelle fasi più tardive della malattia. Per tremore a riposo si intende una oscillazione ritmica (4-7 cicli/sec) di una parte del corpo che fa perno su un'articolazione. Con rigidità si indica un aumento della resistenza opposta da un'articolazione alla sua mobilizzazione passiva effettuata dall'esaminatore. Con bradicinesia/acinesia ci si riferisce al rallentamento motorio dovuto alla difficoltà di passare dallo stato di riposo a quello di moto e viceversa. Tale sintomatologia appare quindi più evidente nei movimenti alternati, come il movimento pendolare di un arto superiore durante la deambulazione. Con il progredire della malattia, l'acinesia determina gravi disturbi della deambulazione, i quali sono costituiti inizialmente dal trascinamento di un arto inferiore (fintantoché la malattia rimane unilaterale), successivamente da difficoltà alla partenza da fermo (fenomeno della calamita: i piedi sembrano non potersi staccare dal pavimento come fossero calamitati), andatura a passi piccoli con impedimento a modificare la direzione e la velocità della marcia e anche a fermarsi. I disturbi esordiscono su uno solo dei lati corporei che, per tutto il successivo evolversi della malattia, rimarrà sempre quello più affetto. È comunemente accettato che sia ammissibile fare diagnosi di sindrome parkinsoniana purché un paziente, all'esordio della malattia, manifesti almeno due dei tre sintomi cardinali sopra riportati.
Una serie di sintomi accessori può essere presente. Tra questi la micrografia, l'amimia facciale, l'assenza di riflessi d'ammiccamento delle palpebre, la postura flessa in avanti sia in stazione eretta sia durante la deambulazione (camptocormia), le parestesie agli arti, i crampi, l'ipofonia e la disartria rappresentano i sintomi minori più facilmente riconducibili a un'origine di tipo acinetico-rigida. L'ipotensione posturale, la scialorrea, l'iperseborrea, l'urgenza minzionale da ipereccitabilità del riflesso del detrusore della vescica (la cui contrazione determina lo svuotamento della vescica) costituiscono i sintomi più frequenti tra quelli dovuti al coinvolgimento del sistema nervoso vegetativo, probabilmente a seguito del deficit sistemico di dopamina. I sintomi visivi sono generalmente subclinici. Un deterioramento mentale, di grado variabile, è presente in circa il 30% dei pazienti.
Quando non esistevano possibilità di terapia farmacologica, M. Hoehn e M.D. Yahr (1967) descrissero la storia naturale della malattia, suddividendo la sua evoluzione in cinque stadi, che rimangono tuttora un valido strumento per fornire un'indicazione rapida della fase di malattia in cui si trova ogni singolo paziente: stadio I, sintomatologia parkinsoniana unilaterale comprendente i sintomi della triade; stadio II, sintomatologia estesa controlateralmente, alterazioni dell'eloquio, camptocormia, modificazioni della deambulazione, assenza di disturbi dell'equilibrio; stadio III, sintomatologia bilaterale ingravescente con comparsa di disturbi dell'equilibrio, ma con conservata autosufficienza; stadio IV, il paziente non è più autosufficiente, ma ancora in grado di deambulare anche se con aiuto; stadio V, il paziente necessita di sedia a rotelle o giace nel letto. I sintomi della serie parkinsoniana non sono necessariamente presenti solo nel morbo di Parkinson ma anche, in varia combinazione tra loro e con altri sintomi, in differenti patologie del sistema extrapiramidale e/o in patologie degenerative di più sistemi. Tali patologie vengono oggi comunemente chiamate con la locuzione generica di atrofie multisistemiche (MSA, Multi system atrophy).
L'evoluzione clinica del quadro negli anni successivi alla diagnosi, e in particolare la risposta alla terapia specifica, permettono di distinguere le MSA dal morbo di Parkinson vero e proprio, in virtù della peculiarità del Parkinson di essere causato principalmente da una carenza acquisita di dopamina a livello cerebrale e, per tale motivo, di presentare una sintomatologia correggibile in gran parte con terapia sostitutiva dopaminergica. Le MSA, al contrario, sono dovute a processi degenerativi che interessano più sistemi, e pertanto non vengono corrette, se non in minima parte, dalla terapia dopaminergica.
La terapia classica del morbo di Parkinson si fonda sull'uso della levodopa, un precursore della dopamina, che presenta il vantaggio di attraversare la barriera ematoencefalica che invece la dopamina non riesce a oltrepassare. La levodopa viene riassorbita dalle cellule dopaminergiche residue, trasformata in dopamina e liberata dalle terminazioni sinaptiche di queste cellule nelle aree cerebrali destinate a riceverla fisiologicamente. Il trattamento con levodopa è associato a una ridotta mortalità causata dal morbo di Parkinson, tanto da aver riportato la vita media dei pazienti a valori assolutamente prossimi a quelli della popolazione non affetta. Nel suo stesso meccanismo d'azione, tuttavia, sta il limite intrinseco della terapia dopaminergica.
