Morte cellulare programmata
La cellula rappresenta un microcosmo molto complesso. Al suo interno si possono comunemente trovare decine di migliaia di geni che formano il genoma, il cui componente fondamentale è il lungo filamento di DNA (DeoxyriboNucleic Acid). Poiché ciascun gene fornisce le istruzioni per la sintesi di numerose proteine, ognuna deputata a svolgere una specifica funzione, la somma di geni e proteine talvolta è superiore a centomila. A questi componenti fondamentali dobbiamo aggiungere i diversi tipi di lipidi (per es., quelli che formano la membrana che separa ogni cellula dal mondo esterno) e un numero di altri costituenti (vitamine, sali minerali ecc.) di vario genere. In breve, una cellula può essere paragonata a una città di medie dimensioni popolata da migliaia di cittadini, ciascuno devoluto a compiere arti, mestieri e professioni di varia natura, nella quale ogni attività deve essere regolata in tempi e modi appropriati. In questa multiforme, brulicante, apparentemente caotica città, nella quale possono anche svilupparsi e crescere elementi potenzialmente dannosi per il suo buon funzionamento, vigono regole e leggi essenziali. Fra queste, la prima è il controllo ferreo dei suoi costituenti: ogni elemento che degenera e muore deve essere sostituito con uno nuovo che svolga le stesse mansioni, mantenendo quindi un controllo della popolazione, in termini sia di quantità sia di ruoli funzionali. Questo principio regolatore generale, denominato omeostasi, provvede a regolare l’espressione dei geni e la loro duplicazione se una cellula deve dividersi, la sintesi delle proteine, l’approvvigionamento di elementi nutritizi ed energetici.
Gli studi compiuti a partire dagli anni Ottanta del 20° sec. hanno rivelato che ogni cellula contiene nel proprio genoma un complesso insieme di istruzioni che, se attivate dall’interno o da segnali provenienti da altre cellule, provvede alla propria autoeliminazione. I biologi hanno chiamato questo processo morte cellulare programmata o, più antropomorficamente, suicidio cellulare. Il termine scientifico che descrive le fasi salienti di questo suicidio è apoptosi (dal greco apóptosis «caduta») che, in analogia con la caduta delle foglie dagli alberi o dei petali dai fiori, sottolinea come la morte della materia vivente sia un aspetto integrante e necessario del ciclo vitale degli organismi.
La morte cellulare programmata permette l’eliminazione di cellule non più necessarie o malfunzionanti perché vecchie, infettate, danneggiate o dannose. Essa prevede l’attivazione di un programma intrinseco di suicidio (autodemolizione) che si realizza in modo regolato, secondo programmi molecolari ben definiti, riproducibili e nell’interesse dell’intero organismo.
Fin dalla seconda metà del 20° sec. diverse osservazioni indicavano che, negli organismi multicellula-ri, la morte cellulare può verificarsi non in conseguenza di un evento traumatico o della morte dell’individuo stesso, ma essere parte essenziale di processi fisiologici fondamentali come l’embriogenesi e la metamorfosi. L’espressione morte cellulare programmata è stata coniata nel 1964 per suggerire che la morte delle cellule, osservata dai biologi dello sviluppo fin dal 1850, non è un fatto accidentale ma è, alla pari della loro divisione e del differenziamento, il risultato di una sequenza di eventi geneticamente programmati che si avvicendano in maniera controllata e conducono nel tempo e nel luogo prestabilito all’autodistruzione di singole cellule o piccoli gruppi di esse. In seguito, il termine apoptosi è stato utilizzato da John F. Kerr, Andrew H. Wyllie e Alastair R. Currie (1972) per raffigurare le modificazioni morfologiche che assumono le cellule apoptotiche. L’apoptosi è il tipo di morte cellulare programmata più noto e verosimilmente il più frequente, anche se altri tipi di morte programmata di tipo non apoptotico hanno significati biologici sovrapponibili. I processi apoptotici hanno un ampio significato biologico poiché sono coinvolti nello sviluppo di un organismo, nel differenziamento delle cellule che lo costituiranno, nella formazione e nella regolazione del sistema di difesa di tipo immunitario, nella rimozione di cellule difettose e potenzialmente dannose. Disfunzioni nei programmi di apoptosi risultano alla base di varie condizioni patologiche e possono causare tumori, malattie autoimmuni e diffusione delle malattie virali, mentre eccessi di apoptosi sono spesso alla base delle malattie neurodegenerative, dell’AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome) e delle malattie ischemiche.
Apoptosi e sviluppo di un organismo
Lo sviluppo e il mantenimento di un sistema biologico multicellulare dipendono da una complessa e sofisticata rete di segnalazioni tra le cellule che formano un individuo e, talvolta, dalla richiesta di un comportamento altruistico delle singole cellule a favore dell’organismo nella sua totalità.
La formazione di un individuo ha origine, com’è noto, da due singole cellule che si espandono e si moltiplicano fino a diventare un essere completamente formato. È interessante notare che in questa fase di sviluppo le cellule si dividono a un ritmo anche superiore a quello che caratterizza il più invasivo dei tumori: nell’arco di nove mesi la cellula uovo e lo spermatozoo che la feconda verranno a costituire una massa del peso medio di 3,2 chilogrammi, già organizzata in organi e tessuti. Mentre è intuitivo che per formare questo essere vivente la cellula uovo debba dividersi, moltiplicarsi e andare incontro a una serie di metamorfosi profonde e irreversibili, è apparentemente paradossale che la morte, o meglio l’autodistruzione, sia parte integrante di questo processo.
Occorre chiarire perché intere popolazioni di cellule debbano morire durante lo sviluppo, e che cosa ne provochi la morte. Studi condotti su diversi animali hanno dimostrato che le ragioni sono numerose (tab. 1), per es. il modellamento e la delezione di strutture, il controllo del numero delle cellule e l’eliminazione di quelle anomale (Baehrecke 2002).
Per es., durante la vita fetale tra le dita delle mani e dei piedi è presente uno strato di cellule che conferisce a queste due strutture un aspetto palmato. Con il progredire dello sviluppo le strutture vengono modellate o scolpite e le cellule che si trovano tra le future dita muoiono per apoptosi. Non è infrequente incontrare persone in cui questo processo non si è realizzato completamente e che presentano una separazione incompleta di una o più dita.
La morte cellulare programmata si manifesta anche durante lo sviluppo del sistema nervoso quando l’epitelio si invagina per formare il tubo neurale o si riflette verso l’esterno per formare la vescicola ottica. Durante il suo sviluppo l’organismo produce un eccesso di neuroni; questi competono tra loro per raggiungere le sedi definitive e stabilire appropriate connessioni con le altre cellule. Tutti i neuroni che non hanno stabilito connessioni adeguate o che hanno raggiunto destinazioni sbagliate si autoeliminano. Inoltre, si ipotizza che molte cellule vengano prodotte per guidare la migrazione e la morfogenesi di altri neuroni, svolgendo così una funzione limitata a una finestra spaziotemporale specifica, la cui chiusura determina l’esaurimento del loro ruolo ed esistenza. La loro funzione può essere paragonata a quella svolta dal sostegno centrale che si utilizza per costruire un arco, sostegno che verrà rimosso a costruzione finita. Nel suo complesso, questo processo di autoeliminazione, che ha gli apparenti connotati di un suicidio di massa, avviene perché devono essere eliminate tutte le cellule che occupano spazi e consumano l’energia delle ‘fortunate’ che hanno formato l’intricata rete di connessioni che caratterizza il cervello di un animale adulto. Ricordiamo che il nostro cervello, pur costituendo l’1,5% del peso corporeo, consuma il 15% dell’intero fabbisogno energetico. La presenza di un vasto numero di elementi cellulari anomali costituirebbe un inutile e dannoso dispendio energetico e complicherebbe ulteriormente l’architettura cerebrale.
Il caso dell’eliminazione di una così vasta categoria di cellule e le finalità di questa specie di epurazione di massa ci ricordano una frase attribuita a Michelangelo Buonarroti il quale, interrogato sul modo in cui creava le sue sculture, avrebbe affermato che, semplicemente, bastava eliminare il superfluo.
