MORFINA (C17H19O3N + H2O)
È il primo alcaloide estratto dal regno vegetale. Scoperta causalmente nell'oppio da C. Derosne fu riconosciuta come alcaloide da F. W. Sertürner nel 1806, e da lui chiamata, per le proprietà sedative, analgesiche e ipnotiche, morphium (da Μορϕεύς "dio del sogno"). Gay Lussac le diede l'attuale suo nome e A. Laurent ne stabilì nel 1848 la composizione centesimale.
La morfina è ammina terziaria metilata all'azoto: dei tre atomi di ossigeno uno costituisce un ossidrile fenolico, l'altro un gruppo alcoolico secondario, il terzo è di tipo etereo. Distillata su polvere di zinco dà origine a fenantrene per cui (insieme con codeina e tebaina) può considerarsi come un derivato di questo. La formula di R. Robinson (1925)
è la più accreditata, ma presenta ancora qualche incertezza sull'attacco della catena −CH2 • CH2 • N(CH3)−; metilandone l'ossidrile fenolico si passa alla codeina; asportando alla morfina una molecola d'acqua (riscaldamento con acido cloridrico o solforico) si ottiene facilmente apomorfina C17H17O7N (ottenuta anche per sintesi) che non contiene più lo scheletro originario e che si può considerare come derivata tanto dal fenantrene quanto dalla isochinolina.
Dall'oppio (latice condensato delle capsule seminali non mature del Papaver somniferum) si estrassero, fino ad ora, 25 alcaloidi. I più importanti sono: morfina (oppio ordinario 10-11%, oppio da piante coltivate 20-22%, oppio per fumatori 2-3%), codeina, papaverina, tebaina, narcotina, narceina, i quali vi si trovano salificati prevalentemente con gli acidi solforico e meconico: la quantità di questo è in stretto rapporto con quella della morfina. L'estrazione della morfina è operazione piuttosto lunga: la si ottiene dapprima inquinata specialmente di codeina. È stato proposto di compierne la purificazione passando per la diacetilmorfina, ma comunemente si segue altro processo.
La morfina si presenta in aghi bianchi, translucidi, splendenti, o in piccoli prismi rombici: a 110-120° perde l'acqua di cristallizzazione, a 254° fonde decomponendosi. In acqua fredda è pochissimo solubile; la soluzione ha sapore amaro, reazione alcalina, potere rotatorio levogiro, azione tossica. Nei solventi organici (specie nel cloroformio) è abbastanza solubile se allo stato amorfo, cioè appena precipitata dai suoi sali: allo stato cristallino non si scioglie più. Oltre a tutte le reazioni generali degli alcaloidi, la morfina ne dà alcune dovute all'ossidrile fenolico (colorazione con cloruro ferrico, solubilità in alcali caustici) e al suo potere riduttore (l'acido fosfomolibdico dà precipitato giallo, che tosto, per aggiunta di ammoniaca, si riduce a ossido di molibdeno azzurro: la trasformazione in apomorfina è la reazione più caratteristica (reazione di Pellagri).
È base monoacida: i suoi sali (bromidrato, cloridrato, solfato, acetato, benzoato, tartrato, ecc.) cristallizzano facilmente, dànno soluzioni acquose neutre agl'indicatori e come analgesici e ipnotici sono preferiti alla morfina insolubile. I derivati più noti sono la metilmorfina (codeina) C17H17ON(OH)(OCH3); l'etilmorfina (cloridrato = dionina) C17H17ON(OH)(OC2H5); la benzilmorfina (cloridrato = peronina) C17H17ON(OH)(OCH2C6H5); la diacetilmorfina (eroina) C17H17ON(O.CO.CH3)2.
Bibl.: Abderhalden, Handbuch der biologischen Arbeitsmethoden, I, ix, Berlino 1920-33; E. Schmidt, Pharmazeutische Chemie, II, Brunswick 1923; T. A. Henry, Plant Alkaloids, 2ª ed., Londra 1924; A. Tschirch, Handbuch der Pharmakognosie, Lipsia 1928; E. Winterstein e G. Trier, Die Alkaloide, 2ª ed., Berlino 1931.
Farmacologia. - Dubbia e comunque debole è l'azione della morfina sul protoplasma: già C. Darwin aveva visto che la morfina ha scarsa azione sui tentacoli della Drosera. Non agisce sui fermenti se non a forti dosi: nella proporzione del 2,5% può inibire in vitro la funzione uropoietica del fegato (G. B. Zanda). Non nuoce, se non in forti concentrazioni, ai batterî. Non impedisce la germogliazione dei semi, però le pianticelle che si sviluppano crescono male e più tardi muoiono (G. Ciamician e C. Ravenna). Poco attiva è anche sui protozoi (G. Ostermann), sui celenterati, sui vermi, ecc. I tessuti degli animali trattati con la morfina presentano una maggiore affinità per l'acqua.