Nelle fasi iniziali della malattia, quando almeno il 30% delle cellule dopaminergiche è ancora vitale e le loro fibre dopaminergiche residue vanno incontro a proliferazione, la levodopa somministrata per via orale viene trasformata, come già detto, in dopamina e rilasciata nelle sedi e nei tempi appropriati a livello dei nuclei della base e della corteccia cerebrale. Con il progredire della degenerazione cellulare, le capacità di immagazzinamento si riducono drasticamente e il processo di accumulo e di conversione della levodopa viene effettuato da cellule gliali che però non riescono a rilasciarla nelle sedi e nei tempi dovuti. L'efficacia della terapia orale si riduce quindi a periodi di tempo estremamente brevi, successivi a ogni singola somministrazione (nell'ordine dei minuti), sicché il paziente passa bruscamente da periodi in cui, risentendo dell'efficacia del farmaco, può muoversi agevolmente a periodi in cui la sintomatologia clinica, non più controbilanciata dall'azione della levodopa, ricompare impedendo al paziente stesso il sia pur minimo movimento.
Questo quadro, definito sindrome da trattamento a lungo termine, si caratterizza per fenomeni come quelli descritti (on-off) e per altri disturbi del controllo del movimento, come le ipercinesie di tipo coreico (discinesie), provocate dall'eccessiva concentrazione di farmaco che si può raggiungere in seguito a ciascuna somministrazione orale. L'epoca della comparsa di tale sintomatologia varia tra i 5 e i 10 anni di trattamento farmacologico, tendendo a essere più tardiva nei soggetti a esordio di malattia in età giovanile e più precoce nei soggetti a esordio in età avanzata. Che l'origine della sindrome da trattamento a lungo termine sia prevalentemente dovuta a una mancata efficacia dei meccanismi di immagazzinamento della levodopa nelle cellule dopaminergiche è dimostrato dalla possibilità di ottenere la scomparsa della sindrome mediante infusione endovenosa continua del farmaco. Tuttavia, si ammette che anche la sensibilità del recettore per la dopamina, dopo anni di stimolazione farmacologica, sia alterata per fenomeni di desensibilizzazione al farmaco del recettore postsinaptico.
Un ulteriore fenomeno che determina l'erraticità dell'effetto clinico della levodopa somministrata è quello dei meccanismi di trasporto per questo precursore che, a livello gastrico e a livello di barriera ematoencefalica, sono gli stessi usati per gli aminoacidi neutri della dieta. Ciò determina una situazione di competitività tra aminoacidi e levodopa per il trasporto attraverso la parete gastrica, che si risolve in una netta diminuzione dell'assorbimento della seconda dopo un pasto ricco di proteine. Tale fenomeno è probabilmente responsabile della minore efficacia clinica del farmaco nel pomeriggio dopo il pranzo. Nonostante quanto detto sopra, la levodopa è a tutt'oggi il farmaco più efficace nel trattamento sintomatico del morbo di Parkinson, tanto da essere considerata il golden standard di riferimento per valutare l'efficacia degli altri farmaci. Viene somministrata in associazione con inibitori (benserazide o carbidopa) dell'enzima periferico di degradazione della levodopa (dopadecarbossilasi) per prevenirne la degradazione a livello periferico e garantire una maggiore concentrazione di dopamina a livello del sistema nervoso centrale. Una nuova sostanza inibitrice di un altro enzima di degradazione della levodopa (COMT, catecol-o-metiltransferasi), bloccando l'utilizzazione periferica della levodopa, ne aumenta ulteriormente la quota di utilizzo cerebrale e ne prolunga l'emivita con vantaggi sostanziali soprattutto nelle fasi avanzate di malattia. Studi clinici condotti su pazienti parkinsoniani hanno dimostrato la validità clinica di tali farmaci, nel senso di una migliore risposta motoria, di una minore incidenza di fluttuazioni, e inoltre di una riduzione delle dosi di levodopa. L'effetto collaterale che più frequentemente è dato osservare nel corso del trattamento con inibitori delle COMT è costituito dalle discinesie, ovvero movimenti involontari che riflettono verosimilmente l'aumentato tono dopaminergico a livello centrale. La stimolazione dopaminergica tende a produrre in tutti i pazienti effetti psichici di tipo allucinatorio, che per la conservata capacità di critica delle allucinazioni stesse sarebbe più giusto chiamare allucinosi. Questo effetto collaterale tende a comparire nelle fasi avanzate di malattia ed è probabilmente imputabile a un'eccessiva stimolazione dei recettori dopaminergici situati nelle strutture limbiche coinvolte nei meccanismi dell'affettività.