Altri esempi forniti dagli studi sullo sviluppo di un organismo e che sono familiari alla maggior parte di noi riguardano la delezione di strutture non più necessarie. La metamorfosi del girino in un individuo adulto prevede la distruzione della coda e di gran parte dell’intestino; le cellule che formano queste due strutture muoiono per apoptosi e dei loro resti, rapidamente raccolti dalle cellule fagocitarie, non rimane traccia. La metamorfosi è ancora più marcata negli insetti, nei quali molte cellule della larva vengono distrutte e quelle che diventeranno adulte vanno incontro a differenziazione e trasformazione.
Anche dopo la nascita, durante l’intero arco dell’esistenza le cellule di un individuo adulto vanno costantemente incontro a morti fisiologiche che devono essere bilanciate dalla proliferazione cellulare per mantenere l’omeostasi. Il periodico e fisiologico rinnovamento dei tessuti si avvale dell’apoptosi per l’eliminazione, per es., delle cellule usurate degli strati superficiali degli epiteli che rivestono le pareti dell’intestino. In questi tessuti la proliferazione delle cellule negli strati profondi procede allo stesso ritmo della morte delle cellule ormai senescenti degli strati superficiali. Come si è già accennato, i due processi (proliferazione e morte cellulare) devono necessariamente bilanciarsi tra loro in ogni tessuto e in ogni momento della vita dell’individuo, dal momento che un loro squilibrio potrebbe causare una riduzione oppure un aumento del numero di cellule, compromettendo in un caso o nell’altro la funzione del tessuto stesso.
Regolatori dell’apoptosi
Un ruolo chiave è svolto dai fattori di crescita la cui funzione non è soltanto quella di stimolare la proliferazione e il differenziamento cellulare, ma anche quella di fungere da veri e propri fattori di sopravvivenza, impedendo costantemente l’attivazione del programma di morte cellulare.
Dopo la nascita, quantità di fattori di crescita proporzionate al bisogno consentono di coordinare, in modo molto rapido, la proliferazione e il differenziamento di alcune cellule staminali alle necessità dell’organismo. Per es., i precursori staminali delle cellule del sangue sono prodotti nel midollo osseo in numero maggiore al fabbisogno; molti di essi, se non sono utilizzati, vanno incontro ad apoptosi. Se si verificano infezioni o emorragie, tuttavia, sarà sufficiente che l’organismo produca una quantità superiore al normale di un dato fattore di crescita o di più fattori di crescita per indurre sopravvivenza, proliferazione e differenti specializzazioni di un numero di cellule superiore al fabbisogno basale.
I fattori di crescita e di sopravvivenza possono essere di varia natura. Alcuni sono proteine e sono raggruppati in famiglie strutturalmente simili. Sono note, per es., le famiglie del TGF-β (Transforming Growth Factor-β), le neurotrofine NT3, NT4, NGF (Nerve Growth Factor), BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor) e l’FGF (Fibroblast Growth Factor). Anche gli ormoni possono svolgere questa funzione: le cellule della ghiandola mammaria, alla fine della lattazione, regrediscono per apoptosi quando viene a cessare l’azione dell’ormone prolattina e le cellule metastatiche di alcuni tumori prostatici sopravvivono grazie agli ormoni androgeni.
Per altri tipi cellulari il fattore di sopravvivenza è rappresentato dal contatto cellula-cellula. Il segnale di sopravvivenza è mediato da una proteina della famiglia FAK (Focal Adhesion Kinase) e coinvolge zone specializzate della membrana cellulare in rapporto con il citoscheletro. Se il contatto con le cellule vicine viene perso, queste cellule ‘prive di casa, di radici’ o potenzialmente metastatiche attuano il suicidio cellulare per preservare l’integrità del sistema.
La morte cellulare programmata viene, inoltre, attivata ogni qualvolta si verificano proliferazioni incontrollate. Dal sistema di difesa dell’organismo, a riguardo, arriva uno degli esempi più eclatanti. L’apo-ptosi è molto importante sia alla fine della risposta immunitaria, quando devono essere eliminati i cloni linfocitari indotti e utilizzati per contrastare il pericolo, sia nel meccanismo dell’immunità cellulo-mediata, allorquando le cellule citotossiche inducono il suicidio nelle cellule infettate.
Molte sostanze tossiche, farmaci (tra cui numerosi antitumorali), radicali liberi dell’ossigeno e radiazioni ionizzanti che causano danni al DNA o gravi stress al reticolo endoplasmatico o ai mitocondri, qualora il danno indotto superi una certa soglia, possono provocare la morte per apoptosi della cellula colpita che verrebbe così eliminata al fine di impedire la permanenza nell’organismo di cellule potenzialmente in grado di trasformarsi in cellule cancerose.
In maniera simile, anche nelle cellule infettate da un virus verrebbe indotta l’apoptosi per difendere l’organismo dalla moltiplicazione virale. Questo meccanismo può però causare una notevole e grave riduzione di alcune importanti popolazioni cellulari, come nel caso di infezione da HIV (Human Immunodeficiency Virus), nella quale le cellule colpite sono un tipo di linfociti implicati nella difesa immunitaria.
Data la sua importanza in diversi processi biologici, la morte cellulare programmata è un fenomeno molto diffuso in tutti i tipi di metazoi come i mammiferi, gli insetti, i nematodi e svolge un ruolo chiave anche nella biologia delle piante e dei funghi. Numerose osservazioni dimostrano che è parte essenziale e importante dell’intero ciclo vitale anche di eucarioti unicellulari, come il tripanosoma, e dei batteri che, in condizioni di deficit di nutrienti o perché infettati da un virus, vanno incontro a morte cellulare programmata preservando così la popolazione batterica.
Caratteristiche morfologiche dell’apoptosi
La morte cellulare programmata si realizza nell’interesse e a vantaggio dell’organismo nel suo insieme e quindi essa non deve, in primo luogo, arrecare danno. L’organismo, durante lo sviluppo e la vita adulta, riesce a sopravvivere a questi episodi di distruzione nonostante grandi e complesse strutture siano demolite per costruirne di nuove. Per questo scopo viene coinvolta una particolare squadra di proteine enzimatiche che, grazie alla specializzazione dei singoli elementi, affronta ogni fase della demolizione in maniera precisa ed efficace. A demolizione avvenuta, i detriti cellulari sono rimossi rapidamente dalle cellule vicine o da ‘spazzini specializzati’ (le cellule fagocitarie) e nuove strutture prendono il posto delle vecchie in un arco di tempo relativamente breve.
La cellula che va incontro ad apoptosi diventa rotonda e perde i contatti con le cellule vicine, in maniera analoga a quanto avviene durante la divisione cellulare (mitosi). Segue un periodo più o meno lungo in cui la membrana plasmatica subisce rimaneggiamenti dinamici con formazione di estroflessioni che si trasformano poi in piccole vescicole chiamate corpi apoptotici. All’interno della cellula, una delle caratteristiche morfologiche più impressionanti è la condensazione del nucleo e la sua frammentazione in piccoli pezzi, un evento molto caratteristico che, in passato, veniva utilizzato come indicatore dell’apo-ptosi. Altre caratteristiche tipiche sono il taglio del DNA in piccoli frammenti multipli di 200 bp (paia di basi), la frammentazione dell’apparato del Golgi e del reticolo endoplasmico e il passaggio di diverse proteine dai mitocondri al citoplasma. Quest’ultimo evento è di estrema importanza perché influenza la modalità attraverso cui la demolizione della cellula ha inizio: alcune proteine rilasciate dalla membrana interna del mitocondrio organizzano, infatti, la piattaforma da cui partirà la squadra proteica preposta alla demolizione della cellula. Le cellule che vanno incontro ad apoptosi sono differenti da quelle vicine, sane, e come tali sono riconosciute dalle cellule fagocitarie che le inglobano e le digeriscono. Tale tipo di cellule ha come compito principale quello di riconoscere e rimuovere entità estranee all’organismo nel quale operano. Pertanto, le cellule apoptotiche devono acquisire il segnale per essere eliminate, anche se prima facevano parte dell’organismo nel quale si sono formate. A tal fine subiscono drammatiche perturbazioni della loro architettura esterna, inviano segnali che attirano l’attenzione delle cellule fagocitarie, favoriscono l’efficienza della rimozione e, allo stesso tempo, minimizzano l’attivazione del sistema immunitario (Lauber, Bohn, Kröber et al. 2003).
