MORRA di Lavriano e della Monta, Umberto
MORRA di Lavriano e della Montà, Umberto. – Nacque a Firenze il 13 maggio 1897 da Roberto, conte di Lavriano e della Montà, e da Maria Teresa Bettini.
Apparteneva a un’importante famiglia piemontese molto legata alla dinastia, che aveva dato al Regno di Sardegna e poi all’Italia quattro generali: suo padre fu uno di questi, e nel 1894, inviato come commissario straordinario in Sicilia, guidò la repressione dei Fasci dei lavoratori. Egli stesso ebbe come padrino di battesimo re Umberto I e come madrina la regina Margherita.
Passò la prima infanzia, fino al 1902, a San Pietroburgo, dove il padre si trovava come plenipotenziario italiano presso la corte russa e dove Morra si ammalò di tubercolosi ossea, riportandone una zoppìa permanente. Trascorse gli anni successivi prima a Viareggio, poi a Roma, dove si iscrisse alla facoltà di legge senza però mai laurearsi. La residenza principale della sua vita fu tuttavia, fino alla morte, la villa di Metelliano, a Cortona, dove visse da solo dopo la morte dei genitori, dal momento che non si sposò mai.
Educato da un precettore cattolico con probabili simpatie moderniste, subì nella prima gioventù l’influenza del cenacolo intellettuale che ruotava intorno a La Voce. All’inizio della prima guerra mondiale fu attratto per breve periodo dal nazionalismo, ma durante l’esperienza al fronte, dove prestò la sua opera presso le Case del soldato dal momento che l’invalidità lo rendeva inabile al servizio militare, rimase presto disgustato dalle atrocità belliche, ai suoi occhi ingiustificabili. In quella circostanza conobbe il sacerdote Giovanni Semeria, e insieme frequentarono a Padova Novello Papafava, nel cui palazzo convenivano personaggi della politica e della cultura italiane. Ebbe così modo di conoscere, tra gli altri, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Ugo Ojetti, Ferruccio Parri, Giuseppe Lombardo Radice e Giuseppe Prezzolini, figure importanti per la sua formazione di liberale non sistematico, capace di far convivere il liberalismo con personali convinzioni religiose di tipo cattolico.
Con Semeria tra il 1919 e il 1920 si recò in America per raccogliere fondi per l’Opera nazionale orfani di guerra, un viaggio che gli permise una precoce e diretta conoscenza delle risorse e dei problemi della società americana. Tornato in Italia nel momento di massima effervescenza della crisi postbellica, fu profondamente deluso dal comportamento della classe dirigente liberale, ma non simpatizzò con le opposizioni tradizionali, democratiche e radicali, né con l’opposizione socialista, che giudicò demagogica e inconcludente. Del fascismo sin dal primissimo inizio deprecò l’irrazionalismo e il mito della violenza. Ma in esso vide anche il proseguimento della retorica della libertà, che a suo parere aveva caratterizzato tutta la storia dell’Italia liberale, dal Risorgimento alla crisi del dopoguerra. Come molti coetanei, tuttavia, non capì subito la novità e il pericolo rappresentati dal fascismo, e alla presa del potere da parte di Mussolini reagì con un pessimismo radicale rispetto alla politica, un atteggiamento non dissimile da quello di Salvemini, all’epoca il suo maggiore ispiratore e maestro.
Determinante, a questo punto, fu l’incontro con Piero Gobetti, che conobbe personalmente subito dopo la marcia su Roma e col quale stabilì un forte rapporto di amicizia, nonostante inizialmente le loro posizioni non coincidessero: al pessimismo di Morra e alla sua sfiducia nella politica Gobetti opponeva infatti la necessità di una risposta attiva, oltre al convincimento che fosse opportuna una rifondazione del liberalismo anche nel comportamento individuale.
Nei saggi che scrisse su Rivoluzione liberale Morra mostrava di aver assorbito gran parte delle idee del più giovane amico, come quella che il conflitto sociale, annullato dal fascismo, fosse invece necessario, manifestazione di una libertà che l’inetta borghesia italiana aveva temuto e osteggiato invece di riconoscerla. Più in generale il suo ‘gobettismo’ significò abbracciare una concezione volontaristica della vita che accettasse il proprio tempo abbandonando pessimismo e nostalgie reazionarie; che si impegnasse anche in condizioni avverse e senza certezze di vittoria in un progetto mirato a un esito rivoluzionario; che concepisse la rivoluzione liberale come rivoluzione essenzialmente morale, interiore, e il liberalismo come metodo, processo e aspirazione piuttosto che come teoria e sistema. I suoi scritti su Rivoluzione liberale ebbero spesso la forma di brevi schizzi, che egli chiamava ‘postille’ e che prendevano di mira aspetti deteriori del costume italiano: lo spirito gregario, il carrierismo, la retorica dell’eroismo e del maschio guerriero, lo spirito massonico ma anche quello pregiudizialmente antimassonico, l’anticlericalismo, la cecità di fronte ai macroscopici difetti della società italiana, la passione per i capri espiatori, l’anarchismo conformista. A questo stile rimase fedele anche in seguito.