Oltre alla terapia con levodopa vengono normalmente utilizzate sostanze dopamino-agoniste, ossia sostanze che agiscono direttamente sui recettori per la dopamina e per le quali non sussiste la necessità di essere riassorbite e metabolizzate dalle cellule dopaminergiche. La loro azione è cioè indipendente dalla sopravvivenza delle cellule nigrali e dall'integrità delle fibre dopaminergiche. Sfortunatamente la loro efficacia risulta nettamente minore rispetto a quella della levodopa e i loro effetti collaterali appaiono generalmente più pronunciati. I recettori dopaminergici sostanzialmente si distinguono in due sottopopolazioni: D₁ e D₂. Entrambi sono presenti a livello dei gangli della base, dove la dopamina va ad agire, ed entrambi sono fisiologicamente stimolati dalla sostanza endogena. Per tale motivo un agonista dopaminergico ideale dovrebbe essere in grado di stimolare entrambi i recettori della dopamina. Sotto questo profilo, la sostanza più attiva è la apomorfina agonista D₁ e D₂ che risulta estremamente efficace nei test clinici mediante iniezione sottocutanea. Il farmaco è in grado di determinare la scomparsa quasi totale dei sintomi parkinsoniani in tutti i soggetti che sono affetti dalla malattia. Sfortunatamente l'emivita estremamente breve della sostanza (pochi minuti) ne limita l'utilizzo a dei meri test farmacologici a scopo diagnostico e a poche altre situazioni di emergenza ospedaliera. Gli agonisti dopaminergici in commercio sono rappresentati da una classe di farmaci, chimicamente diversi tra loro, in grado però di condividere la capacità di stimolare selettivamente i recettori per la dopamina. Tutti questi farmaci, tuttavia, sono attivi sui recettori di tipo D₂, mentre non presentano alcuna affinità per il recettore di tipo D₁ (esclusa la pergolide). Questa scarsa o nulla affinità per il recettore D₁ spiega probabilmente la differenza di potenza rispetto alla levodopa che, trasformata in dopamina, va a stimolare entrambi i recettori, o all'apomorfina, agonista doppio. Tra i classici dopamino-agonisti figurano la bromocriptina, la lisuride e la pergolide, mentre più di recente sono stati introdotti nuovi farmaci, come la cabergolina, il pramipexolo e il ropinirolo.
Gli agonisti dopaminergici offrono una serie di potenziali benefici rispetto alla terapia classica con levodopa. In primo luogo, essi agiscono direttamente sui recettori dopaminergici striatali e non richiedono la conversione enzimatica di dopa in dopamina, essendo pertanto indipendenti dal numero di cellule dopaminergiche residue. In secondo luogo, la selettività farmacologica verso un sottotipo recettoriale riduce la possibilità di effetti indesiderati. Inoltre, da un punto di vista farmacocinetico, tali farmaci non competono con le proteine plasmatiche per l'assorbimento e il trasporto plasmatico. Infine, non subiscono un metabolismo ossidativo, e pertanto non generano radicali liberi. Bisogna sottolineare che la loro efficacia, rispetto alla levodopa, rimane limitata, e dopo alcuni anni di terapia con soli agonisti dopaminergici è di solito indispensabile aggiungere levodopa. In condizioni fisiologiche, nei gangli della base esiste un equilibrio tra dopamina e acetilcolina. Nel morbo di Parkinson, tale equilibrio risulta sbilanciato a favore di un tono colinergico: per tale motivo sostanze ad azione anticolinergica tendono a migliorare i sintomi della malattia. Gli anticolinergici che agiscono sul sistema nervoso centrale includono sostanze come il triexifenidile e la benzotropina. Tali farmaci sembrano avere maggiore efficacia sul tremore parkinsoniano piuttosto che su rigidità e acinesia. Gli effetti collaterali sono però numerosi: includono disturbi a carico del sistema nervoso centrale, come confusione mentale, disturbi di memoria, e sintomi periferici, come senso di bocca secca, visione offuscata, costipazione, ritenzione urinaria, tachicardia, aumento del tono pressorio endoculare; si determina, così, un quadro non facilmente tollerato dal paziente. Inoltre, la sospensione dei farmaci anticolinergici deve essere effettuata in modo graduale, al fine di evitare fenomeni di astinenza e di esacerbazione della sintomatologia parkinsoniana. Pertanto l'uso di anticolinergici dovrebbe essere limitato a pazienti giovani, in condizioni generali buone, che presentano come sintomo cardinale il tremore.