Apoptosi versus necrosi
Prima di addentrarci nella descrizione dei meccanismi attraverso cui la cellula apoptotica viene demolita, proviamo a immaginare che cosa potrebbe succedere se fallisse questo meccanismo di morte e di rimozione così sofisticato, controllato e pulito. Il modo più frequente e alternativo alla morte cellulare per apoptosi è la necrosi. Questo tipo di morte può far seguito a un evento traumatico o di altra natura ed è una modalità di decesso non controllata. Essa è accompagnata da una rapida perdita dell’integrità della membrana e dal rilascio nello spazio extracellulare del contenuto intracitoplasmatico. Le cellule necrotiche innescano una reazione infiammatoria da parte dei neutrofili, dei macrofagi e di altre cellule del sistema immune attraverso la liberazione di alcune molecole note come DAMPs (Danger-Associated Molecular Patterns). Le DAMPs, a loro volta, stimolano uno o più sistemi recettoriali presenti sulle membrane dei macrofagi, delle cellule NK (Natural Killer) e delle cellule dendritiche le quali, a loro volta, hanno la proprietà di attivare le cellule T e di dare inizio alla risposta immunitaria. In sostanza, la presenza di cellule necrotiche viene in genere interpretata dal sistema di difesa come dannosa e rappresenta, perciò, un segnale di innesco della sua risposta che, tuttavia, è energicamente costosa e impegnativa in termini sia di elementi coinvolti sia di tempo richiesto. Può provocare, inoltre, la morte di altre popolazioni cellulari e causare la persistenza ed eventualmente l’esacerbazione del danno iniziale.
Il coinvolgimento del sistema di difesa immunitario è dovuto al fatto che molti agenti patogeni causano necrosi e, d’altra parte, molti danni che causano necrosi (ferite) facilitano l’infezione. Sono note diverse molecole, denominate allarmine, le quali, rilasciate dalle cellule necrotiche, inducono una reazione infiammatoria. Tra queste ricordiamo le HMGB1 (High Mobility Group protein B1), l’acido urico, alcune proteine indotte dallo stress o da shock termico e il DNA genomico. Tutte queste molecole sono accomunate dal fatto che normalmente non sono presenti nello spazio extracellulare e quindi sono inaccessibili al sistema di sorveglianza immunitario, il quale è sempre preposto a riconoscere tutto ciò che è estraneo all’organismo. Pertanto, la loro comparsa in questo spazio indica che si è verificata una ferita nella normale organizzazione dei tessuti (fig. 1).
Le cellule apoptotiche presentano alterazioni della membrana che fungono da segnale per una rapida eliminazione: la fosfatidilserina, che normalmente si trova sul versante interno della membrana, viene esposta sulla superficie ed è riconosciuta da uno specifico recettore presente sulla membrana dei fagociti. La calreticulina, una proteina associata al reticolo endoplasmico che viene esposta sulla membrana dalle cellule morenti, può essere legata dal recettore CD91 presente sui fagociti, mentre le LDL (Low Density Lipoprotein) ossidate sono riconosciute dai recettori SR-A e LOX-1. Altre molecole esposte sulla superficie delle cellule apoptotiche sono la molecola di adesione intracellulare-3 (ICAM3) e l’annessina 1 (fig. 2).
Questo tipo di morte in genere non attira l’attenzione delle cellule del sistema di difesa. Uno dei maggiori vantaggi della morte per apoptosi, pertanto, è di permettere all’organismo di non risentirne, poiché essa avviene senza che le molecole nascoste vengano esposte evitando così una risposta immune non voluta. Di fatto, le cellule apoptotiche non rilasciano, in genere, allarmine, a meno che il numero di tali cellule non superi la capacità dei fagociti di rimuoverle.
Meccanismi molecolari dei segnali apoptotici
La maggior parte delle nostre conoscenze sulla morte cellulare deriva dagli studi genetici condotti sul verme Caenorhabditis elegans. Tale organismo modello presenta la peculiarità di essere trasparente sia allo stadio embrionale sia a quello adulto. Durante il suo sviluppo vengono generate 1090 cellule somatiche di cui 131 sono eliminate per apoptosi. Gli studiosi hanno potuto facilmente osservare e seguire, al microscopio, il destino di queste 131 cellule e isolare diversi mutanti nei quali erano presenti alterazioni soltanto a carico di tre geni denominati Ced-3, Ced-4 e Ced-9 (Cell death abnormal o morte cellulare anomala). Le corrispondenti proteine Ced-3, Ced-4 e Ced-9 esercitano un ruolo fondamentale nella decisione tra la vita e la morte. Nelle mutazioni che impediscono la produzione di Ced-3 e Ced-4 non si ha morte cellulare durante lo sviluppo, i neonati vitali nascono con 131 cellule in più, per cui la presenza di tali proteine è necessaria per l’esecuzione della morte cellulare durante lo sviluppo. Nei mutanti che non producono Ced-9 si verifica l’autodistruzione precoce di tutte le cellule dell’embrione; questa proteina è, perciò, necessaria per la sopravvivenza di tutte le cellule dell’embrione. Quando tutti e tre i geni sono mutati le corrispondenti proteine Ced-3, Ced-4 e Ced-9 non vengono prodotte e nessuna cellula muore durante lo sviluppo. La presenza di Ced-9 non è intrinsecamente necessaria alla vita delle cellule, tuttavia è indispensabile per la loro sopravvivenza nella misura in cui riesce a impedire che Ced-3 e Ced-4 inneschino il processo di morte.
I nostri geni forniscono le informazioni per la produzione di proteine con funzione di distruttori (o proapoptotiche) e di altre con funzione di protettori (o antiapoptotiche). Dal loro rapporto relativo, che in corso di apoptosi si sbilancia, dipenderà il destino di ogni singola cellula. Affinché si realizzi il processo di morte, le proteine proapo-ptotiche devono essere libere di esercitare il loro potere distruttivo e questo è possibile solo quando le proteine antiapoptotiche non sono in grado di neutralizzarne l’azione. Si può affermare che il suicidio si realizza per difetto, quando cioè viene a mancare o è ridotta l’azione del protettore. Secondo la prospettiva suggerita da Jean Claude Ameisen (1999) la vita, per ogni cellula dell’embrione di Caenorhabditis elegans, può essere vista come la manifestazione della capacità di reprimere il suicidio.
Tra gli eventi più precoci nell’attivazione del suicidio cellulare in Caenorhabditis elegans figura l’attivazione di Ced-3, una cisteinproteasi che rappresenta il vero esecutore dell’autodistruzione. Ced-3 è incapace di demolire da sola la cellula: grazie al legame con Ced-4, Ced-3 si trasforma in una molecola dal po-tenziale distruttivo enorme. Ced-4 è anche in grado di interagire con Ced-9: più esattamente quando Ced-4 è legata a Ced-9 non può attivare Ced-3. Di conseguenza i rapporti relativi tra Ced-3 e Ced-9 e le loro possibilità di comunicazione risultano condizionate da Ced-4, una sorta di negoziatore nella scelta tra la vita e la morte (Ameisen 1999).
L’attivazione della morte cellulare programmata può essere il risultato di tre circostanze diverse: a) un aumento dei segnali che favoriscono l’attivazione dell’esecutore; b) un aumento dei segnali che favoriscono la sintesi dell’attivatore; c) una diminuzione dei segnali che regolano la sintesi o l’azione del protettore.