A partire dal 1925 le sue collaborazioni a Rivoluzione liberale si ridussero, mentre si fecero sempre più numerose quelle a Il Baretti, la nuova rivista letteraria di Gobetti. Con i suoi saggi svolse un ruolo importante nel presentare al pubblico italiano la grande letteratura inglese. Singolari furono invece le sue stroncature de La coscienza di Zeno di Italo Svevo e di Ossi di seppia di Eugenio Montale. Dopo la chiusura de Il Baretti collaborò con Solaria (di cui peraltro non apprezzò l’impostazione apolitica), di nuovo con saggi che introducevano i grandi scrittori europei e americani al pubblico italiano, ma anche con contributi di carattere più filosofico, nei quali polemizzò con Giovanni Gentile rivalutando Benedetto Croce, del quale non condivise però l’immanentismo filosofico, troppo in conflitto con le sue convinzioni religiose.
Oltre all’attività di pubblicista Morra si impegnò nell’organizzazione dei gruppi di Rivoluzione liberale, e poi nella diffusione del programma del Non mollare, il giornale antifascista che si pubblicò a Firenze tra il gennaio e l’ottobre del 1925. In questo frangente strinse rapporti, che spesso divennero amicizie per la vita, con Alessandro Passerin d’Entrèves e Guglielmo Alberti (come lui cattolici), con l’anarchico Camillo Berneri, con Piero Calamandrei, con Lucangelo Bracci, con Leo Ferrero, con Ernesto Rossi, con i fratelli Carlo e Nello Rosselli che trovarono rifugio dalle squadre fasciste nella sua casa di Cortona. La stessa ospitalità trovò Ernesto Rossi che cercava di riparare in Francia. In quegli anni nella casa romana di Bracci conobbe anche Max Ascoli, Tullio Ascarelli, Umberto Zanotti Bianco, Andrea Caffi. In occasione dell’organizzazione della fuga di Salvemini dall’Italia venne presentato a Bernard Berenson e nonostante la leggendaria riservatezza e sospettosità del critico americano Morra riuscì subito a essere accettato nella cerchia dei suoi più intimi amici. Dopo la sua morte pubblicò un libro, Colloqui con Berenson (Milano 1963), accolto con favore dalla critica.
Nel corso degli anni Trenta la sua opposizione al fascismo non divenne mai cospirazione politica aperta. Tuttavia attirò ugualmente su di sé l’attenzione della polizia: una prima volta per l’amicizia con Berneri; una seconda in occasione del plebiscito del 1934, quando votò contro il regime, e al segretario del fascio che gli faceva notare il suo ‘errore’ disse di non essersi affatto sbagliato. Probabilmente la polizia fascista lo considerava persona vicina alla Casa reale e forse anche per questo motivo la persecuzione fu nei suoi confronti piuttosto blanda. Durante il Ventennio passò lunghi periodi nella sua casa di Metelliano, dove spesso gli amici andavano a trovarlo, talvolta trattenendosi anche a lungo (tra gli altri il giovanissimo Alberto Moravia). Morra e Pietro Pancrazi, che abitava vicino a lui, fecero della zona di Cortona un luogo di incontro per letterati: Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Giacomo Noventa, Piero Calamandrei, Emilio Cecchi, Luigi Russo, Arnaldo Momigliano, Alberto Carocci e Nello Rosselli spesso si incontravano nelle abitazioni dei due cortonesi. In questo periodo i suoi principali contatti politici furono con il gruppo dei liberalsocialisti di Aldo Capitini e Guido Calogero e con i militanti di Giustizia e Libertà.