Solo casualmente è stata osservata l'efficacia antiparkinsoniana dell'amantadina, nata come agente antivirale. Studi sperimentali dimostrano come tale sostanza risulti in grado di stimolare i recettori dopaminergici, di aumentare il rilascio di dopamina e di bloccarne il riassorbimento nei terminali sinaptici. Inoltre è stato recentemente dimostrato che l'amantadina possiede un'efficacia come antagonista dei recettori glutammatergici del tipo NMDA (N-methyl-d-aspartate). La sua validità clinica si rivela soprattutto su rigidità e acinesia, in misura minore sul tremore. Tuttavia uno degli effetti collaterali importanti è rappresentato da turbe cognitive. Da quanto detto sopra si comprende che la terapia di un soggetto affetto da morbo di Parkinson in fase iniziale non costituisce un problema, perché sia la levodopa sia i dopamino-agonisti riescono a controllare bene i sintomi della malattia. In fase avanzata, al contrario, entrambe queste sostanze non risultano soddisfacenti. Per tale motivo si sono tentate nuove terapie: alcune di tipo sostitutivo, attuate mediante trapianto intracerebrale di cellule dopaminergiche ricavate da feti ottenuti da aborti terapeutici; altre di tipo funzionale, realizzate inattivando nuclei del sistema extrapiramidale, che è quello principalmente disturbato dalla mancanza di dopamina, mediante una lesione oppure l'inserzione di elettrodi stimolanti attivati ad alta frequenza da uno stimolatore sottocutaneo tipo pacemaker.
Gli effetti dei trapianti di cellule dopaminergiche fetali sembrano buoni ma transitori; paiono, però, promettenti i primi risultati dell'uso di sostanze stimolanti per la rigenerazione neuronale (growth factors), che potrebbero aiutare a ottenere il definitivo attecchimento di cellule dopaminergiche nello striato. L'efficacia delle lesioni del talamo e/o del globo pallido sembra buona e duratura, ma ristretta al sintomo tremore (per quanto riguarda la lesione del talamo) e applicabile soltanto unilateralmente in entrambi i casi, poiché le lesioni bilaterali di questi nuclei producono deterioramento mentale grave di vario tipo, e ciò ha ridotto notevolmente l'applicabilità clinica della metodica. La stimolazione ad alta frequenza sembra, al momento, la tecnica più promettente in quanto è meno invasiva da un punto di vista chirurgico, è applicabile bilateralmente senza danno ed è effettuabile su nuclei, come il sottotalamo, la cui stimolazione permette di controllare anche la rigidità e l'acinesia, oltre al tremore. La tecnica è stata messa a punto, in Francia, da un gruppo di neurochirurghi di Grenoble e il suo effetto clinico è determinato dall'attivazione con stimoli ad alta frequenza (180 Hz) di elettrodi posizionati a permanenza nel nucleo che si vuole inattivare. Da un punto di vista funzionale, l'effetto risulta simile a quello della lesione del nucleo, ma un ulteriore grosso vantaggio è dato dalla reversibilità, nel caso in cui l'effetto ottenuto non sia quello desiderato.
Rimane ancora dubbia, per mancanza di dati prospettici, la durata del trattamento. Le recenti acquisizioni sull'eziopatogenesi e sulla fisiopatologia del morbo di Parkinson hanno aperto nuove prospettive terapeutiche di neuroprotezione. Dati sperimentali suggeriscono che, nell'eziopatogenesi multifattoriale della malattia, le alterazioni del metabolismo mitocondriale delle cellule dopaminergiche della sostanza nera occupano un ruolo importante, con la produzione di radicali liberi derivanti dal metabolismo ossidativo della dopamina stessa. Notevole interesse, in tal senso, ha sollevato l'utilizzo clinico della selegilina, un inibitore selettivo dell'enzima monoaminoossidasi B (MAO-B), enzima della membrana cellulare che è deputato alla degradazione della dopamina. L'inibizione di tale enzima, oltre a prolungare l'emivita farmacologica della dopamina, sembra essere in possesso della capacità di bloccare la produzione di radicali liberi derivanti dal metabolismo ossidativo della dopamina. In particolare, l'effetto neuroprotettivo della selegilina sembra derivare dal suo metabolita desmetilselegilina (DMS), che sarebbe in grado di garantire un'elevata produzione cellulare di molecole ad azione antiossidante, come il glutatione e la superossidodismutasi. Ricerche sperimentali condotte su animali hanno dimostrato che la selegilina può prevenire lo sviluppo di una sindrome parkinsoniana indotta dalla tossina MPTP. Inoltre i dati iniziali di studi clinici condotti su pazienti parkinsoniani sembrano comprovare che il trattamento con selegilina ritarda lo sviluppo della disabilità e, di conseguenza, la progressione, intesa come necessità di introdurre il trattamento con levodopa.
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