Occorre domandarsi, a questo punto, per quale motivo Ced-9 diventi incapace di tenere a bada l’attivatore e quali siano i segnali che portano a una riduzione del protettore Ced-9. In Caenorhabditis elegans un’altra proteina, molto simile a Ced-9, interviene nel controllo della vita e della morte: Egl-1 (Egg layer defective-1). Essa fa il suo ingresso in corso di apoptosi, legando e incatenando Ced-9 e impedendole, così, di bloccare l’attivato-re. Quindi il protettore deve, per im-pedire il suicidio, ‘lottare’ sia contro l’attivatore sia contro il suo simile Egl-1. Un aspetto importante che emerge da tale tipo di comunicazione molecolare è che la funzione esercitata da una determinata proteina dipende criticamente dal controllo e, quindi, dalla presenza o dall’assenza di altre molecole proteiche. Ced-3 può diventare un esecutore del processo di morte soltanto se è presente l’attivatore, cioè Ced-4. In breve, come illustrato nella figura 3, l’attività del complesso Ced-3/Ced-4 è regolata dall’inibitore dell’apo-ptosi Ced-9 e dall’induttore dell’apoptosi Egl-1 (Ameisen 1999; Lettre, Hengartner 2006).
Studi successivi condotti nei mammiferi e nel moscerino della frutta Drosophila melanogaster hanno permesso di identificare le controparti dei geni di Caenorhabditis elegans in altri organismi più complessi, e hanno stabilito che il processo di apoptosi è soggetto a una regolazione a più stadi e che gli elementi base della macchina distruttiva sono conservati in tutte le specie animali, uomo compreso (tab. 2).
Da questi studi è emerso che Ced-3 è un membro della famiglia delle caspasi, gli enzimi che demoliscono la cellula, mentre Ced-4, corrispondente al fattore Apaf-1 (Apoptotic Protease Activating Factor-1) dei mammiferi, rappresenta il centro della piattaforma di attivazione delle caspasi. Sia Egl-1 sia Ced-9 sono fattori appartenenti, nei mammiferi, alla famiglia delle proteine Bcl-2 con funzione rispettivamente pro- e antiapoptotica e svolgono un ruolo cruciale come modulatori del processo apoptotico.
Attivazione delle caspasi
Il lavoro svolto dalle caspasi è stato paragonato a quello di una piccola carica esplosiva applicata in punti strategici per indebolire e distruggere l’impalcatura di diverse strutture cellulari. Sono presenti all’interno delle cellule come precursori inattivi, chiamati pro-caspasi, che devono essere attivati. La cellula possiede due classi di caspasi: le caspasi iniziatrici (2, 8, 9 e 10) e le caspasi esecutrici (3, 6 e 7). Nella loro sequenza è presente un dominio N-terminale seguito da una subunità grande e da una piccola unite da una sequenza link. L’attivazione delle caspasi iniziatrici ed esecutrici (fig. 4) richiede la rimozione del loro pre-dominio e la formazione di dimeri. Le caspasi iniziatrici contengono un pre-dominio di attivazione o di legame (in giallo nella figura), una subunità grande (arancione) e una piccola (verde chiaro). Le caspasi iniziatrici attivate hanno attività autocatalitica, sono cioè in grado di autoattivarsi; attivano inoltre le caspasi esecutrici che possiedono un piccolo pre-dominio (az-zurro), una subunità grande (viola) e una piccola (verde). Le caspasi esecutrici sono responsabili della degradazione di diversi costituenti cellulari e mediano molti fenomeni della morte per apoptosi. Nelle caspasi iniziatrici il dominio N-terminale è più grande e contiene, nel caso delle procaspasi-8 e 10, moduli DED (Death Effector Domain) o, nel caso delle procaspa-si-9 e 2, un modulo CARD (Caspase Recruitment Domain). Attraverso questi moduli, le caspasi iniziatrici interagiscono e comunicano con altre molecole, dotate di moduli simili, che fanno parte di complessi multiproteici, mediatori del segnale di morte. In questi complessi esse vengono attivate per poi successivamente mettere in moto le caspasi esecutrici. Nei mammiferi sono note tre vie che portano all’attivazione delle caspasi esecutrici responsabili della maggior parte della degradazione proteolitica che ha luogo durante la fase di demolizione, mentre l’attivazione delle caspasi iniziatrici varia secondo la via innescata.
Via estrinseca o di attivazione recettoriale
Tale via prevede che segnali esterni alla cellula (denominati ligandi) inneschino, tramite il legame a ‘recettori di morte’ presenti sulla membrana, il suicidio della cellula. Sono stati identificati più di cinque recettori di membrana (Fas/APO1/CD95, TNF, TRIAL) che si trovano già assemblati pronti a legare il loro ligando, che può essere una molecola solubile o una proteina presente sulla superficie delle cellule che entrano in contatto con la cellula destinata a morire. Questo tipo di morte – paragonato a quella di Socrate condannato a bere la cicuta – è utilizzato nel sistema immunitario per mantenere l’omeostasi dei linfociti T ed eliminare i linfociti potenzialmente autoreattivi, cioè quelli che potrebbero scatenare reazioni contro lo stesso organismo nel quale operano. Viene anche sfruttato dalle cellule tumorali come arma per indurre l’apoptosi, e quindi l’eliminazione, nei linfociti che infiltrano il tessuto tumorale per circoscriverlo.
Il mediatore solubile legato alla membrana, il ligando Fas (FasL) prodotto dalle cellule del sistema immunitario, si lega al suo corrispettivo recettore sulla membrana dei linfociti T innescando un segnale di morte che si propaga, coinvolgendo diverse proteine, all’interno della cellula. In particolare, alcune molecole adattattrici denominate FADD (Fas-Associated Death Domain) legano, attraverso interazioni di tipo omeotipico, con un dominio, la porzione intracitoplasmatica del recettore Fas e, con un altro dominio, diverse molecole di caspasi-8. Il ponte che si viene a creare tra recettore Fas e caspasi-8 permette a questo enzima di autoattivarsi e di innescare, a sua volta, l’attivazione delle caspasi esecutrici 3 e 7. Questa cascata di eventi culmina con la proteolisi di diversi substrati e con la morte della cellula (fig. 5).
Via intrinseca di attivazione
Tale via ha come protagonista il mitocondrio, un piccolo organello citoplasmatico che funziona come centrale energetica. Diversi stimoli che causano danno o stress cellulare (come le radiazioni, le sostanze chimiche, le infezioni virali, la deprivazione di fattori di crescita) aumentano la permeabilità del mitocondrio e causano la liberazione di molecole proapoptotiche nel citoplasma. La mancanza di fattori di crescita o di altre molecole prosopravvivenza provoca l’attivazione di uno o più membri della famiglia delle proteine contenenti il dominio BH3 e dotate di funzione proapoptotica. Queste proteine fungono da sensori di differenti stimoli apoptotici. La loro attività viene costantemente controllata e inibita da altri membri della stessa famiglia, ad azione antiapoptotica, appartenenti alla famiglia di Bcl-2. Se la capacità dei protettori di bloccare gli esecutori non è sufficiente, gli esecutori si aggregano sulla membrana esterna dei mitocondri alterandone la permeabilità. Diverse proteine, fra le quali il citocromo C, fuoriescono dal mitocondrio e raggiungono il citoplasma. Il citocromo C innesca la formazione dell’apoptosoma, una sorta di organello dall’elegante struttura geometrica formato da sette molecole di Apaf-1 (con funzione di adattatrici) e da un numero uguale di omodimeri di caspasi-9. Nel complesso, comprendente anche una molecola di citocromo C e una di adenosintrifosfato (ATP), l’attivazione della caspasi-9 propaga la cascata di attivazione delle caspasi.
In alcuni casi la via estrinseca può interagire con quella intrinseca attraverso il taglio da parte della caspasi-8 del fattore Bid (BH3 Interacting Domain death agonist), appartenente alla famiglia di Bcl-2. Il fattore Bid troncato può promuovere il rilascio di citocromo C dal mitocondrio e partecipare così alla formazione dell’apoptosoma.
Esiste anche una terza via di attivazione dell’apoptosi che prevede il rilascio da parte dei linfociti T citotossici o delle cellule NK di proteine note come granzima B e perforine. Le perforine si aggregano sulla membrana delle cellule bersaglio, formando un canale che permette l’introduzione in tali cellule (in genere infettate da virus o cellule potenzialmente dannose) di granzima B, una sorta di caspasi iniziatrice già pronta ad attivare le caspasi-3 e 7 e dare così inizio all’apoptosi (fig. 5).