Introdotta nell'organismo, la morfina scompare rapidamente dal sangue. Somministrata per bocca o sottocute, dopo riassorbimento, viene eliminata attraverso la mucosa dello stomaco e dell'intestino e di qui, in parte riassorbita, in parte eliminata con le feci e con le urine, combinata, ivi, con lo zolfo coniugato. Se l'eliminazione attraverso i villi intestinali è bloccata dall'eliminazione di un altro farmaco che segue la stessa via (cobalto) l'eliminazione della morfina resta in parte impedita e la sua tossicità aumenta (P. Mascherpa). Si localizza in varî organi (muscoli, fegato, reni, milza, ecc.) dove più facilmente si trova nelle intossicazioni acute, più difficilmente negli avvelenamenti cronici. Iniettata alla rana, la morfina provoca dapprima scomparsa dei movimenti spontanei (azione sul cervello), poi della statica e dinamica del movimento (azione sui tubercoli quadrigemini); in seguito l'animale diventa incapace di saltare (paralisi del cervelletto) e di riprendere la posizione normale (paralisi del midollo allungato). A più forti dosi si può avere eccitamento spinale e tetano.
Nel cane, a dosi relativamente piccole, provoca stupidità, salivazione, nausea, defecazioni: a dosi maggiori, diminuzione della sensibilità, aumento della frequenza del polso, diminuzione della frequenza del respiro e sonno. A dosi ancora maggiori si hanno crampi, contrazioni, tetano. Il gatto domestico, per dosi di 10 mgr. di morfina, presenta incoordinazione dei movimenti, dilatazione pupillare, nausea e, in preda ad allucinazioni, tenta di aggredire coloro che lo avvicinano. Nel topo è notevole la posizione della coda che, volta in alto, s'irrigidisce distesa o si ripiega ad S sul dorso: questo fenomeno, caratteristico della morfina, sarebbe dovuto al nucleo del fenantrene contenuto nella molecola dell'alcaloide. Le pecore e le capre sono resistenti alla morfina. Nell'uomo produce diminuzione della sensibilità, talora nausee e vomito, stanchezza, sonnolenza, senso di euforia, durante il quale le impressioni esterne sono facilitate, poi sonno profondo. L'azione varia secondo le razze: i malesi divengono eccitatissimi e talora pericolosi a sé e agli altri; gli orientali cadono in una specie di beatitudine e di assopimento di lunga durata che precede il sonno accompagnato spesso da sogni erotici.
A dosi molto forti (10-30 cgr.) si può avere la morte. In questo caso l'avvelenato, che da principio poteva ancora essere risvegliato, non risponde più agli stimoli, i riflessi scompaiono, i muscoli si rilasciano, la pelle diviene pallidissima e si copre di sudore freddo, la saliva cola dalle commessure labiali, le mucose sono cianotiche, la temperatura si abbassa, il respiro si fa lento e assume il tipo di Cheyne-Stokes, il polso si fa debole, aritmico; la pupilla si restringe per dilatarsi pochi minuti prima della morte per asfissia. La morte avviene in uno stato di coma profondo. In caso d'intossicazione acuta si cerca di eliminare il veleno con la lavatura dello stomaco, si somministra permanganato potassico (0,5%) e si dànno eccitanti del cuore.
Il fenomeno più importante, che rende la morfina preziosissima come medicamento, è la diminuzione della sensibilità dolorifica che produce già a piccole dosi. Le rane morfinizzate non ritirano gli arti irritati con l'acido nitrico; il cane in cui si ecciti la dura madre con corrente indotta non si agita, non grida (W. Mohrer e altri). La morfina paralizza i centri, sparsi per la corteccia cerebrale, in cui il riflesso del dolore è elaborato e percepito, ma non paralizza il centro talamico da cui si originano i cosiddetti pseudoriflessi del dolore che possono anzi essere intensificati. Anche altri centri vengono paralizzati e depressi, così il centro della tosse e del respiro. Ammettendo un centro inspiratore e uno espiratore, quest'ultimo sarebbe quello maggiormente influenzato dall'alcaloide. Diminuita l'eccitabilità del centro espiratore e non avvertendosi l'accumulo di anidride carbonica nel sangue, si ha acidosi. Insieme con questi fenomeni si nota nella narcosi morfinica dilatazione attiva dei vasi cerebrali e aumento dei lipoidi del cervello, specialmente dei fosfatidi non saturi.