Tra lo scoppio della guerra e la caduta del fascismo in Italia non restavano molti antifascisti maturi e attivi in libertà, dato che alcuni avevano scelto l’esilio, molti altri erano in carcere o al confino. Per questo, man mano che la crisi del regime andò approfondendosi e si aprivano spazi politici alternativi, l’attività di Morra divenne frenetica e si svolse in ambienti molto diversi tra loro. Entrato nella Croce rossa, ebbe l’incarico di sorvegliare che nei confronti dei prigionieri di guerra fosse rispettata la convenzione di Ginevra; per svolgere il suo incarico viaggiò per tutta l’Italia, e questo gli fu di non poco aiuto nell’attività clandestina. Contemporaneamente, infatti, entrò in contatto a Roma con un gruppo di giovani antifascisti che nell’esperienza dei Littoriali avevano maturato un atteggiamento critico verso il regime, molti dei quali, a sua insaputa, erano già comunisti: Renato Guttuso, i fratelli Enrico e Giovanni Berlinguer, Antonio Giolitti, Lucio Lombardo Radice, Mario Alicata, Antonello Trombadori, Mario Socrate, Pietro Ingrao, Paolo Bufalini, Fabrizio Onofri, Giaime Pintor. Con quest’ultimo, che gli ricordava Gobetti, stabilì un sodalizio intenso. Infine fu anche attivo, insieme – tra gli altri – a Giuliana Benzoni, nel gruppo vicino a Maria José che cercò di provocare una rottura tra la Corona e il fascismo.
Dopo il 25 luglio 1943, con i giovani antifascisti con i quali era in rapporto decise di premere sul governo Badoglio perché fossero liberati tutti i prigionieri e i confinati politici: insieme a Luchino Visconti si recò da Filippo Doria Pamphili, nuovo sindaco di Roma, e la loro iniziativa ebbe successo. Dopo l’8 settembre con Leopoldo Piccardi, ministro del governo Badoglio, passò clandestinamente le linee e raggiunse il Regno del Sud, dove per breve periodo fu suo capo di gabinetto. Nel giugno 1944, all’indomani della liberazione di Roma, nel nuovo governo Bonomi fu di nuovo capo di gabinetto del ministro Alberto Cianca ed ebbe incarichi anche nel governo Parri.
Le sue simpatie andavano al Partito d’azione e dopo la sua crisi, nei mesi che precedettero le elezioni del 18 aprile 1948, partecipò alle iniziative degli intellettuali schieratisi con il Fronte popolare. Si avvicinò al Partito comunista italiano con una posizione simile a quella che aveva avuto Gobetti nei confronti di Gramsci, prima del fascismo. Ma la sua indipendenza culturale non consentì la durata di questa collocazione: alcuni articoli apparsi su Il Nuovo Corriere di Firenze vennero criticati perché eterodossi, finchè nel 1953 la sua valutazione positiva del progetto di legge maggioritaria (la cosiddetta ‘legge truffa’) sancì il suo allontanamento dai ‘frontisti’ (con i quali, tuttavia, non ruppe mai del tutto). Negli anni successivi fu vicino ai liberali di sinistra e continuò a pubblicare su molte riviste (particolarmente intensa fu la collaborazione con Il Mondo), mantenendo sempre la sua particolare cifra stilistica, originale e asistematica, sia che trattasse di letteratura sia che si occupasse di note di costume.
Dal 1949 al 1955 fu il direttore della Società per l’organizzazione internazionale, della quale fu segretario negli anni Sessanta e Settanta, facendone il principale ente italiano di studi sulle relazioni internazionali. Dal 1955 al 1959 diresse in modo brillante e insuperato l’Istituto italiano di cultura a Londra e da quell’esperienza nacque un piccolo capolavoro, la guida L’Inghilterra (Milano 1962). Fu membro assiduo del Pen club.
Era sua intenzione pubblicare una biografia completa di Gobetti e a quest’opera lavorò per decenni senza però arrivare a terminarla. Vita di Piero Gobetti (Torino 1983), che uscì due anni dopo la sua morte, è un’opera importante, ricca di informazioni sulla prima giovinezza di Gobetti, ma purtroppo si arresta all’inizio dell’esperienza di Rivoluzione liberale. Anche su Novello Papafava aveva in ponte una biografia, che non vide mai la luce.
Morì a Metelliano il 5 novembre 1981.
Fonti e Bibl.: L’archivio si conserva presso il Centro studi P. Gobetti di Torino e consta di 9 scatole contenenti libri, opuscoli, ritagli di stampa e dattiloscritti donati dallo stesso Morra l’anno della sua morte. Presso l’Archivio audiovisivo di Francesco Alberti Lamarmora, a Biella, si conservano 12 interviste raccolte registrando su bobine audio, tra il 1979 e il 1981. Nei colloqui, trascritti, si parla della vita di Morra e in particolare di Guglielmo Alberti, padre di Francesco. Un elenco dettagliato dei suoi scritti è in B. Frescucci, Bibliografia di U. M., Cortona 1967. Si vedano inoltre: G. Benzoni, La vita ribelle, Bologna 1985, ad ind.; U. M. di L. e l’opposizione etica al fascismo, Atti del Convegno... Cortona ... 1983, Cuneo 1985; A. Bellando, U. M. di L., Firenze 1990; V. Mogavero, Novello Papafava tra Grande Guerra, dopoguerra e fascismo, Verona 2010, ad ind.