Fase di non ritorno
Quando la cellula prende la via di attivazione delle caspasi il processo diventa irreversibile. Le cellule non possiedono enzimi in grado di riparare le proteine, per cui il loro taglio si traduce nella perdita della loro funzione e/o nell’acquisizione di nuove funzioni che si rivelano dannose per la cellula.
Fino a oggi sono state identificate più di 400 proteine che in corso di apoptosi vengono demolite dalle caspasi. Molti dei tagli operati dalle caspasi sono responsabili delle impressionanti modificazioni dell’architettura cellulare. La degradazione di diversi componenti del citoscheletro di actina e/o di tubulina è verosimilmente la causa dell’arrotondamento e della retrazione della cellula che si osserva negli stadi precoci dell’apoptosi. Uno dei substrati delle caspasi implicato in questo processo è la chinasi ROCK1. La caspasi rimuove l’estremità C-terminale di questa proteina; di conseguenza la chinasi viene attivata e fosforila la catena leggera della miosina, una proteina che interagisce con l’actina. Il risultato di questa fosforilazione è la contrazione dei filamenti di actina a ridosso della membrana plasmatica che causa lo spostamento del citoplasma in altre zone e la formazione di vescicole nelle zone in cui il citoscheletro è divenuto più debole. Il citoscheletro di actina interverrebbe anche nella rimozione delle cellule apoptotiche dagli epiteli. Negli stadi precoci dell’apoptosi, la cellula apoptotica invia segnali alle cellule vicine che organizzerebbero il loro citoscheletro di actina in modo da formare un cappio con il quale ancorano ed estrudono la cellula apoptotica. La contrazione del citoscheletro di actina avrebbe anche ripercussioni sulla membrana che avvolge il nucleo la quale verrebbe indebolita sia dallo stiramento eccessivo causato dai filamenti di actina contratti sia dall’azione delle caspasi che tagliano le laminine, le proteine principali dell’involucro nucleare. Il nucleo va incontro a frammentazione e i piccoli pezzi si disperdono nella cellula venendo poi inglobati nei corpi apoptotici. Ignoriamo perché il nucleo sia frammentato e si disperda nel corpo cellulare. Questo fenomeno, comune nei mammiferi, non si verifica invece in Caenorhabditis elegans. Si ritiene che la frammentazione del nucleo e la digestione del DNA per opera di un enzima chiamato CAD (Caspase-Activated Dnase) faciliti la rimozione e la digestione del DNA contenuto nella cromatina da parte dei macrofagi. Poiché il DNA può provocare un’attivazione anomala del sistema immunitario, deve essere rimosso. Per es., topi incapaci di produrre la nucleasi che degrada il DNA nella cellula apoptotica o nel fagocita, innescano una risposta immune innata che provoca uno sviluppo difettoso del timo. Molti pazienti affetti da severe malattie autoimmuni come il lupus eritematoso sistemico hanno elevati livelli di anticorpi anti-DNA. Gli enzimi che tagliano il DNA sono presenti nelle nostre cellule ma la loro azione, in assenza di stimoli apoptotici, è repressa da inibitori specifici (ICAD, inibitore di CAD). Quando le caspasi vengono attivate uno dei loro bersagli è proprio ICAD.
Meccanismi regolatori del segnale apoptotico
Come accennato in precedenza, tutte le cellule di un organismo multicellulare sono geneticamente programmate all’autodistruzione e potrebbero morire istantaneamente se il programma di morte non fosse continuamente represso dai segnali di sopravvivenza inviati da altre cellule dell’organismo. Tali segnali, veicolati da molecole come i fattori di crescita, gli ormoni o sostanze nutrienti di varia natura, esplicherebbero la loro azione aumentando l’espressione o l’attività di molecole regolatrici antiapoptotiche in grado di contrastare l’azione di molecole proapoptotiche. Sono note diverse molecole ad azione antiapoptotica e sono stati identificati diversi meccanismi mediante i quali le molecole antiapoptotiche esercitano la loro azione.
Bcl-2 e IAP
L’oncogene Bcl-2 viene espresso ad alti livelli nei linfomi follicolari a causa della traslocazione t(14;18)(q32;q21) che fonde il gene Bcl-2 nella sua regione non tradotta 3′ terminale con sequenze del locus delle immunoglobuline. A differenza della maggior parte degli oncogeni, Bcl-2 non regola direttamente la proliferazione cellulare, bensì è preposto al controllo dell’apoptosi. Quando viene sovraespresso nei linfociti B, rende le cellule resistenti alla morte cellulare scatenata dalla mancanza di IL-3.
Nei mammiferi sono note diverse proteine appartenenti alla famiglia di Bcl-2 raggruppate in tre classi. Esse condividono i domini di omologia BH (Bcl-2 Homology). Sono noti quattro domini di omologia denominati BH1, BH2, BH3 e BH4. Una classe comprende proteine antiapoptotiche che possiedono i quattro domini BH. Una seconda classe comprende agenti in grado di promuovere l’apoptosi e dotati dei domini BH1, BH2 e BH3. Una terza classe comprende fattori proapoptotici, scoperti di recente, che presentano solo il dominio BH3, sufficiente e necessario per legare e regolare le proteine antiapoptotiche. Le proteine della famiglia Bcl-2 possono controllare l’apoptosi in due modi: direttamente, regolando l’attivazione delle caspasi, indirettamente, svolgendo il ruolo di guardiani dell’integrità dei mitocondri. Nel primo caso, e come riportato in precedenza, l’ortologo di Bcl-2 nel verme, cioè Ced-9, lega Ced-4, una proteina simile ad Apaf-1, impedendole di attivare la caspasi Ced-3, a meno che non intervenga Egl-1, una proteina che possiede solo il dominio BH3, a liberare Ced-4 permettendole di attivare Ced-3.
Nel secondo caso, nei mammiferi, Apaf-1, l’omologo di Ced-4, non interagisce con i membri della famiglia di Bcl-2 ma viene attivato dal citocromo C presente nel citosol a seguito della perdita di integrità del mitocondrio. I membri della famiglia Bcl-2 controllano proprio questa fase essenziale del processo apoptotico, agendo come sentinelle che impediscono ai fattori proapoptotici di danneggiare il mitocondrio e di favorire così la liberazione del citocromo C.
In qual modo i membri proapoptotici della famiglia di Bcl-2 intaccano la struttura del mitocondrio? Molto di ciò che sappiamo deriva dagli studi condotti su Bax (Bcl-2 Associated X protein) e Bak (Bcl-2 An-tagonist/Killer), due fattori proapoptotici la cui mancanza rende le cellule insensibili a diversi stimoli apo-ptotici. Nelle cellule essi sono normalmente presenti nel citoplasma come monomeri, ma durante l’apo-ptosi cambiano conformazione e si integrano nella membrana esterna del mitocondrio e qui si aggregano tra loro. Si ipotizza che gli aggregati di Bax e di Bak alterino la permeabilità del mitocondrio formando essi stessi un canale oppure interagendo con le proteine che fanno parte dei normali pori della membrana esterna del mitocondrio. Al contrario, i membri antiapoptotici della famiglia di Bcl-2 sequestrano i membri proapoptotici legandosi al loro dominio BH3 e impedendo loro di formare oligomeri sul mitocondrio. La sovraespressione di Bcl-2 o di Bcl-XL sia nelle cellule sia negli animali previene l’apoptosi indotta da svariati stimoli impedendo la formazione del poro sulla membrana del mitocondrio, la fuoriuscita del citocromo C e quindi l’attivazione delle caspasi.
Si ritiene che i membri della terza classe come Bad (Bcl-2 Antagonist of cell Death) o Bid regolino in maniera molto fine l’equilibrio di omo- o eterodimeri tra proteine proapoptotiche (Bax e Bak) e antiapo-ptotiche (Bcl-2/Bcl-XL).
I membri proapoptotici che possiedono un solo dominio BH3 sono tanti, e si ritiene che ogni singolo elemento possa essere coinvolto in specifici segnali di morte. Per es., Noxa e Puma (p53 Upregulated Modulator of Apoptosis) sono indotti da p53, una proteina che è attivata quando il DNA viene danneggiato. La riduzione di fattori di crescita induce invece l’espressione di Hrk e Bim, mentre la perdita dei contatti cellulari utilizza come fattore proapoptotico Bmf.