Per queste sue proprietà analgesiche la morfina (alla dose di 2-3 centigrammi) trova larga applicazione nella cura delle nevralgie e dolori di qualunque origine essi siano ed è così utile e insostituibile, che giustamente, T. Sydenham fino dal sec. XVII poteva definire l'oppio: medicamentum a coelo demissum. Per ottenere questo risultato analgesico è però necessario introdurre la morfina per via parenterale o ipodermica altrimenti l'effetto è tardo o manca.
Le dosi terapeutiche di morfina non modificano sensibilmente la circolazione: acceleramento del polso si può avere all'inizio dell'azione. Sul cuore isolato di mammiferi si nota acceleramento del polso e abbreviamento del tempo necessario alla conduzione dello stimolo, poscia rallentamento e arresto in diastole (G. Vinci). Devesi però aggiungere che l'effetto della morfina sul circolo non è sempre costante e varia secondo la dose e secondo la specie animale. Anche la pressione sanguigna è poco modificata; più spesso è lievemente aumentata e in relazione con questo fenomeno si nota anche l'aumento della coagulabilità del sangue. Come in genere tutti i narcotici, la morfina a forti dosi si può considerare un veleno dei capillari che vengono dilatati. La pupilla nell'uomo (non negli animali) appare ristretta per opera della morfina. La miosi è dovuta a un aumento di tono del muscolo costrittore o sfintere dell'iride; scompare paralizzando con l'atropina le terminazioni dell'oculomotore ed è di origine centrale. Questa miosi può servire come mezzo diagnostico nelle intossicazioni acute da morfina e da oppio.
Interessante dal punto di vista terapeutico è l'azione esercitata dalla morfina sui muscoli lisci: il tono, la frequenza, l'ampiezza della peristalsi gastrica sono aumentati: si ha un crampo del piloro; gli alimenti rimangono per ore nello stomaco, ma poiché la secrezione del succo gastrico è aumentata la loro digestione appare più completa. Le osservazioni radiografiche (R. Magnus) lo hanno dimostrato. Il tono dell'intestino invece è variamente modificato a seconda delle dosi e delle specie animali (P. Trendelenburg). Così mentre per il cane l'oppio e la morfina agiscono come veri purganti, in altri animali (cavie) si ha una notevole depressione dei movimenti intestinali. Questo accade anche nell'uomo per piccole dosi di morfina e specialmente di oppio e a tutti è noto l'uso che nelle diarree si dà del laudano per rallentare i movimenti intestinali: però è incerto quanta parte si debba a questo fenomeno e quanta alle modificazioni del riassorbimento del contenuto intestinale. Diarree prodotte da alcuni purganti (coloquintide) sono influenzate dalla morfina; altre (ricino, senna) non lo sono che in minimo grado.
La morfina è in parte distrutta nell'organismo: questa distruzione aumenterebbe, secondo alcuni, con l'abitudine al farmaco o morfinismo, fenomeno che si può ottenere anche in molti animali. È stato attribuito al fegato dell'animale morfinista la proprietà di distruggere o trasformare in maggior grado la morfina (G. St. Faust, M. Albanese) ma molti autori negano questo fatto. Certamente la funzionalità del fegato per opera della morfina è alterata (P. Giordano). Le cause dell'abitudine per cui un individuo può tollerare quantità enormi di laudano e di morfina (fino a 10 gr. al giorno) non sono chiarite. Il fatto che non si può sottrarre bruscamente la morfina a un morfinista senza avere gravi sintomi morbosi, detti sintomi d'astinenza, fa pensare a un'azione della morfina sulle cellule: esse divengono incapaci di difendersi dall'azione del veleno il quale, poco alla volta, viene a far parte del protoplasma cellulare come una normale sostanza fisiologica indispensabile alla sua funzione e alla sua vita. Il morfinismo, che può andare fino a una vera mania (morfinomania), è assai diffuso, specialmente nelle classi colte, s'inizia spesso con l'uso terapeutico dell'alcaloide, e reca danni gravissimi alla società.
Da principio il morfinista prova un senso di benessere; inconsciamente pone molto in alto il suo io, si sente felice, ha un falso concetto della sua attività, del suo potere: il lavoro gli sembra facile, il successo sicuro. In questo periodo, che può durare anni, la salute è buona. Ma, poco alla volta, per ottenere piacevoli effetti, bisogna aumentare la dose. Allora l'individuo dimagra, impallidisce, l'appetito diminuisce, l'assimilazione diviene imperfetta. Scompare l'amore al lavoro, l'affettività, il sentimento del proprio dovere, finché pallido, magro, col dorso curvo, con gli occhi incavati e lo sguardo spento, con l'andatura vacillante, apatico e indifferente a quanto lo circonda, il morfinomane diventa una larva d'uomo senza volontà e senza vita. La cura del morfinismo è assai delicata e non si può fare che in apposite case di salute.
Per le norme giuridiche che regolano lo smercio della morfina, v. stupefacenti.