La cellula è in grado di regolare il processo apo-ptotico anche in altri modi oltre a quelli descritti. In particolare, alcune proteine denominate IAP (Inhibitor of apoptosis proteins) legano le caspasi impedendone l’attivazione. Le IAP sono proteine simili a quelle utilizzate dal baculovirus, un virus che infetta molte specie di insetti, per impedire il suicidio della cellula infettata e quindi favorire la propria replicazione. Ne sono state identificate diverse, ognuna in grado di inibire specifiche caspasi: la survivina, per es., lega e inibisce l’attivazione della caspasi-9. In corso di apoptosi l’azione inibitrice delle IAP sulle caspasi è ostacolata dal legame con proteine, denominate Smac (Second Mitochondria derived Activator of Caspases) oppure DIABLO o Omi, che fuoriescono dal mitocondrio.
La malattia come conseguenza di deficit nel programma apoptotico
Come accennato, nell’adulto ogni secondo vengono prodotte per mitosi centinaia di migliaia di cellule, e un ugual numero muore per apoptosi per mantenere l’omeostasi e il funzionamento dei diversi apparati. Un malfunzionamento del segnale apoptotico può avere un ruolo in varie malattie. Deficit di apoptosi possono causare i tumori (accumulo di cellule, resistenza alla terapia, difetti nella sorveglianza immunitaria), malattie autoimmuni (per incapacità a eliminare i linfociti autoreattivi) e persistenza delle infezioni (per impossibilità a eradicare le cellule infette), mentre un eccesso di apoptosi può contribuire alla sviluppo e/o alla progressione di diverse malattie neurodegenerative come i morbi di Alzheimer e di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la sindrome da immunodeficienza acquisita o AIDS (per deplezione dei linfociti T) e l’ischemia (infarto del miocardio, ictus).
Cancro
Il tumore è una massa in accrescimento che viene originata da una singola cellula, attraverso un processo di riproduzione alterato.
Alla base dell’insorgenza del tumore ci sono modificazioni, chiamate mutazioni, dei geni che regolano l’accrescimento, la riproduzione e la morte della cellula secondo scadenze definite per ogni tipo cellulare. La scoperta dell’apoptosi ha fornito nuove chiavi di interpretazione e di indagine sui possibili meccanismi alla base dello sviluppo, progressione e resistenza alla terapia dei tumori.
Si ipotizza che diversi fattori possano favorire lo sviluppo delle neoplasie inducendo uno stato di ‘instabilità genomica’, una condizione in cui, a causa del malfunzionamento dei meccanismi di riparazione del DNA, le cellule sono più inclini ad accumulare mutazioni e riarrangiamenti del DNA che possono confluire nell’attivazione di un oncogene (gene alterato che causa la proliferazione incontrollata delle cellule) o in quella di un gene soppressore (gene che inibisce la crescita cellulare). La cellula acquisisce un potenziale replicativo illimitato, invade e colonizza altri tessuti, diviene autosufficiente per quanto riguarda i segnali di crescita e, nello stesso tempo, insensibile ai fisiologici meccanismi di controllo cellulare, ossia diviene resistente all’apoptosi.
Le cellule cancerose possono trarre vantaggio da mutazioni che causano una riduzione dei geni pro-apoptotici o un aumento di quelli antiapoptotici. In molti tumori è aumentata la funzione dei fattori antiapoptotici come Bcl-2, mentre la funzione dei geni proapoptotici come Bax e Bak è persa.
In tutti i pazienti affetti da linfoma follicolare si verifica l’attivazione di Bcl-2 a causa di una traslocazione cromosomica che mette questo gene sotto il controllo del promotore delle immunoglobuline. Lo spostamento provoca l’espressione e l’attività della proteina in modo superiore alla norma e lo sviluppo del tumore. Topi transgenici che esprimono Bcl-2 a livelli superiori alla norma sviluppano linfomi. Bcl-2 permette lo sviluppo dei tumori non come un classico oncogene, stimolando la divisione e proliferazione cellulare, ma favorendo la sopravvivenza delle cellule in condizioni in cui altre morirebbero nell’arco di poche ore.
Bcl-2 e Bcl-XL sono sovraespressi anche nei tumori della mammella, del pancreas, dell’ovaio, del colon-retto e in più del 50% dei tumori. Mutazioni del gene Bax, che causano un’interruzione prematura nella sintesi di Bax, sono state descritte nei tumori del colon e del sangue. Mutazioni della caspasi-10 sono state descritte nei linfomi e nelle sindromi linfoproliferative autoimmuni dove si verifica anche una mutazione del gene Fas; elevati livelli della survivina sono presenti nei tumori del colon.
Tra le proteine coinvolte nei processi apoptotici, la più studiata, per il suo ruolo nei tumori umani, è p53 anche conosciuta come proteina tumorale 53. Nei tumori umani p53 è il gene più frequentemente mutato (circa il 55% dei casi). La proteina p53 manca o non funziona nel 55% dei tumori del colon, della mammella, della vescica, del polmone, del cervello, della pelle e del sistema ematopoietico. Nei fumatori il gene per questa proteina è modificato in misura maggiore rispetto ai non fumatori. Il fumo contiene diversi cancerogeni, tra cui il benzopirene che si lega chimicamente al DNA e ne impedisce una lettura corretta. Nel caso di p53 la coppia C:G (citosina:guanina) viene trasformata in T:A (timina:adenina). Ripetute esposizioni ai raggi UV possono produrre la mutazione di p53, in cui la lettera C è sostituita con la T; questa mutazione è frequente in diversi tipi di tumori della pelle. Inoltre un allele di p53 è mutato nella sindrome di Li-Fraumeni, una rara forma di cancro familiare che provoca tumori della mammella e del cervello e aumenta anche la probabilità di sviluppare tumori in altre sedi se l’allele subisce una seconda mutazione.
La proteina p53 è un fattore di trascrizione, l’espressione e l’attività del quale sono indotte da vari agenti che provocano stress cellulare come il danno al DNA, l’ipossia e segnali di proliferazione anomali. Essa fa parte di un meccanismo naturale di protezione, una sorta di controllo di qualità che sorveglia continuamente il DNA. Custodisce cioè l’integrità del nostro patrimonio genetico e quindi della nostra identità. Più esattamente p53 è l’ultimo guardiano del genoma umano perché la cellula non si può trasformare in tumorale, nonostante la presenza di altre mutazioni, fino a che p53 non è mutato.
Quando si verifica un danno al DNA, p53 può regolare due diverse vie: arrestare il ciclo cellulare o indurre apoptosi. Il blocco del ciclo cellulare consente alla cellula di esprimere i geni che intervengono nella riparazione del DNA. Si evita, in questo modo, che mutazioni potenzialmente dannose possano essere ereditate dalle cellule figlie.
Se il danno al DNA è irreparabile o se le cellule proliferano in maniera aberrante, p53 scatena il suicidio cellulare. Il p53 è un fattore di trascrizione che si lega al DNA inducendo l’espressione di vari geni coinvolti nell’apoptosi, in particolare quelli che codificano alcuni recettori di morte, alcuni membri proapoptotici della famiglia di Bcl-2 (come Bax, Puma, Noxa) o alcuni adattatori come Apaf-1. Ricordiamo che la maggior parte delle mutazioni che colpiscono p53 riguarda la porzione della proteina che lega il DNA e quindi la sua capacità di attivare questi geni.
Se p53 è difettosa o insufficiente, le cellule con danno al DNA sopravvivono e proliferano impropriamente predisponendo le cellule alla trasformazione.
La coesistenza di due anomalie sarebbe quindi alla base della genesi del tumore. Il tumore è un’entità formata da cellule soggette non solo a divisioni incontrollate ma divenute anche ‘immortali’ e come tali in grado di generare cellule figlie immortali. Nel linfoma follicolare, la proliferazione cellulare è dovuta a una superproduzione di c-myc, un oncogene che favorisce l’accrescimento delle cellule. La repressione del suicidio cellulare precederebbe la proliferazione incontrollata delle cellule e ciò chiarirebbe perché molte cellule precancerose rimangono dormienti per molti anni prima di esplodere e invadere le strutture vicine. Ciò spiegherebbe anche perché molti oncogeni inducono proliferazione cellulare solo in ambienti ricchi di segnali di sopravvivenza. Se i segnali di sopravvivenza sono scarsi l’attivazione di un oncogene come c-myc viene avvertita dalla cellula come un pericolo a cui si fa fronte scatenando il suicidio cellulare, utilizzando cioè p53 e solo se i ‘componenti della macchina apoptotica’ funzionano a dovere.
Metastasi e resistenza farmacologica
Deficit del processo apoptotico possono fornire una spiegazione su due gravi complicazioni dei tumori, vale a dire lo sviluppo di metastasi e la resistenza al trattamento radio-farmacologico.
Le cellule che risiedono in un dato territorio non tollerano quelle che provengono da altri distretti; una cellula della pelle non potrà essere accettata da una popolazione di cellule epatiche e comunque non troverebbe, nel fegato, i segnali di sopravvivenza che derivano dal proprio ambiente naturale. Il suo destino è pertanto il suicidio. Le cellule metastatiche riescono a sfuggire ai normali meccanismi di ‘controllo geografico’ del territorio. Esse arrivano a invadere altri territori, dove si stabilizzano, si moltiplicano e danno origine a una colonia che progressivamente si sostituisce alla popolazione autoctona. Questo processo è guidato dalla stessa cellula cancerosa che non solo è insensibile ai segnali di morte inviati dalle cellule del sistema immunitario devolute alla rimozione di entità estranee, ma interviene direttamente nella eliminazione delle stesse fornendo loro lo strumento per attuare il suicidio.
I chemioterapici, utilizzati per la cura dei tumori, in maggior parte, agiscono non distruggendo le cellule cancerose ma scatenandone il suicidio; sono farmaci che danneggiano il DNA e che provocano mutazioni genetiche. Grazie a questa loro proprietà essi possono causare alterazioni che inducono l’attivazione di p53 o di qualche altro gene soppressore dei tumori che scatena il suicidio della cellula neoplastica.
Se alcune cellule cancerose resistono alla radioterapia o alla chemioterapia, è possibile che abbiano subito altre mutazioni che le rendono resistenti.
La resistenza alla terapia con farmaci che danneggiano il DNA può presentarsi anche nel caso in cui si ha mutazione di un qualche elemento della macchina apoptotica utilizzato anche quando si attiva l’apoptosi indotta dal danno al DNA. Se un dato tumore presenta una mutazione a carico di Bax, è possibile che l’induzione di p53, dovuta al danno al DNA provocato dai chemioterapici, non sia sufficiente a scatenare il suicidio.
Sono stati avviati studi per l’applicazione della terapia genica a molti tumori nell’uomo. Iniettando direttamente nella zona tumorale un vettore adenovirale è stato possibile trasportare alte concentrazioni di p53 verso le cellule cancerose di pazienti affetti da tumore polmonare o anche tumore al seno. Nella maggior parte dei pazienti si è ottenuta una riduzione notevole delle dimensioni della massa tumorale e della progressione della malattia. La terapia genica con vettori adenovirali che consentono di esprimere alti livelli di Bax promette di avere successo anche nei casi di resistenza al trattamento con p53. Un approccio diverso prevede di attivare i fattori proapoptotici come Bak o Bax, iniettando nelle cellule tumorali peptidi simili al dominio BH3 e in grado di alterare gli equilibri tra fattori della famiglia Bcl-2, a favore appunto dei fattori proapo-ptotici. La riduzione dell’espressione di fattori antiapoptotici come Bcl-2 è stata ottenuta attraverso il silenziamento genico di Bcl-2. Attualmente è in fase di sperimentazione clinica l’oblimersen, un piccolo DNA di 18 nucleotidi che provoca la degradazione dell’RNA (RiboNucleic Acid) che codifica Bcl-2.
Questi stessi approcci sperimentali potrebbero anche essere utili per rendere le cellule tumorali di nuovo suscettibili alla radioterapia e alla chemioterapia.
Malattie neurodegenerative
Il continuo processo di rinnovamento che caratterizza i diversi tessuti non si verifica nel sistema nervoso la cui dotazione di neuroni non è sostanzialmente modificabile. Il controllo del meccanismo che regola la distruzione delle cellule nervose è, pertanto, ancora più importante, dal momento che un suo cattivo funzionamento può provocare danni irreparabili. La replicazione dei neuroni implicherebbe, infatti, un’alterazione dei collegamenti nervosi stabiliti in precedenza. Ogni neurone per potersi dividere, allo scopo di sostituire cellule difettose, dovrebbe staccare i contatti con le altre cellule nervose, modificando così i circuiti che contribuisce a formare e su cui si basano le nostre passate esperienze, le nostre memorie o anche gli schemi motori che ci permettono di eseguire in maniera fine il movimento. Altrettanto devastante è un cervello che perda i suoi neuroni per degenerazione e morte, causando discontinuità nelle reti nervose fino alla loro stessa scomparsa. In realtà, fino a che la perdita è limitata e distribuita in tutti i distretti, come si verifica nel corso dell’invecchiamento, la diminuzione dei neuroni è compensata dalla plasticità di cui sono dotati i circuiti neuronali. Ma se la perdita diviene imponente e colpisce particolari distretti come quelli che presiedono alla memoria o al controllo del movimento, allora il fenomeno acquista le caratteristiche della demenza, come nella malattia di Alzheimer e nell’aterosclerosi, o dei disturbi del movimento, come nelle malattie di Parkinson e di Huntington, o della paralisi nella sclerosi laterale amiotrofica.
Nonostante queste malattie siano dovute a cause diverse, il meccanismo che conduce a morte le cellule nervose è sostanzialmente simile. Dato che nel periodo adulto la sopravvivenza dei neuroni dipende dalla espressione di geni antiapoptotici come Bcl-2, si è ipotizzato che il sistema nervoso sia un tessuto particolarmente vulnerabile ai difetti dell’apoptosi. Tale ipotesi è avvalorata da numerose evidenze sperimentali che documentano un coinvolgimento delle caspasi nella progressione di diverse malattie neurologiche, anche se non è ancora chiaro quale causa scateni la loro attivazione. Nelle malattie neurologiche acute la morte dei neuroni avviene sia per necrosi sia per apoptosi, mentre nelle forme croniche il contributo più importante alla perdita delle cellule nervose è dato da meccanismi di morte di tipo programmato. Una prima grossolana differenza tra malattia acuta e cronica è data dall’entità dello stimolo nocivo. Uno stimolo molto intenso, nelle malattie acute, causa sia necrosi sia apoptosi, mentre uno più lieve dà inizio, nelle malattie croniche, a un processo apoptotico. Un esempio di questa duplicità di risposta si riscontra nel caso di ictus cerebrali.
L’ictus è una lesione di una parte del cervello provocata dall’interruzione dell’apporto di sangue, per occlusione o rottura di un vaso sanguigno, che provoca la morte delle cellule nervose, sia per necrosi sia per apoptosi. Più esattamente, sono soggette a necrosi le cellule della parte centrale della lesione, quella in cui l’ipossia, cioè la riduzione di ossigeno e quindi di energia, è più marcata. Le cellule della zona limitrofa (o zona di penombra), invece, nutrite da vasi collaterali, sopravvivono inizialmente al danno. Con il tempo, comunque, raggiungono un livello critico di deficit energetico che porta all’attivazione delle caspasi e quindi a morte per apoptosi. L’ictus, infatti, ha rappresentato la prima malattia neurologica in cui è stata documentata l’attivazione delle caspasi. Nei ratti, l’inibizione della caspasi-1 limita la morte dei neuroni e i deficit di funzione conseguenti al danno ischemico indotto sperimentalmente. Inoltre, i topi che non esprimono la caspasi-1 o 11 sono più protetti dall’ischemia rispetto ai topi normali, verosimilmente perché il blocco dell’apoptosi aumenta il periodo di sopravvivenza delle cellule della zona di penombra.
Le differenti malattie neurodegenerative croniche sono caratterizzate da sintomi specifici dovuti, in parte, al fatto che le popolazioni neuronali colpite sono differenti. Tuttavia, esse presentano tratti molecolari fra i quali, quello più comune, è l’accumulo progressivo, nelle aree colpite, di aggregati proteici costituiti principalmente da una singola proteina (o da forme modificate di questa) che, a sua volta, contribuisce a danneggiare i neuroni sani. Di queste malattie conosciamo le proteine associate al danno come la proteina tau e la β-amiloide nel morbo di Alzheimer (mdA), la sinucleina nella malattia di Parkinson, la proteina SOD 1 (superossidodismutasi) nella sclerosi laterale amiotrofica e l’huntingtina nella malattia di Huntington.
Non è chiaro come questo meccanismo di morte possa innescarsi durante la vita adulta. Solo in una piccola percentuale dei casi la causa è attribuibile alla mutazione di uno o più geni. La mutazione genetica produce una proteina con funzioni alterate che risultano deleterie per le cellule portatrici. La malattia di Hunting-ton, per es., è una malattia genetica, autosomica dominante caratterizzata da perdita dei neuroni del neostriato e della corteccia. Esordisce intorno ai 40-50 anni e porta a morte i pazienti colpiti nell’arco di 10-15 anni. Non esistono cure per questa malattia denominata anche corea di Huntington. Il termine corea, introdotto per la prima volta da Paracelso, deriva dal greco choréia («danza»), richiamando i movimenti involontari che, insieme ai cambiamenti della personalità e a una progressiva demenza, caratterizzano questa malattia.
La causa della malattia è la mutazione del gene IT-15 (Interesting Transcript-15), che codifica la hunting-tina. IT-15 contiene all’estremità una serie di ripetizioni CAG (citosina, adenina, guanina), la tripletta che codifica l’amminoacido glutammina. Queste ripetizioni sono, in almeno una copia del gene delle persone malate, superiori a 40, ossia l’huntingtina è più lunga del normale. Non si è ancora scoperto quale funzione abbia questa proteina quando viene prodotta dal gene sano; sappiamo comunque che quando è troppo lunga danneggia i neuroni causandone la morte. La scoperta del gene mutato ha consentito di riprodurre in organismi modello questo tipo di malattia. Nei topi la morte dei neuroni presenta caratteristiche sia dell’apoptosi sia di un altro tipo di morte cellulare che non ha le caratteristiche né dell’apoptosi né della necrosi. Uno degli eventi più precoci, in assenza cioè di sintomi, è l’aumento della trascrizione del gene della caspasi-1 a seguito della traslocazione nel nucleo di un frammento N-terminale della proteina anomala. Ciò provoca l’aumento della trascrizione del gene della caspasi-3 e l’attivazione della caspasi-3 nonché l’attivazione di altre caspasi e il rilascio del citocromo C. Con il tempo, si generano sempre più frammenti tossici che continuano ad aggregarsi e accumularsi nel nucleo delle cellule colpite che, contemporaneamente, subiscono gli effetti della perdita della proteina nativa. Diverse osservazioni, infatti, suggeriscono che la sofferenza dei neuroni è il risultato sia del venire meno dell’azione della huntingtina sia della tossicità dei frammenti che si producono per opera delle caspasi-1 e 3. L’attivazione delle caspasi causa inoltre la riduzione di alcuni importanti recettori dei neurotrasmettitori, alterando pertanto la fisiologica risposta ai mediatori chimici utilizzati dalle cellule nervose per comunicare (fig. 6).
Studi in vitro e in modelli animali hanno dimostrato che anche le mutazioni di proteine legate al mdA (proteina precursore dell’amiloide, la presenilina, la proteina tau) o alla demenza frontotemporale (la proteina tau) o alla sclerosi laterale amiotrofica (la proteina SOD) sono in grado di indurre apoptosi nelle cellule portatrici. In questi casi però l’apoptosi sarebbe solo una modalità di morte delle cellule danneggiate dalle proteine anomale.
Più raramente alterazioni dell’apoptosi avrebbero un ruolo primitivo nella patogenesi di queste malattie. Evidenza di un tale ruolo si ha solo in alcuni casi di atrofia muscolare spinale, una malattia dovuta alla degenerazione delle cellule delle corna anteriori del midollo spinale, deputate all’innervazione dei muscoli volontari usati per attività quali camminare, controllare il collo e la testa e deglutire. La malattia è causata da delezioni di lunghezza variabile del gene che codifica SMN (Survival Motor Neuron), proteina che agisce principalmente nel nucleo delle cellule nervose. Le delezioni possono portare anche a perdita della proteina inibitrice dell’apoptosi neuronale IAP che, abbiamo visto, blocca l’attivazione delle caspasi. Quando la delezione genica include anche il gene che codifica la IAP, la malattia si presenta in forma più grave.
Mentre la mutazione genetica può spiegare le forme ereditarie di queste malattie, rimane più difficile capire come si sviluppano e insorgono le forme non legate a trasmissioni genetiche e che rappresentano il maggior numero dei casi. Sono stati chiamati in causa diversi fattori di rischio: l’invecchiamento, alcuni inquinanti ambientali e malattie virali lente. Comunque ancora oggi tale aspetto rimane irrisolto e difficile da risolvere anche perché manca, per queste malattie, la possibilità di riprodurre gli stessi sintomi in animali da utilizzare come modelli di studio.
Il mdA è una malattia neurodegenerativa molto diffusa: nel mondo le persone colpite sono 35 milioni, di cui 800.000÷1.000.000 in Italia (2009, stima dell’Alzheimer’s desease international). La malattia compromette le capacità di portare a termine anche le più semplici attività quotidiane, perché colpisce le parti del cervello che controllano la memoria, la parola e il pensiero. Il cervello dei malati è invaso da aggregati innaturali di due proteine: rispettivamente, la proteina β-amiloide, che si insinua tra i neuroni, e la proteina tau, all’interno delle cellule. Si ipotizza che questi aggregati impediscano ai neuroni di comunicare e rendano difficile la loro sopravvivenza. La β-amiloide deriva dal taglio, operato da due proteasi specializzate chiamate β- e γ-secretasi, di APP (Amyloid Precursor Protein), una proteina di membrana che normalmente svolge un ruolo importante nella crescita e nella riparazione dei neuroni. La β-amiloide è normalmente secreta come un peptide di 42 amminoacidi la cui funzione non è ancora nota. La proteina tau appartiene a una famiglia di proteine associate al citoscheletro di tubulina e il suo corretto funzionamento è importante per il trasporto assonale, la crescita neuritica, la morfologia del neurone e il mantenimento del potenziale di membrana.
Non sappiamo perché e come nelle forme sporadiche di mdA le due proteine siano alterate e formino aggregati; in corso di apoptosi neuronale riprodotta nelle cellule coltivate in vitro, le due proteine subiscono alterazioni in parte sovrapponibili a quelle riscontrate nei cervelli dei pazienti affetti da tale patologia. In particolare, i neuroni apoptotici producono APP e β-amiloide in quantità maggiori. Quest’ultima cambia forma e si aggrega in fibrille di lunghezza variabile sia all’interno della cellula sia nel mezzo di coltura, dove forma strutture simili alle placche senili. Tale evento contribuisce a danneggiare ulteriormente la cellula e le cellule vicine.
La proteina tau viene tagliata dalle caspasi in frammenti che predispongono la proteina a formare aggregati intracellulari e che recano danni ulteriori attivando processi di morte diversi dall’apoptosi, quali la necrosi (Canu, Calissano 2003; Amadoro, Ciotti, Costanzi et al. 2006). L’uso di modelli in vitro ha evidenziato la coesistenza di diversi quadri di morte cellulare, la trasformazione di un tipo di morte cellulare in un altro e, soprattutto, il progressivo coinvolgimento o contagio delle cellule vicine sane: l’esistenza cioè di un quadro molto complesso che rispecchia quanto osservato nei pazienti affetti da tali patologie. L’individuazione delle cause e la comprensione della complessità degli eventi molecolari responsabili, nel tempo, della neurodegenerazione consentiranno lo sviluppo di terapie più mirate, più specifiche e più tollerabili.
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